Bologna. Solidarietà a tavola, le Cucine popolari non chiudono nemmeno ad agosto

Solidarietà a tavola, le Cucine popolari non chiudono nemmeno ad agosto

A tavola siede una famiglia iraniana: sono in cinque, di cui tre bambini sorridenti e affamati. Accanto a loro, una signora imolese: si sono conosciuti un anno fa, alle Cucine popolari e, dopo qualche mese, vivevano sotto lo stesso tetto. «A loro serviva una casa, a me compagnia: le stanze vuote si sono riempite del calore di una famiglia» racconta. Bisogni differenti che si incontrano davanti a una pastasciutta, nella prima periferia diBologna: siamo in una delle tre Cucine popolari sorte in tre anni, quella di via Berti, dove, dal mezzogiorno, si affacciano volti di ogni età anagrafica e di ogni provenienza.

I volontari sono lì dalle 9, cucinano, servono a tavola, poi si siedono a mangiare con gli ospiti. Entra Roberto Morgantini, il carismatico fondatore – e viene subito accolto da abbracci e sorrisi. «Tutto nasce dal mio matrimonio di interesse », scherza. Tuttavia, c’è del vero nella battuta di spirito di Morgantini, quarant’anni di sindacato e tre di matrimonio, con la donna che gli era accanto dai precedenti trentotto. Difficile, per lui, dimenticare l’anniversario di nozze, dal momento che coincide con la nascita delle Cucine popolari.

Agli oltre seicento invitati, infatti, gli sposi avevano chiesto una donazione per questo scopo, superando ogni aspettativa: «Ci hanno fatto il regalo anche tanti semplici cittadini, colpiti dall’iniziativa» racconta. Già da sindacalista, Morgantini si occupava di problemi sociali: «gli ultimi erano sempre i primi nei miei pensieri». Stupisce la citazione evangelica da parte di uno che si professa ateo, «cresciuto nel Pci, ma fare politica significa parlare dei problemi: io, invece, i problemi voglio risolverli. Quando ero giovane, il Pci voleva abolire la povertà per legge, la Chiesa si rimboccava le maniche per sconfiggerla nei fatti» dice.
Definisce ‘un colpo di fulmine’ quello con l’arcivescovo Zuppi, che «non si è perso un compleanno delle Cucine popolari, è uno che vive quello che predica».

L'arcivescovo di Bologna, Zuppi assieme al fondatore di Cucine popolari nella serata del terzo compleanno

L’arcivescovo di Bologna, Zuppi assieme al fondatore di Cucine popolari nella serata del terzo compleanno

Il pensiero va nuovamente al passato: «Per venticinque anni, io e Lucio Dalla abbiamo messo a tavola 125 bisognosi, ogni 6 gennaio. Già da allora, si faceva strada, in me, il desiderio che non fosse un evento sporadico, ma una realtà quotidiana». Le Cucine popolari non ricevono contributi pubblici: «solo solidarietà dal basso, che conta, ad oggi, cento volontari, centinaia di donatori, duecentocinquanta coperti al giorno». Coperti veri, con stoviglie di ceramica: «la plastica dà l’idea della mensa dei poveri, non di casa», dice. Infatti, non ci sono solo persone in difficoltà economica: «Accogliamo persone sole, povere non di redditi, ma di relazioni. Ce le inviano le parrocchie e i servizi sociali, in egual misura, così come metà sono italiani e metà stranieri» racconta il fondatore.
Persino la rock band dei Metallica ha donato 30mila euro alle Cucine popolari: «Il confine fra chi dona e chi riceve è molto labile: la vera povertà dei bolognesi è la solitudine, abbiamo il 30% di famiglie unipersonali » dice Morgantini.
«La nostra vittoria più grande? Il fatto che chi ha usufruito per un po’ del nostro cibo, anche quando non ha più bisogno, torna: per servire a tavola, per donare, per stare in compagnia», si congeda, mentre riceve una telefonata da Milano: «è una ragazza che ha letto di noi su un giornale, vuole rendersi utile durante le sue ferie». Una ricaduta di solidarietà, dunque, che ha ormai valicato i confini bolognesi: «speriamo di essere d’esempio, c’è bisogno ovunque» dice.

da avvenire

Palermo. Lorefice: la lezione di don Puglisi? La cultura arma contro la mafia

in Avvenire

L'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, a Brancaccio, il quartiere dove è stato ucciso padre Puglisi

L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, a Brancaccio, il quartiere dove è stato ucciso padre Puglisi

Il volto sorridente di padre Pino Puglisi spicca in un angolo del salone Filangieri, il vestibolo d’ingresso dell’episcopio di Palermo dove vengono accolte le personalità ricevute dall’arcivescovo. Fra le sei statue dipinte sulle pareti che richiamano le virtù cardinali e teologali, è stato aggiunto su un piedistallo il ritratto del martire della mafia. Quando dallo studio privato esce l’arcivescovo Corrado Lorefice, il suo sguardo si posa sul beato. Fra le mani ha la Lettera pastorale appena scritta dai vescovi della Sicilia. Si intitola Convertitevi e riprende il monito «sgorgato dal cuore» e rivolto agli affiliati delle cosche che Giovanni Paolo II lanciò venticinque anni fa dalla Valle dei Templi di Agrigento. Era il 9 maggio 1993. Il 15 settembre dello stesso anno padre Puglisi sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra di fronte all’ingresso di casa a Brancaccio, il quartiere di Palermo “bunker” della mafia di cui era parroco da meno di tre anni e che stava trasformando a partire dai ragazzi salvati dalla strada e da un destino di morte. «La bellezza dell’impostazione pastorale di don Pino non sta nell’essere stato un prete antimafia – spiega Lorefice –. No, forte dell’eredità del Concilio, aveva compreso nel concreto, a Brancaccio, che il Vangelo doveva tradursi in promozione umana. E aveva fatto fino in fondo quanto è chiamato a compiere ogni sacerdote: conoscere la sua gente e il territorio; leggerli alla luce della Parola di Dio; spronare la comunità affinché il messaggio di salvezza di Cristo diventi una proposta totale di vita, che riguarda lo spirito e il corpo, quindi anche la convivenza umana. Se il cristiano spera in cieli nuovi e terra nuova, allora si indigna di fronte ai soprusi e all’emarginazione e percorre con tutto se stesso le vie della giustizia, della solidarietà, della pace. Questo è il lascito di padre Puglisi».

Eccellenza, papa Francesco sarà fra un mese a Palermo proprio nel giorno dell’assassinio del prete della “rivoluzione evangelica”.

La sua visita nel 25° anniversario del martirio rientra in un itinerario che il Papa sta disegnando nella Penisola intorno a figure e luoghi significativi della Chiesa italiana. Dal Nord al Sud: da Bozzolo a Barbiana, da Nomadelfia a Loppiano, da Molfetta a Palermo. Da don Primo Mazzolari a don Lorenzo Milani, passando per Tonino Bello o Zeno Saltini, fino a don Pino, emerge l’impronta di un Vangelo che sa raggiungere attraverso coraggiosi testimoni la carne degli uomini. E Francesco vuole darci un messaggio chiaro: la Chiesa è tenuta a immettere nella storia degli uomini un fermento capace di trasfigurarla. E le forze occulte del male che sono ben presenti anche nel Mezzogiorno e qui in Sicilia non la fermeranno.

Papa Bergoglio ha già condannato la mafia a Sibari in Calabria. Come avevano fatto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Dal “convertitevi” di papa Wojtyla alle parole di Francesco, è come se si avvertisse un unico grido. È il grido dell’audacia di una Chiesa in grado di ripetere con vigore che ogni atteggiamento mafioso è antievangelico. Così, come vescovi della maggiore isola del Mediterraneo, abbiamo ripreso quell’appello del Papa santo per sollecitare le comunità cristiane, animate dall’energia e dalla gioia dell’Evangelo, ad assumere la sfida formativa come reale possibilità per vincere la mentalità mafiosa.

Giovanni Paolo II con padre Pino Puglisi

Giovanni Paolo II con padre Pino Puglisi

Don Puglisi aveva fatto dell’impegno educativo l’argine alla criminalità organizzata. E per aver scosso le coscienze nel fortino di Cosa Nostra è stato ucciso.

La sua arma, se così possiamo definirla, è stata la cultura. Il potere mafioso trova terreno fertile in un ambiente che ha carenze culturali e civiche. E ha tutto l’interesse che lo Stato non sia presente e non elevi culturalmente l’uomo. Padre Pino lo ha colto a pieno a Brancaccio. Del resto, fin da giovane è stato un efficace educatore e formatore. E ancora di più lo si è rivelato nei tre anni da parroco del suo quartiere d’origine dove ha suscitato una coscienza comunitaria secondo la quale il Vangelo deve essere lievito che cambia la storia anche di un agglomerato come Brancaccio con le sue ferite e le sue speranze. Per questo farà di tutto per avere scuole, centri per anziani e giovani, spazi aggregativi e di confronto.

Nella lotta alla mafia invitava a passare dalle parole ai fatti: i cortei, le manifestazioni non bastano, sosteneva.

È la grandezza della sua testimonianza che passava attraverso la ferialità del vissuto e si incarnava nella concretezza del quotidiano. Ecco perché aveva creato, ad esempio, nel quartiere di Cosa Nostra il Centro di Aggregazione Padre Nostro. Nel rione dove risiedeva la famiglia mafiosa emergente, il “padrino”, don Pino diceva che occorre guardare al “Padre che è nei cieli” e non a colui che è disposto a imporre il suo potere economico spargendo violenza e seminando morte. E se ogni persona sa di essere figlio di Dio, non può che liberarsi da tutti i predomini. È molto concreta la proposta cristiana di don Puglisi: una proposta che abbraccia tutta la vita e che parte da una profonda spiritualità fondata sul primato della Parola che diventa prassi, per una città degli uomini costruita guardando alla città di Dio.

L'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, in un incontro con i giovani organizzato dal Centro Padre Nostro fondato da padre Puglisi

L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, in un incontro con i giovani organizzato dal Centro Padre Nostro fondato da padre Puglisi

Per i 25 anni dall’uccisione è stato presentato il progetto di un asilo nido a Brancaccio, ultimo sogno di “3P”.

Per certi versi il quartiere porta ancora i segni di quel 1993. Ma, come sappiamo, il sangue dei martiri è fecondo. E, nonostante le ferite sociali evidenti, Brancaccio mostra adesso potenzialità di riscatto che non sono solo idee ma anche iniziative autentiche che possono considerarsi emblematiche per l’intera Palermo. Sulla spinta di don Puglisi sono sorte scuole, centri di aggregazione, campi da gioco e forme significative di collaborazione fra istituzioni, Chiesa e associazioni. Anche l’asilo promosso dal Centro Padre Nostro e sostenuto dall’arcidiocesi va in questa direzione.

Com’è presente la mafia oggi?

Non siamo più negli anni delle stragi mafiose. Ma il venir meno di avvenimenti cruenti non può portare ad affermare che la mafia sia scomparsa. Si è solo riorganizzata secondo un’impostazione imprenditoriale, da multinazionale. Si tratta di un camaleonte che fa di tutto per non essere scorto. Pertanto non va abbassata la guardia. E aggiungo che i cristiani non possono ridurre la fede a banale sentimentalismo o a una religiosità esteriore che acquieta le coscienze dentro una realtà sociale così difficile. La fede deve essere pungolo con tutte le sue “capacità evangelicamente eversive”.

La casa-museo di padre Pino Puglisi a Brancaccio di fronte a cui il sacerdote è stato ucciso il 15 settembre 1993

La casa-museo di padre Pino Puglisi a Brancaccio di fronte a cui il sacerdote è stato ucciso il 15 settembre 1993

Padre Puglisi è stato l’uomo del perdono. «Me lo aspettavo», disse ai sicari che stavano per ucciderlo. E due di loro, i collaboratori di giustizia Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, raccontano di essersi pentiti grazie allo sguardo del “parrinu”.

Di fronte alla morte don Pino disegnò sulle sue labbra quel sorriso che è tipico di chi continua a guardare tutto, anche nel momento estremo, con gli occhi del Figlio di Dio, testimone della misericordia del Padre. L’ennesimo messaggio che don Puglisi ci consegna è quello del perdono che ha una forza prorompente. Come discepoli del Risorto, dobbiamo essere annunciatori di riconciliazione, persuasi che la non violenza e la concordia possano davvero cambiare le sorti dei popoli e della nostra casa comune.

COME CONTRIBUIRE AL NUOVO ASILO DEDICATO A PADRE PUGLISI

Un gesto concreto di solidarietà per celebrare il 25° anniversario del martirio del beato Pino Puglisi, il prete siciliano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 di fronte alla sua casa di Palermo. Il Centro di Accoglienza Padre Nostro, voluto dallo stesso padre Puglisi nel capoluogo siciliano, e la Fondazione Giovanni Paolo II, insieme con l’arcidiocesi di Palermo, il Comune di Palermo e Avvenire intendono realizzare l’ultimo sogno del sacerdote “profeta” per il suo quartiere Brancaccio a Palermo: la costruzione del nuovo asilo nido. Posiamo insieme la prima pietra.

È possibile contribuire al “sogno” di padre Pino Puglisi attraverso:
– bonifico bancario intestato a Fondazione Giovanni Paolo II utilizzando il seguente IBAN IT84U0503403259000000160407 (va inserito anche l’indirizzo di chi versa nel campo causale);
– bollettino sul conto corrente postale n. 95695854 intestato a Fondazione Giovanni Paolo II, via Roma, 3 – 52015 Pratovecchio Stia (AR). Causale: “Asilo Don Puglisi”;
– carta di credito o PayPal sul sito www.ipiccolidi3p.it.
Partecipa al progetto con la tua parrocchia o associazione, con i tuoi familiari o amici. Facendo una donazione si avrà diritto alle agevolazioni fiscali previste dalla legge. I dati saranno trattati ai sensi dell’art.13, regolamento europeo 679/2016 (c.d. “GDPR”).

Perù. Ucciso il gesuita padre Carlos Riudavets

Ucciso il gesuita padre Carlos Riudavets

Un sacerdote gesuita spagnolo, padre Carlos Riudavets, è stato ucciso venerdì 10 agosto nella zona amazzonica del Perù, a Yamakentsa (distretto di Chiriaco, provincia di Bagua) nel territorio del vicariato apostolico di Jaén.

Il prete è stato trovato privo di vita nel collegio Valentín Salegui, dove risiedeva. Il suo corpo recava i segni di una morte violenta. La notizia è stata data dalla Provincia peruviana della Compagnia di Gesù. In un comunicato la Conferenza episcopale peruviana, attraverso il suo presidente, monsignor Miguel Cabrejos Vidarte, arcivescovo di Trujillo, esprime il cordoglio in particolare alla Compagnia di Gesù e al provinciale, padre Carlos Morante Buchhammer; chiede inoltre che le autorità accertino velocemente i fatti e individuino i responsabili.

Padre Riudavets, 73 anni, si trovava da quasi 40 anni nell’Amazzonia peruviana, dove si dedicava soprattuttoall’attività educativa tra le famiglie delle comunità indigene. La rete ecclesiale panamazzonica Repam precisa che padre Riudavest arrivò nel 1980 nella zona dell’Alto Marañon e che il sacerdote “era molto caro ai cittadini della zona, soprattutto tra le comunità awajún y wampis”. Nella nota della Repam, si legge che “la vita di padre Carlos nella missione gesuita ci lascia una consegna, un impegno e una responsabilità. Un servizio di amore condiviso con i popoli originari, con i quali hanno preso forma progetti per il futuro che saranno contunuati da coloro che hanno intrapreso con lui l’opera educativa”.

Avvenire

Verso il Sinodo. Il Papa: ragazzi fate grandi sogni, senza testimoni la Chiesa è fumo

in Avvenire

(Siciliani)

(Siciliani)

Oltre 70mila ragazzi sono arrivati da ogni parte d’Italia a Roma per incontrare papa Francesco al Circo Massimo.Testimoni della voglia di darsi da fare, di mettersi in gioco, di trovare la propria strada. D’altra parte è proprio «per mille strade» che almeno 40mila di loro, di 195 diocesi, hanno camminato nell’ultima settimana. E qui hanno trovato altre migliaia di giovani. Un incontro che rappresenta una tappa importante nel cammino verso il Sinodo dei giovani

L’invito a non essere pessimisti, a rischiare, a sognare e ad andare avanti. Senza la scorciatoia delle pastiglie. L’esortazione a rischiare anche «nell’amore vero» – da non confondere con «l’entusiasmo amoroso truccato d’amore» – e di non rinviare il matrimonio per la carriera o altri interessi. La denuncia del clericalismo, «perversione della Chiesa», che si sviluppa quando non c’è la testimonianza cristiana, perché «dove non c’è testimonianza, non c’è lo Spirito Santo». Papa Francesco ha preparato le risposte alle domande che gli erano state anticipate. Ma ascoltando le parole e il calore con cui vengono scandite, abbandona più volte il testo scritto e in pratica parla a braccio. Davanti a sé ha le decine di migliaia di giovani stipati nel Circo Massimo per l’evento di incontro e preghiera promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana in preparazione al Sinodo di ottobre.

(Siciliani)

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Rispondendo alle domande di Letizia e Lucamatteo il Pontefice ha ribadito che un giovane se «non sa sognare è un giovane anestetizzato, non potrà capire la forza della vita, i sogni ti svegliano». «È triste vedere i giovani da divano – ha aggiunto –. Giovani senza sogni che vanno in pensione a 22 anni. Il giovane che sogna cose grandi va avanti, non va in pensione presto. I sogni grandi sono capaci di seminare pace, fraternità e pace». Il Papa ha fatto l’esempio di san Francesco che «ha sognato in grande» e che «ha cambiato la storia d’Italia», anche «se dicevano che era un pazzo…». I sogni, ha spiegato il vescovo di Roma, non vengono dalle «pastiglie» che «bruciano i neuroni» e «rovinano la vita», ma sono un «dono di Dio». E poi i sogni grandi, quelli «capaci di essere fecondi, di seminare pace e fraternità», sono tali «perché pensano a tutti» non con l’”io” ma «con il “noi”». Ricordando sempre che il contrario dell’”io” non è il “tu” (questo «è il seme della guerra») ma, appunto, il “noi”. Papa Francesco cita una frase di san Giovanni XXIII: «Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene». «Impariamola, ci servirà nella vita», rimarcando che «è la paura che ti fa pessimista».

(Siciliani)

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Il tema dell’amore, quello vero, il Papa lo affronta dopo aver ascoltato la «coraggiosa» Martina, che per la forza con cui ha pronunciato il suo intervento potrebbe essere – sorride – «la nipote di san Giovanni Crisostomo». «È pericoloso parlare ai giovani dell’amore? – ha detto il Pontefice – No, non è pericoloso, perché i giovani sanno bene quando c’è l’amore e quando c’è il semplice entusiasmo truccato da amore. L’amore non è una professione. L’amore è la vita. Se l’amore viene oggi, perché devo aspettare tre, quattro, cinque anni, di finire l’università, per farlo crescere, per farlo stabile? Per questo io chiedo ai genitori di aiutare i giovani a maturare. Quando c’è l’amore, che l’amore maturi, non spostarlo sempre più avanti». «Nella vita – ha insistito il Papa – sempre prima l’amore, ma l’amore vero, e lì dovete imparare a discernere quando c’è l’amore vero e quando c’è l’entusiasmo solo». «L’amore non tollera mezze misure. O tutto o niente – ha aggiunto –. E l’amore, per farlo crescere, non vuole scappatoie: l’amore dev’essere sincero, aperto, coraggioso. E nell’amore tu devi mettere tutta la carne sulla grigliata, così diciamo noi in Argentina».

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L’ultima domanda al Papa l’ha fatta Dario. In questo caso papa Francesco ha interamente fatto proprie alcune frasi, «forti», del giovane infermiere. E cioè che la Chiesa «sembra sempre più distante e chiusa nei suoi rituali». Infatti «per i giovani non sono più sufficienti le “imposizioni” dall’alto», ma «servono delle prove e una testimonianza sincera di Chiesa». Invece «gli inutili fasti e i frequenti scandali rendono ormai la Chiesa poco credibile ai nostri occhi». «Dario ha messo il dito nella piaga», ha commentato il Pontefice, denunciando «lo scandalo di una Chiesa formalista, chiusa» e che quindi «non da testimonianza». Insomma «la Chiesa senza testimonianza è soltanto fumo». Rispondendo a Dario il Papa ha anche affermato che l’attuale traduzione italiana della frase «non ci indurre in tentazione» del Padre Nostro, tanto che è stata già «aggiustata» – nella Bibbia Cei ma non ancora nella liturgia – perché suona «equivoca»; mentre una versione «più appropriata» è «non abbandonarci alla tentazione», nel senso «trattienici dal fare il male, liberaci dai pensieri cattivi…».

(Siciliani)

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Dopo il dialogo-confronto c’è stato il momento di preghiera. All’interno della quale Papa Francesco ha commentato il Vangelo proclamato, il passo in cui il giovane Giovanni corre più veloce di Pietro verso il Sepolcro vuoto. «Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila. – ha esortato – Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fratellanza. Rischiate, andate avanti». «Non abbiamo paura – ha concluso il Papa – Non stiamo alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte. Quanti sepolcri oggi attendono la nostra visita. Quante persone ferite, anche giovani, hanno sigillato la loro sofferenza mettendoci – come si dice – una pietra sopra». È il mandato per il ritorno a casa.

Oltre 70mila ragazzi, arrivati da da ogni parte d’Italia a Roma sono al Circo Massimo per incontrare papa Francesco. Testimoni della voglia di darsi da fare, di mettersi in gioco, di trovare la propria strada. D’altra parte è proprio «per mille strade» che almeno 40mila di loro, di 195 diocesi, hanno camminato nell’ultima settimana. L’incontro rappresenta una tappa importante nel cammino verso il Sinodo dei giovani

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO: le domande dei giovani e le sue risposte – il saluto


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