Minori da soli e tra sporcizia a Napoli

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(ANSA) – NAPOLI, 17 LUG – Cinque minori che dormivano da soli in un terraneo di via Santa Maria Antesaecula nella zona di Forcella, a Napoli: nessun adulto ma tanta sporcizia e anche fili elettrici scoperti. Li hanno trovati gli agenti dell’Unità Operativa Tutela Emergenze Sociali e Minori della Polizia Municipale, durante un’attività di verifica nel centro storico sugli allacci abusivi alla rete elettrica.
In due “bassi” gli agenti hanno trovato i cinque minori addormentati e in assenza di adulti: i locali erano molto sporchi con suppellettili e masserizie sparse ovunque; inoltre vi erano fili elettrici scoperti e penzolanti tra vari ambienti che si raccordavano ad un allaccio abusivo alla rete elettrica cittadina, considerato estremamente pericoloso dai tecnici presenti. Solo dopo ore si sono presentati negli uffici due donne e un uomo che hanno dichiarato di essere i genitori: i ragazzini sono stati affidati a loro che comunque sono stati denunciati alla magistratura per il reato di abbandono di minore.

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Mafia: colpo al clan Casamonica, 31 arrestati e 6 ricercati

Colpo al ‘clan Casamonica’. E’ di 31 arresti e sei persone al momento ricercate il bilancio di una maxi operazione dei Carabinieri del Comando provinciale di Roma. I militari stanno eseguendo tra la Capitale e le provincie di Reggio Calabria e Cosenza 37 misure cautelari in carcere, emesse dal gip di Roma su richiesta della locale Dda. Sono ritenuti responsabili, in concorso fra loro e con ruoli diversi, di aver costituito un’organizzazione dedita al traffico di droga, estorsione, usura, commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Dalle prime luci dell’alba, circa 250 carabinieri del Comando provinciale di Roma, con l’ausilio di unità cinofile, un elicottero dell’Arma e del personale dell’8° Reggimento Lazio, sono impegnati fra Roma e le provincie di Reggio Calabria e Cosenza per eseguire le 37 misure cautelari in carcere, emesse dal gip di Roma su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia, nei confronti di persone accusate di avere costituito e preso parte all’associazione mafiosa denominata “clan Casamonica”. Per gli inquirenti il ruolo apicale di promotore è ricoperto da Giuseppe Casamonica, recentemente uscito dal carcere dopo circa 10 anni di detenzione. Gli arrestati sono anche ritenuti responsabili, in concorso fra loro e con ruoli diversi, di aver costituito un’organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione, usura, concessione illecita di finanziamenti ed altro, tutti commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Al momento i provvedimenti eseguiti sono 31 e altri 6 soggetti ricercati.

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Mattarella, investire in formazione

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(ANSA) – ROMA, 17 LUG – “Rivolgendomi agli imprenditori non ho bisogno di sottolineare il valore centrale delle risorse umane e la necessità che le loro capacità siano adeguate agli obiettivi di una crescita ambiziosa e, opportunamente, condivisa. Investire in formazione significa rafforzare non soltanto le aziende, ma l’intero capitale sociale di un Paese”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella parlando oggi a un forum economico in Georgia dove si trova in visita di Stato.

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Il pane è nato prima dell’agricoltura, circa 14.000 anni fa

Una delle strutture di pietra nelle quali veniva cotto il pane più antico mai scoperto (fonte: Alexis Pantos) © Ansa

Il pane è molto più antico di quanto si pensasse, così antico da essere nato prima dell’agricoltura: gruppi di cacciatori-raccoglitori lo preparavano già 14.400 anni fa utilizzando cereali selvatici. La scoperta, pubblicata sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Pnas, si deve alla collaborazione fra le università britanniche di Cambridge e University College di Londra con quella danese di Copenaghen.

Il pane più antico finora noto, che anticipa di 4.000 anni la prima documentazione di questo alimento, è stato scoperto nella località nel Nord-Est della Giordania, nel sito popolato dai cacciatori-raccoglitori natufiti. Gli studiosi non escludono che la necessità di avere a disposizione il pane possa avere spinto i cacciatori-raccoglitori a trasformarsi lentamente in agricoltori.

I ricercatori hanno analizzato 24 resti del pane più antico del mondo nelle ciotole trovate nel sito, scoprendo tracce di orzo, farro e avena: i semi erano stati raccolti, setacciati e impastati prima di essere cotti. Era un pane non lievitato, simile a quello trovato negli insediamenti più recenti, all’epoca della rivoluzione agricola del Neolitico e in quella romana.

“Adesso resta da verificare se la produzione e il consumo di pane da cereali selvatici abbia o meno influenzato la comparsa delle prime colture domestiche”, ha osservato il primo autore della ricerca, l’archeobotanico Amaia Arranz Otaegui, dell’università di Copenaghen. I natufiti sono infatti considerati una popolazione di transizione dalla cultura dei cacciatori-raccoglitori a quella tipica delle popolazioni sedentarie.

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Test italiano semplice e low cost predice chi avrà la demenza

Test sarà rivolto a persone con un lieve declino cognitivo © Ansa

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Verso un test semplice e low cost per predire chi si ammalerà di demenza (tra cui Alzheimer). Basato su un prelievo di sangue e un elettroencefalogramma (Eeg), il test sarà rivolto a persone con un lieve declino cognitivo che hanno un rischio demenza 20 volte maggiore.
E’ stato sviluppato nell’ambito di una ricerca italiana pubblicata sulla rivista Annals of Neurology e coordinata da Paolo Maria Rossini, direttore dell’Area di Neuroscienze della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS, con la collaborazione – tra gli altri – di Fabrizio Vecchio dell’IRCCS San Raffaele Pisana e di Camillo Marra, responsabile della Clinica della Memoria del Gemelli.
“Grazie a questo studio conoscere chi si ammalerà di demenza tra i soggetti a rischio sarà semplice e rapido perché basteranno un normalissimo Eeg (analizzato con metodi sofisticati) e un prelievo (un test genetico per la ricerca di una mutazione legata all’Alzheimer, sul gene ApoE)”, spiega Rossini. “A oggi manca nella pratica clinica un test siffatto, che consentirà di iniziare il prima possibile i trattamenti medici e riabilitativi, introdurre le necessarie modifiche nello stile di vita e orientare per tempo scelte anche difficili che si è costretti ad affrontare in caso di diagnosi di demenza”.
“Il test è utilizzabile da subito nella pratica clinica – rileva – ma è previsto un suo ‘collaudo’ all’interno di un progetto di ricerca comparativa denominato INTERCEPTOR, di recente finanziato da AIFA e Ministero della Salute”.

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“Rifarsi una vita”, oltre il carcere

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Abbiamo scelto come risposta all’esigenza di giustizia il carcere, che non riabilita. Altri tipi di pena sarebbero più costruttivi. Abbiamo bisogno di storie, che ci parlino non di problemi astratti o inventati, ma della vita delle persone, della realtà che vivono, vista dal di dentro, in modo da coglierne il senso.

Rifarsi una vita. Storie oltre il carcere (EDB, Bologna 2018), curato da Paolo Beccegato e Renato Marinaro di Caritas Italiana, è un piccolo libro di grandi storie: grandi non perché riguardano personaggi famosi o fatti eclatanti, ma perché raccontano persone comuni che però fanno una cosa eccezionale: prendono coscienza di sé e dei propri atti, scoprono che, nonostante gli errori, qualcuno si fida di loro e loro possono fidarsi di qualcuno, e cambiano. Persone finite in carcere per i più diversi motivi, spesso complici le difficili situazioni in cui vivevano, ma che grazie alle persone, ritrovano la strada giusta, riescono a rifarsi una vita.

Il carcere non funziona. Sottolineo grazie alle persone, non al carcere. Perché le storie di queste persone sono interessanti in sé, ma anche in quanto ribadiscono un’idea di pena che oggi non è molto condivisa dall’opinione pubblica, ma che è indicata nel dettato costituzionale: la pena non solo come punizione, ma come percorso di rieducazione.

Emergono, da queste storie, due temi fondamentali, quando si parla di pena. Il primo è che per accompagnare le persone a rifarsi una vita è necessaria una pedagogia relazionale, che si attua attraverso il «farsi prossimo», perché, come scrive nell’introduzione Francesco Soddu, «è nella relazione con gli altri, nell’essere riconosciuti persone, pur nella consapevolezza delle proprie responsabilità, che può iniziare un percorso di rinascita».

Il secondo è che il carcere non porta a un cambiamento, perché non porta la persona a riflettere e a prendere coscienza di quello che ha fatto, anzi, spiega Alessandro Pedrotti nella post fazione, «chi oggi trascorre tutto il tempo della pena in carcere, in una condizione di sovraffollamento, in carceri fatiscenti, si vede come vittima e non come autore di reato».

Il ruolo del volontariato. Da queste due constatazioni, discende il ruolo del volontariato, che la Caritas ha ben chiaro. Un ruolo che non è solo quello, pur indispensabile, di sostegno e aiuto concreto dentro e fuori dal carcere, per costruire percorsi di autonomia e integrazione. Ma è anche quello, altrettanto fondamentale, di «mettere in discussione la funzione del carcere stesso e il perché la nostra società abbia dato come risposta primaria all’esigenza di giustizia non la pena, ma il carcere, l’allontanamento dalla società» (Alessandro Pedrotti).

Il carcere, in fondo, è il fallimento di un’idea di persona, di un’idea dei diritti, di un’idea di società.

Paolo Beccegato – Renato Marinaro (a cura di), Rifarsi una vita. Storie oltre il carcere, Introduzione di Francesco Soddu. Postfazione di Alessandro Pedrotti, EDB, Bologna 2018, pp. 144, € 10,00. Recensione pubblicata su retisolidali.it il 7 luglio 2018.

La comunità e il ministero

patena sollevata

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Proviamo a fare un esercizio di fantasia, a immaginare che il «ministero» nella Chiesa e per la comunità cristiana non sia solo una questione cattolica ma tocchi anche altre confessioni – cosa che accade raramente quando si discute della questione del prete tra di noi (cattolici, appunto). Almeno per uscire dallo specchio incantato che ci fa pensare che sia un problema solo nostro, che un mero aggiustamento strutturale possa risolvere tutte le difficoltà che si presentano.

Allora potremmo accorgerci non solo di non essere soli, ma anche che il nodo della questione non è tanto il ministero preso in se stesso, ma la sua destinazione a una precisa comunità cristiana. A mio avviso, sono proprio i processi di genesi, configurazione ed edificazione di quest’ultima che sono profondamente mutati negli ultimi cinquant’anni. Questo, senza averli presi e prenderli debitamente in considerazione quando all’interno di una Chiesa (qualsiasi sia la sua confessione) si affronta il tema del ministero.

La destinazione del ministero

E se il ministero è destinato a una concreta comunità cristiana (e credo che questo possa essere un tratto portante comune alla Chiesa cattolica e alle Chiese della Riforma), non si può scomporre ministero e comunità trattandoli come fossero quasi due corpi estranei, che si toccano fra loro solo per fato/caso o in ragione di questioni di organizzazione amministrativa.

Se cambia il modo di essere della comunità cristiana, le forme del vissuto credente al suo interno, il vivere umano complessivo a cui si rivolge l’annuncio del Vangelo, il ministero non ne rimane immune e impermeabile. Non lo può essere, perché non si tratta di due realtà distinte che sussistono l’una a prescindere dall’altra. Scomporre il legame fra comunità cristiana e ministero può essere fatale per entrambi, e direi che poco importa se quella comunità è cattolica o luterana oppure riformata. Lungo tutto l’asse confessionale cristiano, quando si ragiona così, sia la comunità sia il ministero entrano in fibrillazione e rischiano una lenta ma inesorabile erosione.

Il ministero, ovunque venga esercitato in modi e forme diverse nel cristianesimo europeo, non vive di se stesso, la sua ragione d’essere rimane un «altro» che lo precede sempre, che rimane irriducibile, e che raramente coincide con la nostra rappresentazione che ce ne siamo fatti. È per questo che il ministero non può guardare solo a se stesso quando si pensa e viene pensato. Questo «altro» indisponibile fa il ministero tanto quanto la scelta di un credente/una credente di entrare in questa forma di vissuto cristiano.

Le Chiese cristiane e l’esercizio del ministero

Se le confessioni cristiane si parlassero un po’ di più tra loro, lasciando da parte gli stereotipi che ognuna si è fatta dell’altra e accettando come ognuna è divenuta nel corso di una storia che comunque ci accomuna, allora potrebbero cadere tanti «miti» che ciascuna coltiva in se stessa; e ci si accorgerebbe che tutti oggi siamo posti davanti a una medesima sfida quando si tratta della circolazione del Vangelo e del Dio di Gesù nei nostri territori europei.

Magari ci accorgeremmo che tutti condividiamo una «mancanza» di ministero rispetto all’effettività delle comunità cristiane a cui esso dovrebbe essere destinato. Stanti le condizioni diverse nelle varie confessioni di accesso al ministero, cosa vuol dire allora questa comune condizione trans-confessionale del rapporto fra comunità cristiana e il ministero stesso?

Ma, probabilmente, ci accorgeremmo anche che il ministero sta comunque sotto una forma di obbedienza che ne plasma l’esercizio. Condivisa da tutte le Chiese è quella al Vangelo, ma poi anche all’interno di ogni confessione vi è un’obbedienza al modo proprio di essere di ciascuna Chiesa. Sarebbe solo pensiero magico immaginarsi che l’obbedienza sinodale delle Chiese della Riforma sia più semplice, libera da vincoli e gratificante di quella gerarchica della Chiesa cattolica. Semplicemente è diversa, ma non meno impegnativa per il singolo credente che esercita il ministero.

L’orizzonte pastorale

Se passiamo dagli assetti dogmatici e canonici a quelli del ministero in esercizio, potremmo accorgerci che il ministero, nel suo legame effettivo con una concreta comunità cristiana, sta vivendo una stagione di sorprendente prossimità ecumenica. Per questo farei attenzione a trattare la vita pastorale come un restringimento di orizzonti per chi decide di vivere la propria fede come servizio alla fede di altri all’interno e per una comunità cristiana, qualsiasi nome diamo poi a questa raffigurazione concreta di vita credente.

Milani e i vescovi, la parola e noi

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«Un contributo perfino provocatorio che inviti a un uso nuovamente coraggioso e libero della parola». Scrivono così, i 18 vescovi toscani, in una lettera che prende spunto dal mezzo secolo dalla morte di don Lorenzo Milani, e dalla visita a Barbiana compiuta da papa Francesco un anno fa, per impegnare comunità ecclesiale (ma – ritengo – anche comunità civile) in riflessioni serie su comunicazione e formazione.

La lettera sta uscendo con le Edizioni Dehoniane di Bologna. Ho avuto il privilegio di poterne vedere il testo, giorni fa, salendo a Barbiana con altri giornalisti toscani UCSI. Ce ne ha parlato don Alessandro Andreini, nostro assistente ecclesiastico: un comunicatore di bella ed efficace penna, certo non estraneo né al motivo per cui i vescovi hanno deciso di fare questo passo né ai contenuti del testo.

Un testo che si apre con tre «dediche»: un Luca evangelista, che ricorda il rapporto fra insegnamento di Cristo e sua autorità (e dunque credibilità); un Lorenzo Milani, sintetizzato in quattro sue parole fondamentali («La lingua fa eguali»); un Mario Luzi, con la bellezza di una sua lirica («Vola alta, parola») che unisce Assoluto e umanità.

Otto i capitoli di un documento che si fa leggere bene, ma che impegna. E in un contesto nel quale impegno e lettura sono considerate oscenità è tristemente facile ipotizzare che fine rischia di fare.

Molte e in genere emozionanti le citazioni. Evidente, per chi abbia ancora voglia di non arrendersi, la sua  utilità pratica: il «ridare la parola ai poveri», che poi oggi siamo in tanti, potrebbe essere messaggio ri-fondante, ad esempio, anche per una politica troppo spesso ingannatrice; ma anche per un sistema mediatico, ancella di poteri sempre più misteriosi, che sta perdendo ogni rispetto per sé stesso e per il servizio chiamato a svolgere verso i cittadini.

Un documento che alza il velo su questioni di enorme impatto. Non so se riesce, in tutto, a «saldare il debito di riconoscenza» accumulato, dalle Chiese toscane e non solo, nei confronti di don Lorenzo Milani (forse sarebbe stato bello pronunciare, senza timore, una delle tre parole – la terza – che Francesco indica come il segreto nella relazione di coppia: «permesso, grazie, scusa»). Ma non può sfuggire l’importanza che tutti i vescovi toscani si ritrovino in un documento come questo.

Adesso la parola, in un testo che si intitola La forza della parola, spetta non solo ai vescovi ma all’intera Chiesa: spetta certo al clero (provocante ciò che don Lorenzo scriveva all’amico don Ezio Palombo sull’obbligo, per i preti, di «rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce»). Ma spetta a ciascuno di noi: sia a chi opera nei complicati mondi della informazione e della formazione, sia a un pubblico (concetto non casuale) ormai vittima di «strategie della distrazione» in cui tutti ci crogioliamo felici.

Intriganti i ripetuti inviti, dai vescovi, a «cercare parole nuove», a farlo con «coraggio» e «fantasia», a non farsi ingannare dalla «parola che distrae», a «non spegnere ogni scintilla che sprizzi», a «chiamare le cose con il loro nome», a «dominare le parole per capire il mondo», a «osare senza paura nuove forme espressive e nuove sintesi», a «non restare indifferenti al muro che l’ignoranza civile pone», ad «assumere lo spirito libero dei grandi esploratori non spaventati dal mare aperto e dalle tempeste».

Belli gli inviti sulla «parola che incanta, accarezza, guarisce» e sulla parola che «annuncia». Stimolante, specie per noi sempre connessi in un ambiente di odio e false verità, il difficile invito alla «pratica del silenzio», alla «purificazione del linguaggio», all’imparare a «pronunciare solo parole che nascono dal cuore, leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, parole che fanno bene». Già: che farne, adesso, di questa lettera sulla forza della parola (e della Parola)?

Conferenza episcopale della Toscana, La forza della parola. Lettera su comunicazione e formazione a 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani, EDB, Bologna 2018, pp. 88. Il testo che qui riprendiamo è stato pubblicato sul blog La Trebisonda il 10 luglio 2018.

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