Giovani «senza fede»? No, c’è una sete nuova

Giovani «senza fede»? No, c'è una sete nuova

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Il rapporto tra i giovani e la fede è, oggi più che mai, tema di attualità. Non solo per l’avvicinarsi del Sinodo ma anche perché i giovani e la fede stanno veramente a cuore a tutti noi. Per riflettere sul tema appare, però, utile evitare almeno un paio di errori tra i più comuni: pensare ai giovani senza considerarli all’interno dell’intero percorso della loro vita e, inoltre, separare la fede da un’interpretazione complessiva dell’esistenza. In entrambi i casi, ciò che è da temere è la frammentazione.

Sul primo versante è utile ricordare che la giovinezza è, in realtà, soltanto un momento di un percorso più articolato e complesso. Ha, quindi, le caratteristiche, i pregi e i difetti di quel singolo momento. Non è l’intero. E non tutto può essere dato o richiesto in quel momento. Alcune cose potranno maturare, altre scomparire. Ci potrà stare anche qualche cambiamento di percorso e qualche errore. E la guida di persone più mature ed esperte sarà sempre di grande utilità.

Sul secondo versante, anche la fede rischia di non essere ben compresa se staccata dal suo contesto. La fede è un modo di interpretare e vivere l’intera esistenza. Ed è così legata ai gesti, alle parole e alle scelte della vita da essere difficilmente riconoscibile senza di essi. Così non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è. A volte compare dove meno ce lo si aspetti. Perché è molto più vicina a un modo di vivere che a un semplice concetto o a un’asettica definizione. Anche per questo non è mai facile comprendere i giovani e la loro fede. Nessuna delle due realtà, infatti, è statica e se a volte possono apparire come frammenti, lo sono, ma di un intero. Perciò, è tanto più facile comprenderle quanto meno le si staccano dall’intero.

È possibile, allora, che se la fede viene interpretata solo come una pratica religiosa o come un assenso intellettuale, i giovani appaiano irrimediabilmente lontani da essa. Al contrario, se quegli stessi giovani sono confrontati con gli itinerari di fede descritti nella Bibbia e spesso presenti nella tradizione cristiana, appaiono assai meno lontani da un autentico cammino di fede.

È quanto si può intuire, per esempio, leggendo le interviste realizzate dall’Istituto Toniolo all’interno dell’indagine su «Giovani e fede in Italia». Un giovane studente di ventuno anni, di Roma, mentre dice «non frequento la chiesa» e «sono dell’opinione che se non vedo non credo», allo stesso tempo apprezza «la speranza che può dare la fede e che può dare Dio» e confida: «Facendo una preghiera riesco a sentirmi meglio; questa è una cosa bella». Un giovane ragioniere di ventisette anni, disoccupato, abitante in un piccolo centro del Nord, si definisce agnostico, ma mentre critica coloro che «credono, ma non vanno in chiesa», ritiene anche che «il vero regno di Dio sia dentro l’uomo», perché «la religione è una cosa interiore». Questi due giovani manifestano una grave mancanza di fede o stanno cercando una fede più interiore e autentica? Una giovane ventottenne che risiede in un piccolo centro della Romagna mentre dice «non credo nella fede intesa come fede cattolica, quindi non credo in un Signore nel Paradiso, in tutto quello che ci insegnano a catechismo e giù di lì», e mentre si lamenta delle pratiche ecclesiastiche – «Non sono più andata in chiesa se non per il matrimonio della mia migliore amica che si è sposata l’anno scorso e ti posso garantire che è stato un sacrificio stare lì dentro un’ora e mezza a sentire delle “ciofeche”, perché io non ci credevo; ci sono andata solo perché voglio molto bene a lei e credo che la loro unione sarebbe stata ugualmente valida anche se l’avessero fatta in Comune» –, allo stesso tempo ritiene che la fede sia qualcosa che assomiglia a quel delicato rapporto che ha con la sua mamma, morta quando lei aveva solo venti mesi: «Come io trovo conforto in quella che è l’anima della mia mamma, quando ne ho bisogno, molto probabilmente altre persone credono in Dio perché dà loro conforto, perché si sentono aiutate; per gli stessi motivi per i quali io, quando ho bisogno, mi giro e dico “mamma cosa faccio?”, loro si girano e dicono “Signore adesso cosa faccio?”; credo che sia la stessa identica domanda, cambia solo la persona alla quale è indirizzata la richiesta di aiuto». Anche qui: è mancanza di fede o desiderio di una fede personale, profonda e autentica?

Si potrebbe proseguire con la presentazione delle interviste nelle quali i giovani dicono di sperimentare uno stretto collegamento tra la fede e la speranza; cercare in Dio il sostegno, la serenità e il conforto necessari per affrontare le vicende – non di rado sofferte e dolorose – della loro vita; leggere i Vangeli per ritrovarvi l’insegnamento e il volto di Gesù; avere fiducia nei miracoli; riconoscere la gioia e la bellezza di una fede autentica.

Tra tutti, si può citare Francesca, ventenne, studentessa della facoltà di Scienze della comunicazione. Racconta così alcuni passaggi importanti della sua vita: «Un giorno muore il fratello di una mia amica, un bambino di dieci anni. Da lì ho deciso di fare della mia vita qualcosa di straordinario. Ho deciso di avvicinarmi alle persone. […] Cerco di stare accanto agli altri. Cerco di amare un po’ di più e, prima di tutto, prima di me stessa vedo l’altro. Secondo me l’altro è una missione meravigliosa. Secondo me l’altro è una scoperta meravigliosa. Penso che ognuno abbia croci e momenti di sconforto. Tutta la bellezza, però, sta nel trasformare questi momenti e nell’arricchire la vita degli altri. Nel vedere la loro luce, quando tu ci sei. […] Questo spero di fare ogni giorno: ascoltare. […] Mi sono ripromessa che non avrei mai più fatto morire gli altri di solitudine. So cosa si prova. Lo so e, quindi, non accadrà mai che qualcuno non senta la mia presenza, mai. Perché io ci sono. Per me è una missione. Amare l’altro è una missione. È trasmettere quello che io ho dentro. Ci provo quotidianamente». Sorprendente la capacità di Francesca di trasformare una situazione di difficoltà e di dolore in un’occasione di crescita della propria disponibilità all’incontro, all’ascolto e alla dedizione. Sino ad avvertire l’esigenza di partire da qui per plasmare la propria vita. Sembra di scorgere, in lei, i tratti dei grandi fondatori cristiani che da situazioni di bisogno sono stati spesso capaci di trarre idee e progetti in grado di migliorare la vita di tutti.

Nascono allora alcune domande che sembrano accompagnare bene le nostre riflessioni sui giovani e la fede. Non è che per capire i giovani sia necessario ascoltarli di più, evitando di interpretare la loro fede alla luce di schemi formali e precostituiti? Non è che la loro educazione religiosa, anziché essere progettata come un “vaccino”, da inoculare prima possibile e una volta per sempre, debba essere pensata come un cammino progressivo da accompagnare delicatamente per tutta la vita? Non è che tendiamo ancora a pensare la fede più come una serie di pratiche e di concetti piuttosto che come un incontro personale con Gesù dal quale nasce, con consapevolezza e libertà, un modo di vivere più autentico? Non è che nella pastorale siamo ancora più impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi e percorsi comunitari anziché favorire l’incontro personale e l’ascolto reciproco, in tutti i luoghi nei quali quotidianamente viviamo?

In realtà, avremmo tutti e facilmente a disposizione un eccellente modello di pastorale: Gesù, che era davvero un “maestro” nell’incontrare le persone e ascoltarle, per rianimare la loro libertà e la loro vita.

Migranti. Papa Francesco: solidarietà e misericordia le uniche risposte sensate

Papa Francesco: solidarietà e misericordia le uniche risposte sensate

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L’8 luglio di 5 anni fa papa Francesco visitò Lampedusa, luogo simbolo della sofferenza di tanti migranti nel Mediterraneo. Nel primo viaggio al di fuori del Vaticano, volle denunciare quella “globalizzazione dell’indifferenza” che rende insensibili alle grida degli altri. E oggi il Papa ha scelto di rinnovare nella preghiera un tributo alle vittime dei naufragi, ai sopravvissuti e a chi li assiste.

“Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle – ha sottolineato nell’omelia della Messa in San Pietro per le persone migranti – . Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio, talvolta complice, di molti“.

IL TESTO DELL’OMELIA DELLA MESSA PER I MIGRANTI

IL VIDEO

Nella Messa per le vittime dei naufragi, per le tante troppe persone morte su tutte le rotte migratorie il Papaha citato un passo del Vangelo di Matteo nel quale Gesù rimprovera i farisei, facili a subdole mormorazioni: “Andate a imparare che cosa vuol dire: ‘Misericordia io voglio e non sacrifici’ (9,13). È un’accusa diretta verso l’ipocrisia sterile di chi non vuole “sporcarsi le mani”, come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano. Si tratta di una tentazione ben presente anche ai nostri giorni, che si traduce in una chiusura nei confronti di quanti hanno diritto, come noi, alla sicurezza e a una condizione di vita dignitosa, e che costruisce muri, reali o immaginari, invece di ponti”.

Il Papa ha ringraziato chi presta soccorsi nel Mar Mediterraneo che si fermano “per salvare la vita del povero picchiato dai banditi, senza chiedergli chi sia, la sua origine, i motivi del suo viaggio o i documenti e semplicemente decide di prendere in carico e salvare la sua vita”.

E a chi è stato salvato, “voglio ribadire – ha aggiunto Francesco – la mia solidarietà e incoraggiamento, poiché conosco bene le tragedie dalle quali state scappando. Vi chiedo di continuare ad essere testimoni di speranza in un mondo sempre più preoccupato per il suo presente, con pochissima visione del futuro e riluttanza a condividere”. E al tempo stesso ad avere “rispetto per la cultura e le leggi del Paese che vi accoglie” per mettere in campo “congiuntamente un percorso di integrazione”.

Superare tutte le paure e le inquietudini“: è l’appello finale con cui il Papa ha concluso l’omelia della Messa per le persone migranti.

A Lampedusa, in quel lembo di terra tra Tunisia e Italia, Francesco già 5 anni fa parlò di “immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”: con queste parole scelse di aprire l’omelia della Messa al Campo sportivo “Arena”, davanti a 10mila persone, da un palco costruito anche con i relitti di quelle barche naufragate, con un pensiero “come una spina nel cuore” per una e, insieme, tante tragedie.

 

Slow Food. Petrini: «Lotta alla fame e sostenibilità sono sfide di comunità»

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

«Ripartiamo dalla comunità». Carlo Petrini, classe 1949, ha l’entusiasmo di un giovanotto davanti allo slogan coniato da Slow Food. In concreto, il movimento della chiocciola fondato da Petrini non sarà più guidato da un presidente e un segretario, ma da un comitato esecutivo di sette membri, con responsabilità condivise e un modello orizzontale. Per il gastronomo, sociologo e scrittore da qui si vince la sfida di rendere il pianeta più sostenibile e dare cibo buono e pulito a tutti. «Abbiamo superato un modello europeo sul quale si basano associazioni, partiti, movimenti e sindacati per sposare un elemento più inclusivo. Quindi avremo comunità che operano a livello di sostenibilità ambientale e sociale. Ne abbiamo già che lavorano con disabili, con persone meno fortunate. Fatti salvi i principi distintivi della difesa della biodiversità, il lavorare su cibo buono, pulito e giusto difendendone il valore e non solo il prezzo, quando realtà comunitarie esprimono questa unità di intenti dobbiamo accoglierle e non far partire meccanismi come il tesseramento e la verticalità del governo. Dobbiamo realizzare quel che ci ha insegnato la rete di Terra Madre, quindi dare rappresentanza a realtà che stanno effettuando un cambiamento dal basso straordinario verso una realtà più sostenibile. Ma lei si immagina le nostre comunità africane o quelle degli indios Yanomani dell’Amazzonia nei nostri schemi? Invece occorre aprirci alla diversità non solo vegetale e animale, ma anche delle forme di socialità».

Quante persone coinvolge Slow Food?

Se resto all’elemento contabile in Italia siamo 40 mila, se penso ai mille orti realizzati nelle scuole italiane che coinvolgono bambini e insegnanti, genitori e nonni, siamo molti di più. In Africa abbiamo quasi 4mila orti che danno lavoro a 80 mila persone. Come facciamo a tesserarli? Sono tornato da un viaggio in Kenya, ho visto cose incredibili, si sentono Slow food, membri di Terra madre. Non possiamo escludere questa moltitudine.

Accessibilità di tutti al cibo buono, pulito e giusto. È ancora possibile?

È il nostro elemento distintivo, La lotta di buona parte del mondo con la malnutrizione e la fame grida ancora vendetta. Il nostro movimento non si occupa solo del piacere e della qualità del cibo disinteressandosi di chi non può sfamarsi. È una battaglia sancita nell’ultimo congresso a Chengdu, in Cina. Finché ci sarà un essere umano che non ha accesso al cibo noi ci batteremo.

Ma in un mercato globale dominato da poche multinazionali sembra quasi un miracolo che comunità e movimenti riescano a spingere verso la sostenibilità. Come fanno?

Guardiamo all’Italia. Oggi i presidi Slow food, forme di tutela e difesa di prodotti a rischio estinzione perché l’omologazione produttiva stava uccidendo la biodiversità, sono più rilevanti che non tante denominazioni di origine. La nostra attività ha valorizzato l’economia locale, della comunità e del territorio rispetto a un’impostazione del sistema alimentare che sta mettendo il potere nelle mani di pochi. La reazione è lavorare per un’economia locale che difenda le specificità e diventa una forma politica di intervento portatrice di un concetto diverso.

Ovvero?

Non siamo nati consumatori, ma per stare bene con le nostre famiglie, per crescere in armonia con la natura. Siamo esseri viventi, quindi abbiamo bisogno di un’economia diversa, collegata alla socialità e che esalti la diversità.

Ma spesso dietro la qualità del cibo in Italia si nasconde lo sfruttamento dei braccianti…

Su questo come sul problema dei migranti non riusciamo a sviluppare una narrazione per spiegare ai cittadini che il disastro in Africa che mette in moto i flussi non è causato solo da guerre, ingiustizie e violenza ma anche dai cambiamenti climatici. Dei quali siamo i principali responsabili, anche se il dazio lo pagano gli africani. Questo è iniquo. Se queste cose non si denunciano, se restiamo a guardare il fenomeno delle migrazioni intensive, non si capisce che è tutto legato e che i flussi sono il risultato di una politica di ladrocinio e discriminazione perpetrata su questi territori con la complicità di molti governanti africani.

Che senso ha allora la comunità?

Viviamo in un tempo dove la politica brucia i leader con velocità impressionante. È una dinamica che non lascia tracce, le comunità sono invece costruttive e potenti. Possono accettare grandi sfide perché hanno la sicurezza affettiva che + un antidoto alla politica dello scarto e della prevaricazione.

Il Vangelo XIV Domenica – Tempo ordinario Anno B. Lo scandalo di vedere Dio come uno di noi. 8 Luglio 2018

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono.
Missione che sembra un fallimento e invece si trasforma in una felice disseminazione: «percorreva i villaggi insegnando».
A Nazaret non è creduto e, annota il Vangelo, «non vi poté operare nessun prodigio»; ma subito si corregge: «solo impose le mani a pochi malati e li guarì». Il rifiutato non si arrende, si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’amante respinto non si deprime, continua ad amare, anche pochi, anche uno solo. L’amore non è stanco: è solo stupito («e si meravigliava della loro incredulità»). Così è il nostro Dio: non nutre mai rancori, lui profuma di vita.
Dapprima la gente rimaneva ad ascoltare Gesù stupita. Come mai lo stupore si muta così rapidamente in scandalo? Probabilmente perché l’insegnamento di Gesù è totalmente nuovo. Gesù è l’inedito di Dio, l’inedito dell’uomo; è venuto a portare un «insegnamento nuovo» (Mc 1,27), a mettere la persona prima della legge, a capovolgere la logica del sacrificio, sacrificando se stesso. E chi è omologato alla vecchia religione non si riconosce nel profeta perché non si riconosce in quel Dio che viene annunciato, un Dio che fa grazia ad ogni figlio, sparge misericordia senza condizioni, fa nuove tutte le cose. La gente di casa, del villaggio, della patria (v.4) fanno proprio come noi, che amiamo andare in cerca di conferme a ciò che già pensiamo, ci nutriamo di ripetizioni e ridondanze, incapaci di pensare in altra luce.
E poi Gesù non parla come uno dei maestri d’Israele, con il loro linguaggio alto, “religioso”, ma adopera parole di casa, di terra, di orto, di lago, quelle di tutti i giorni. Racconta parabole laiche, che tutti possono capire, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione.
E allora dove è il sublime? Dove la grandezza e la gloria dell’Altissimo? Scandalizza l’umanità di Dio, la sua prossimità. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo: che Dio si incarna, entra dentro l’ordinarietà di ogni vita, abbraccia l’imperfezione del mondo, che per noi non è sempre comprensibile, ma per Dio sempre abbracciabile.
Nessun profeta è bene accolto nella sua casa. Perché non è facile accettare che un falegname qualunque, un operaio senza studi e senza cultura, pretenda di parlare da profeta, con una profezia laica, quotidiana, che si muove per botteghe e villaggi, fuori dal magistero ufficiale, che circola attraverso canali nuovi e impropri. Ma è proprio questa l’incarnazione perenne di uno Spirito che, come un vento carico di pollini di primavera, non sai da dove viene e dove va, ma riempie le vecchie forme e passa oltre.
(Letture: Ezechiele 2,2-5; Salmo 122; 2 Corinzi 12,7-10; Marco 6,1-6)

di Ermes Ronchi in Avvenire

«Virtù eroiche». Quattro nuovi venerabili: Giorgio La Pira e tre giovani

Giorgio La Pira in una foto dell'archivio Ansa

avvenire

Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante “le virtù eroiche del Servo di Dio Giorgio La Pira”. Si tratta del primo passo per l’eventuale apertura di un processo di beatificazione e canonizzazione. Giorgio La Pira è nato a Pozzallo il 9 gennaio 1904 ed è morto a Firenze il 5 novembre 1977.

Oltre al “sindaco santo”, sono state riconosciute le virtù eroiche di altri tre laici, tutti giovani: Pietro Di Vitale, nato il 14 dicembre 1916 a Castronovo di Sicilia (Italia) e ivi morto il 29 gennaio 1940; Alessia González-Barros y González, nata il 7 marzo 1971 a Madrid (Spagna) e morta a Pamplona (Spagna) il 5 dicembre; Carlo Acutis, nato il 3 maggio 1991 a Londra (Inghilterra) e morto a Monza (Italia) il 12 ottobre 2006.

Giorgio La Pira, il sindaco santo

Giorgio La Pira è noto come il “sindaco santo” di Firenze (incarico che ricoprì dal 1951 al 1957 e poi di nuovo dal 1961 al 1965) e proprio sulla fama di santità si è basato nel 1986 l’allora arcivescovo del capoluogo toscano, cardinale Silvano Piovanelli, per avviare il processo canonico. Politico-profeta, anticipò il Concilio Vaticano II; la sua proposta sociale partiva dalla stessa constatazione di una profonda ingiustizia sociale propria dell’ideologia marxista, ma con un’apertura alla visione dell’uomo integrale, quindi alla fratellanza tra gli uomini che deriva dall’avere un unico Padre. Emblematici furono in questo senso gli episodi delle fabbriche fiorentine del Pignone nel 1953, quando il sindaco e gran parte della Chiesa fiorentina appoggiarono le lotte operaie, fino ad accettare l’occupazione della Pignone, dove La Pira assistette alla Messa all’interno della fabbrica occupata, riuscendo, quindi a risolverne la crisi con il contributo di Fanfani e di Enrico Mattei, presidente dell’Eni che rilevò l’azienda.

Durante la sua amministrazione La Pira iniziò la costruzione del nuovo ampio quartiere dell’Isolotto, che si proponeva di dare una soluzione organica al problema dell’emergenza abitativa, mentre la crisi degli alloggi, sia per le distruzioni della guerra sia per l’arrivo degli alluvionati dal Polesine, lo indusse a cercare anche soluzioni tampone come la costruzione di “case minime” o la requisizione di ville disabitate per gli sfrattati, suscitando pure in questo caso non poche polemiche.

Altro filone centrale delle iniziative di La Pira fu quello della pace. I convegni internazionali “Per la pace e la civiltà cristiana” (il primo fu del 1952) crearono fervore di dibattiti e di proposte, ma anche le ormai consuete polemiche e opposizioni. Il tema della pace, connesso al pericolo costituito dalle armi nucleari, fu al centro del suo intervento, Il valore delle città, tenuto il 12 aprile 1954,
al comitato internazionale della Croce rossa di Ginevra, dove sottolineò il ruolo delle città quali protagoniste nella costruzione della pace. Fu ancora questa la prospettiva del Convegno dei sindaci delle capitali del mondo, convocato dal 2 al 6 ottobre 1955 a Firenze, dove si incontrarono per la prima volta sindaci del mondo occidentale e comunista, che firmarono insieme un appello contro la guerra nucleare.

Alla fine degli anni ’70 diede il suo sostegno all’opera di Benigno Zaccagnini come segretario della Dc, accettando di candidarsi quale capolista alla Camera dei deputati, dove fu eletto con un alto numero di preferenze. La sua candidatura aveva assunto di fatto anche il significato di una risposta alla candidatura nella Sinistra indipendente di non pochi cattolici che nel passato gli erano stati molto vicini, come Gozzini e Raniero La Valle, e che nel referendum sul divorzio si erano schierati tra i “cattolici del no”.

Con il riconoscimento delle «virtù eroiche» di Giorgio La Pira si è conclusa la seconda fase del cammino intrapreso più di 35 anni fa a Firenze.

​Il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, ha espresso “la gratitudine sua e di tutta la Chiesa Fiorentina per la decisione del Santo Padre Francesco di promulgare il decreto con cui viene riconosciuto che Giorgio La Pira ha professato in modo eroico le virtù cristiane e d’ora in poi quindi la Chiesa lo proclama Venerabile e lo propone alla venerazione dei fedeli”.

Carlo Acutis, futuro patrono di Internet

Carlo Acutis

Carlo Acutis

Oltre a quello riguardante La Pira, il Papa ha indicato “le virtù eroiche” di alcune persone giovanissime già care alla Chiesa: Pietro Di Vitale, laico, nato il 14 dicembre 1916 a Castronovo di Sicilia e morto il 29 gennaio 1940; Alessia Gonzalez-Barros y Gonzalez, laica, nata il 7 marzo 1971 a Madrid e morta a Pamplona il 5 dicembre 1985;Carlo Acutis, laico, nato il 3 maggio 1991 a Londra e morto a Monza il 12 ottobre 2006. Tutte e tre queste storie sono caratterizzate da una morte prematura, a causa della malattia, e dall’eroico modo di affrontarla nella fede.

Carlo Acutis, patito di internet, considerato un ‘genio’ dell’informatica, usava il web come veicolo di evangelizzazione. Già da qualche tempo viene indicato come possibile futuro ‘patrono’ di Internet. (QUI LA SUA BIOGRAFIA)

Il giovane si spense a soli 15 anni. Quella di questo ragazzo è una di quelle storie che colpiscono profondamente per la morte prematura e per la limpidezza della sua anima. Carlo nasce il 3 maggio 1991 a Londra, dove la famiglia si trovava per lavoro. Poi, a Milano, inizia ad avere un rapporto sempre più forte con la fede fin dalle elementari. Patito del “web”, ne fa un mezzo di evangelizzazione. A testimoniarlo la mostra virtuale da lui realizzata a soli 14 anni sui miracoli eucaristici. Centrale per lui l’Eucaristia, sua “autostrada per il cielo”, il rosario, l’amore per gli altri. Un ragazzo che vive come tutti ma da innamorato di Cristo finché non arriva una leucemia fulminante che mette fine alla sua vita il 12 ottobre 2006 a Monza.

Alessia González-Barros y González, la sofferenza per la Chiesa

Alessia Gonzàlez-Barros y Gonzàlez

Alessia Gonzàlez-Barros y Gonzàlez

Anche Alessia González-Barros y González, spagnola, muore giovanissima, a soli 14 anni, stroncata da un tumore maligno, dopo molte operazioni. Nata a Madrid il 7 marzo 1971, Alexia offre la sua sofferenza per la Chiesa, per il Papa e per gli altri. Muore a Pamplona il 5 dicembre 1985. (QUI LA BIOGRAFIA)

Pietro Di Vitale amava gli studi e il prossimo

Pietro Di Vitale

Pietro Di Vitale

La vita terrena di Pietro Di Vitale ha fine a 23 anni, per una dolorosa malattia allo stomaco, che lo consuma lentamente fin dagli anni del liceo. Nasce il 14 dicembre 1916 a Castronovo di Sicilia, dove muore il 29 gennaio del 1940. Trascorre la sua vita tra il suo paese d’origine e il Seminario arcivescovile di Palermo. E’ iscritto all’Azione Cattolica e membro del Terz’Ordine francescano. Forte la sua devozione verso il Santissimo Sacramento e la Madonna. Molto dedito agli studi, non dimenticava le opere di carità e l’amore per il prossimo. (QUI LA BIOGRAFIA) (QUI ALTRE NOTIZIE SULLA SUA VITA)

Spagna. Polemiche e incornati nella corsa dei tori a Pamplona

La corsa di Pamplona ha provocato oggi almeno cinque feriti (Ansa)

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ornano le polemiche degli aninalisti e i feriti. A due giorni dall’apertura ufficiale della “feria”, cinque persone sono rimaste ferite nell’encierro di San Firmin ed almeno uno dei “corredores” é stato incornato da uno degli enormi tori che questa mattina hanno preso parte alla tradizionale festa di Pamplona.
Il portavoce della Croce Rossa, Jose Aldaba, ha detto che le autoambulanze hanno trasportato i feriti in ospedale pochi minuti dopo la conclusione della gara.

In centinaia hanno affollato le strade di pamplona per l'encierro (Ansa)

In centinaia hanno affollato le strade di pamplona per l’encierro (Ansa)

La pioggia caduta prima del “via” ha reso gli 850 metri del percorso particolarmente scivolosi, tanto che molti altri concorrenti sono stati travolti dai tori senza però riportare ferite gravi. I tori che hanno preso parte alla gara odierna pesano tra 550 e 630 chili.

Appello del Papa per il Medio Oriente: «L’indifferenza uccide»

Nella Basilica di san Nicola, il Papa e i capi delle Chiese in Medio Oriente a colloquio, a porte chiuse

Basta indifferenza verso il Medio Oriente. «L’indifferenza uccide». Il Papa lancia il suo appello al mondo per quella martoriata regione. Dal lungomare di Bari, città sede della preghiera comune del Pontefice con i Capi delle Chiese cattoliche, copte e ortodosse, parte dunque una richiesta ben precisa. «L’indifferenza uccide – dice Bergoglio -, e noi vogliamo essere voce che contrasta l’omicidio dell’indifferenza. Vogliamo dare voce a chi non ha voce, a chi può solo inghiottire lacrime, perché il Medio Oriente oggi piange, soffre e tace, mentre altri lo calpestano in cerca di potere e ricchezze. Per i piccoli, i semplici, i feriti, per loro dalla cui parte sta Dio, noi imploriamo: sia pace!».

Una festa di popolo con 70mila persone

Sono le parole della monizione con cui si apre l’incontro di preghiera in uno scenario straordinario. Sotto il sole della Puglia, che fa brillare il mare alle spalle del palco a forma di capanna, ad attendere il Papa e i patriarchi ci sono oltre 70mila persone (lo riferisce il Comune, erano stati distribuiti 50mila pass). Il tragitto che li ha portati fin qui dalla Basilica di San Nicola è stato percorso da un autobus aperto, dove Francesco e gli altri Capi delle Chiese hanno viaggiato insieme tra due ali di folla festante.

Straordinaria l’accoglienza della città. Straordinaria l’occasione, straordinarie anche le parole del Pontefice. «Siamo giunti pellegrini a Bari, finestra spalancata sul vicino Oriente, portando nel cuore le nostre Chiese, i popoli e le molte persone che vivono situazioni di grande sofferenza. A loro diciamo: “vi siamo vicini”. Cari Fratelli, grazie di cuore per essere venuti qui con generosità e prontezza. E sono tanto grato a tutti voi che ci ospitate in questa città, città dell’incontro e dell’accoglienza».

La folla sul lungomare e davanti al palco con il Papa e i patriarchi

La folla sul lungomare e davanti al palco con il Papa e i patriarchi

«Un Medio Oriente senza cristiani non sarebbe Medio Oriente»

Il pensiero del Papa va subito al Medio Oriente. «Su questa splendida regione – ricorda – si è addensata, specialmente negli ultimi anni, una fitta coltre di tenebre: guerra, violenza e distruzione, occupazioni e forme di fondamentalismo, migrazioni forzate e abbandono, il tutto nel silenzio di tanti e con la complicità di molti. Il Medio Oriente è divenuto terra di gente che lascia la propria terra. E c’è il rischio che la presenza di nostri fratelli e sorelle nella fede sia cancellata, deturpando il volto stesso della regione, perché un Medio Oriente senza cristiani non sarebbe Medio Oriente».

Quindi l’invocazione di pace. «Preghiamo uniti, per invocare dal Signore del cielo quella pace che i potenti in terra non sono ancora riusciti a trovare. Dal corso del Nilo alla Valle del Giordano e oltre, passando per l’Oronte fino al Tigri e all’Eufrate, risuoni il grido del Salmo: “Su te sia pace!” (122,8). Per i fratelli che soffrono e per gli amici di ogni popolo e credo, ripetiamo: Su te sia pace! Col salmista imploriamolo in modo particolare per Gerusalemme, città santa amata da Dio e ferita dagli uomini, sulla quale ancora il Signore piange: Su te sia pace!».

EDITORIALE Sia vero Sinodo. «Ut unum sint» di Mimmo Muolo

La giornata del Papa a Bari

Il Pontefice è giunto a Bari, alle 8.22 dopo un volo in elicottero di oltre un’ora da Roma. Al piazzale Cristoforo Colombo Francesco è stato accolto dall’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dal sindaco di Bari, Antonio Decaro, oltre che dal prefetto Marilisa Magno.

Il Papa ha quindi raggiunto la Basilica di San Nicola, fermandosi sul portale di ingresso dove ha salutato i patriarchi presenti all’incontro, tra i quali anche Bartolomeo di Costantinopoli, primus inter pares dell’ortodossia. In Basilica ha salutato anche la comunità dei frati domenicani, che la custodiscono dal 1951. Sceso nella cripta ha acceso la lampada uniflamma, per simboleggiare l’unica fede della Chiesa, al di là delle divisioni attuali e ha venerato insieme ai patriarchi delle Chiese cattoliche e ortodosse del Medio Oriente le reliquie del santo. È stato il primo atto della giornata di preghiera per la pace in quella regione martoriata dalla guerra, fortemente voluta da Bergoglio e alla quale hanno aderito gli altri capi delle Chiese. Prima dell’accensione il Papa si è inginocchiato ai piedi dell’altare sotto il quale riposano le ossa di san Nicola restando in preghiera per qualche secondo.

Il Papa si è poi recato sul lungomare per di preghiera. Nel corso della liturgia ecumenica tutti i patriarchi levano a turno la propria invocazione. Bartolomeo di Costantinopoli ha pregato così: «Signore buono e amico degli uomini, ispira cose buone nei cuori di coloro che vogliono la guerra e pacifica le loro menti tormentate, pacifica anche i nostri cuori, libera noi e tutti gli uomini dai desideri malvagi ed avidi e semina nei nostri e nei loro cuori uno spirito di giustizia, di riconciliazione e di amore verso tutti i nostri fratelli». Tawadros II, patriarca di Alessandria dei copti ortodossi, ha invocato: «Ricorda, o Signore, tutti i martiri che sono morti per il tuo santo nome. Ti preghiamo affinché doni pace e stabilità a tutte le regioni lacerate dai conflitti». Altre intenzioni di preghiera sono per i migranti e i rifugiati e per coloro che sono perseguitati a causa delle loro convinzioni. Ilfondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, prega in italiano: «Per il Medio Oriente e per tutti i paesi e le comunità che soffrono a causa di conflitti e di violenza, affinché un nuovo spirito di solidarietà e di riconciliazione sorga in tutti i settori della società e conduca alla pace e all’armonia senza discriminazione e ingiustizia».

Il Papa con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I (LaPresse)

Il Papa con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I (LaPresse)

La preghiera viene poi scandita da letture bibliche e canti anche in arabo e in assiro eseguiti da solisti e accompagnati da un’orchestra di 20 elementi e un coro di 200 cantori diretti da don Maurizio Lieggi. Il Vangelo delle beatitudini ha suggellato la preghiera, conclusasi con l’abbraccio di pace tra il Papa e i patriarchi, che sono poi tornati con lo stesso autobus scoperto alla Basilica di San Nicola per il colloquio a porte chiuse.

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da Avvenire