Reggio Emilia, il vescovo Camisasca colto da malore e ricoverato in ospedale Mons. Massimo Camisasca trasferito ieri sera da Giandeto al Santa Maria Nuova

Il vescovo Massimo Camisasca

Reggio Emilia, 10 agosto 2018 – Il vescovo di Reggio e Guastalla, monsignor Massimo Camisasca, è stato ricoverato all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio in seguito a un malore che lo ha colpito ieri mentre si trovava in soggiorno a Giandeto di Casina.

In serata è stato trasportato all’arcispedale cittadino per alcuni accertamenti. Sembra che il malore sia dipeso da una infezione. Dopo le prime cure il vescovo ha dato segni di evidente miglioramento nelle sue condizioni generali.

Sono previsti comunque alcuni giorni di ricovero per eseguire tutti gli accertamenti clinici. Poi è prevista una convalescenza di un paio di settimane. Sono ovviamente annullati gli impegni dei prossimi giorni, tra cui la messa prevista per domani a Roma con i giovani reggiani attesi all’incontro con Papa Francesco, oltre che la messa in Cattedrale nella solennità dell’Assunta. Al vescovo in queste ore stanno arrivando tanti auguri di pronta guarigione.

ilrestodelCarlino

Reggio Emilia, il vescovo Massimo Camisasca ricoverato in ospedale

In base ai primi accertamenti, la causa del malessere è da ricercare in un’infezione. Al momento sono previsti alcuni giorni supplementari di ricovero, cui seguirà un periodo di convalescenza di un paio di settimane.

Gazzetta di Reggio

Nella giornata di giovedì 9 agosto, mentre si trovava in soggiorno a Giandeto (Casina), il vescovo di Reggio Emilia e Guastalla Massimo Camisasca ha accusato un malessere in conseguenza del quale è stato in serata ricoverato, in osservazione, all’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

In base ai primi accertamenti, la causa dell’indisposizione è da ricercare in un’infezione. Dopo le prime cure, lo stato di salute del Vescovo risulta in via di miglioramento.

Al momento sono previsti alcuni giorni supplementari di ricovero ospedaliero, cui seguirà un periodo di convalescenza di un paio di settimane.

Monsignor Camisasca è costretto pertanto ad annullare i prossimi impegni, in particolare la messa mattutina di sabato 11 agosto a Roma con un gruppo di giovani reggiani diretti all’incontro con Papa Francesco e la celebrazione in Cattedrale nella solennità dell’Assunta.

Turchia. Affonda gommone: 9 morti, di cui 7 bambini

Un gommone cui viaggiavano dei migranti è affondato al largo delle coste turche nel Mar Egeo: 9 cadaveri ritrovati. Solo quattro persone sono state salvate. Le autorità turche: non ci sono dispersi

in Avvenire

Foto d'archivio

Nella notte tra mercoledì 8 e giovedì 9 agosto un gommone è naufragato al largo delle coste turche nell’Egeo: sopra c’erano 13 persone. Nove hanno perso la vita. Tra le vittime ci sono sette bambini e due donne. Non si conosce la loro identità, ma solo la loro nazionalità: irachena.

Si muore nel silenzio ogni giorno. In Italia, in Grecia. Sulla terraferma, nei campi profughi, in mare, che sia sulla pericolosa rotta del Mediterraneo centrale che sia su quella più breve che separa la Turchia dalla Grecia, sempre alla ricerca di una feritoia per entrare nella fortezza Europa. Nei primi sei mesi del 2018 ogni sedici persone partite, ne è morta una, affogata. Nelle ultime settimane, la percentuale è salita ancora. Uno a sette, un genocidio sotto i nostri occhi.

Secondo quanto comunicato da una nota diffusa dal ministero dell’Interno turco, l’allarme del naufragio del gommone al largo delle coste turche di Kusadasi è stato lanciato intorno alle 3.30 del mattino di giovedì 8 agosto: sono state inviate sul posto due navi della Guardia costiera e una squadra di immersione. L’inizio dei soccorsi è iniziato poco prima delle 4 del mattino, con l’aiuto di un elicottero e un aereo. A bordo dell’imbarcazione che si è rovesciata sembra che non ci fossero i giubbotti di salvataggio: per questo motivo nove persone sono morte annegate in attesa dei soccorsi. A pagare con la vita sono stati soprattutto i bambini, sette delle vittime erano minori stando a quanto confermato dall’amministratore del distretto di Kusadasi (nella provincia di Aydin), Muammer Aksoy. Due le donne, sempre di nazionalità irachena.

Dalle poche informazioni provenienti dalle agenzie di stampa turche, su tutte Anadolu, si sa che il gommone era diretto verso le isole greche. E sempre il rappresentante del distretto di Kusadasi ha dichiarato che tutti i corpi sono stati recuperati e che non ci sarebbero stati altri dispersi in mare. Le 9 vittime vanno ad aggiungersi alle 54 morte annegate al largo delle coste turche nei primi 7 mesi dell’anno, e descritte nelle statistiche ufficiali della Guardia costiera come “migranti irregolari”.

Nonostante i riflettori internazionali si siano progressivamente spostati dalla rotta balcanica a quella del Mediterraneo centrale, l’esodo di migliaia di persone in viaggio dalla Turchia, attraverso la Grecia, verso il nord Europa non si è mai fermato, così come non sono cessate le proteste fra i richiedenti asilo, bloccati sulle isole greche per le condizioni indegne dei centri di accoglienza e l’impossibilità di spostarsi liberamente sulla terraferma. Lo scorso 17 aprile la Corte suprema di Atene aveva annullato la decisione del governo greco di imporre limitazioni geografiche ai richiedenti asilo arrivati sulle isole, ma tuttora la realtà per i profughi non è migliorata: a Lesbo, ad esempio, ci sono almeno 10mila persone bloccate, di cui, stando agli ultimi dati del ministero dell’Interno greco, 7.400 si trovano ancora nei campi ufficiali, che in verità potrebbero ospitarne fino a 3.100.

Nonostante la chiusura delle frontiere dei Paesi balcanici e la firma dell’accordo Ue-Turchia nel marzo 2016 per lasciare mano libera al presidente turco Erdogan sulla gestione dei confini dell’Europa, quel che appare evidente è che la rotta balcanica ha continuato a essere una grandissima fonte di guadagno per i trafficanti, grazie anche alla prassi illegale dei continui respingimenti. I numeri dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parlano nel 2017 di 172mila ingressi attraverso l’Egeo, a cui si aggiungono quelle decine di migliaia persone bloccate tra Serbia e Bosnia, oltre nuovi arrivi del 2018 (nei mesi estivi, in media 100 persone al giorno entrano nella penisola balcanica dalla Grecia, ndr).

Dall’Acnur Serbia è arrivata, ieri, la denuncia, non nuova, di altri respingimenti violenti e illegittimi soprattutto per persone di nazionalità afghana, pachistana e irachena: soltanto nelle ultime due settimane 197 persone sono state respinte illegalmente dalla Croazia, 54 dalla Romania e 63 dall’Ungheria. Infine, restano sotto accusa da parte di molti analisti internazionali anche quei 6 miliardi di euro versati nelle casse di Ankara dall’Europa che voleva esternalizzare le sue frontiere, a discapito anche dei diritti umani e delle condizioni di vita di migliaia di persone. Lo stesso meccanismo di ricollocamento in Turchia dei siriani rimasti bloccati sulle isole greche ha dimostrato di non funzionare: nonostante fossero stati forniti da Bruxelles 60 milioni di euro alla Turchia per questo specifico obiettivo, meno di 1.200 profughi sono partiti da Atene per Istanbul.

Yemen. Raid aereo colpisce scuolabus, morti 29 bambini

da Avvenire

Raid aerei sulla città di Saada in Yemen, Reuters

Raid aerei sulla città di Saada in Yemen, Reuters

Almeno 29 bambini sono morti, insieme ad altri 18 adulti, e 50 persone sono state ferite nel nord dello Yemen in seguito a raid aerei che hanno colpito uno scuolabus e un affollato mercato nella provincia di Saada. L’attacco, secondo i leader tribali locali, è stato sferrato dalla coalizione a guida saudita che sta colpendo ilgruppo armato Houthi vicino all’Iran. In un comunicato l’alleanza ha spiegato che i raid aerei avevano come obbiettivo dei lanciamissili che erano stati usati per attaccare la città saudita di Jizan uccidendo un civile yemenita.

Ospedale della Croce Rossa accoglie feriti, Twitter

Ospedale della Croce Rossa accoglie feriti, Twitter

L’alleanza a guida saudita, che combatte il movimento Houthi, nel vicino Yemen, dal marzo 2015, dopo che ha portato all’esilio il presidente yemenita Abd-Rabbu Mansour Hadi, lo ha accusato di usare bambini come scudi umani. L’attacco a Saada, in Yemen, “è un’ azione militare legittima contro gli elementi che hanno colpito ieri civili a Jizan”, nel sud dell’Arabia Saudita, ha detto il portavoce della Coalizione a guida saudita in Yemen, Turki al-Maiki.

Cosa dare e chiedere ai ragazzi. Basta parole vuote

I due tredicenni pistoiesi che hanno confessato di essere stati gli autori degli insulti e degli spari (a salve) esplosi contro il giovane gambiano giovedì scorso nei pressi della parrocchia di Vicofaro, raccontano molto di noi: ci spiegano dove stiamo sbagliando e tutto ciò che non dovremmo mai fare. Gli adolescenti a quell’età assomigliano a cartine di tornasole, non tanto perché gli adulti che avrebbero dovuto educarli hanno tagliato la corda, si sono eclissati, oppure, peggio ancora, sono stati davanti a loro come pupazzi. Queste diserzioni sono clamorose, ma non bastano a comprendere la crisi che viviamo. La situazione è assai più grave e chiama in causa i valori civili, sociali e morali che stiamo consegnando ai nostri figli: negli anni abbiamo costruito un mondo finto dove ogni desiderio sembra poter essere esaudito e chi commette un danno si crede in diritto di non pagare il prezzo del risarcimento.
Questi discoli, chiamiamoli così, in quanto non ancora quattordicenni, sono stati riconsegnati alle rispettive famiglie, ma noi ci dovremmo mettere in testa che la non punibilità giuridica dei piccoli monelli ci riguarda nel profondo, assai più di quanto sarebbe se i responsabili fossero adulti già in galera. Penso alle reazioni che, dopo certi fatti accaduti negli ultimi tempi, abbiamo registrato.

Tiro al bersaglio sul migrante? Giochi di ragazzi. Lanci di uova contro la campionessa nera? Goliardate. Attacchi ai rom? Strumentalizzazioni. Ci siamo invischiati in surreali discussioni su razzismo sì o razzismo no, come se tali distinzioni aggiungessero elementi essenziali al dibattito, senza renderci conto del mostro che stiamo allevando: un coacervo di individualismo, indifferenza, ipocrisia, egoismo, stupidità camuffato, nemmeno troppo bene, da vitalismo euforico e consumistico.

Cosa possiamo fare? La classe politica, schiava del consenso, almeno in questa fase sembra amorfa, incapace di offrire strade alternative: nessuna indicazione su quali dovrebbero essere i temi condivisi, la vegetazione culturale in grado di progettare i modi di stare insieme. La famiglia, anche se per fortuna esistono sempre genitori attenti e premurosi, sta attraversando una tempesta identitaria. La scuola pare più concentrata a valutare le competenze degli alunni piuttosto che a favorire i processi conoscitivi delle future generazioni. Gli intellettuali sembrano sotto scacco perché la rivoluzione informatica, evidenziando ogni intervento, tende a mettere sullo stesso piano qualsiasi opinione, come se tutti avessero la medesima legittimità per parlare. Anche la Chiesa, non essendo un’isola staccata dal mondo, è combattuta fra l’ideale, siamo in molti a considerarlo magnifico, dell’ospedale da campo propugnato dal Papa e la sensibilità storica e istituzionale dei suoi organismi.

Ecco perché il Sinodo dei giovani è così importante: se tutti i pellegrini che sabato confluiranno al Circo Massimo si trasformassero, una volta tornati a casa, in avanguardie etiche capaci di coinvolgere i loro coetanei meno motivati o forse semplicemente più soli, allora davvero, voglio sperare, potremmo avere una scossa positiva. A darcela potrebbero essere, paradossalmente, i colpevoli di questi episodi infami.

Mi spiego. Io i due pistoiesi li accompagnerei in Gambia, nazione di provenienza del migrante offeso, in uno sperduto villaggio ai confini col Senegal, Sare Gubu; gli presenterei un ragazzino che porta il mio nome. Tredici anni loro. Tredici anni lui. Si conoscerebbero. Giocherebbero a pallone. Farebbero amicizia. Tutti e tre capirebbero tante cose. I giovani italiani non gli direbbero sporco negro bastardo, come hanno apostrofato il profugo senza sapere chi era. Diventerebbero grandi insieme. E Alì Bubacar Eraldo Affinati magari, in cambio della promessa di poter un giorno venire da noi, sarebbe disposto a dare loro perfino la maglietta di Lionel Messi. Lo so: è soltanto un sogno. Ma proprio di questo avrebbero bisogno i ragazzi: esperienze vere, non parole vuote.

avvenire