Lavoro. Gender Gap: ancora forti differenze di stipendio tra donne e uomini

da Avvenire

Gender Gap: ancora forti differenze di stipendio tra donne e uomini

Netta percezione del fatto che in ufficio «le donne hanno dovuto dimostrare di più dei colleghi uomini per avere gli stessi riconoscimenti» e altrettanto chiara consapevolezza della differenza di retribuzione. Ma parallelamente le donne cominciano ad affacciarsi con maggiore frequenza alle carriere dirigenziali, visto che solo il 25% delle aziende ha un management composto da soli uomini, mentre il 45% è formato da dirigenti di entrambi i sessi. Solo il 5% poi ha una disparità di genere rovesciata, cioè a favore delle donne.

L’indagine condotta da Intermedia Selection – azienda leader in Italia nella ricerca e selezione di Professional e middle management – traccia così un quadro a macchia di leopardo sulle questioni del gap di genere. Il campione, 1200 candidati di cui i 2/3 uomini, infatti ha evidenziato sia una disparità di accesso alle posizioni verticistiche che una disparità di stipendio a parità di mansioni. Così mentre appena il 5% del campione guadagna annualmente tra i 65mila ai 90mila euro l’anno, questa percentuale sale al 15% quando si tratta degli uomini; viceversa mentre il 45% delle femmine intervistate si piazza nella fascia di reddito più bassa (sotto i 35mila euro l’anno), questa cifra scende al 25% quando si tratta dei maschi.

«Nel nostro ruolo disponiamo di un osservatorio privilegiato – spiega il general manager di Intermedia Selection Francesco Tamagni – rispetto alle trasformazioni del mondo del lavoro e alle dinamiche sociali ed economiche che lo influenzano». Va detto comunque, continua, che oramai «le grandi aziende non guardano tanto al genere del manager che hanno davanti, piuttosto alle sue competenze. Invece nelle piccole realtà questo fenomeno è ancora molto radicato».

Interessante è anche la percezione della parità di genere nel mondo del lavoro. Così si vede che il 66% delle donne ammette che il gentil sesso deve dimostrare di più dei colleghi maschi per avanzare di carriera, a cui si aggiunge (questa la novità) anche un 25% di uomini che ammette questo fenomeno e di un 32% del campione che non si sbilancia. Segno anche che la strada per la vera parità di genere è appena cominciata.

Il coraggio di un missionario e la scuola che salva

da Avvenire

L’alba è una leggera pennellata di rosa e cremisi sospesa sull’orizzonte, quando il missionario saveriano dalla barba di chi non ha tempo per radersi entra nel refettorio con in mano una tazza di caffellatte fumante. Vecchie ciabatte, fedeli compagne di una vita che scricchiolano ad ogni passo, e gli immancabili due pacchetti di sigarette nel taschino della camicia, padre Bepi intingendo un pezzo di pane raffermo nella bevanda della prima colazione, accompagnandosi con un colpo di gomito, mi chiede: «Come stanno le tue gambe?».
Lì per lì, non capisco. La notte è stata difficile. Nel quartiere, alle spalle della domus, si è sentito sparare pesantemente, per parecchie ore e il sonno è trascorso in un dormiveglia nervoso. Umutaga umuiza, buona giornata, augura l’amico missionario parlandomi in kirundi, la lingua del Burundi: «Preparati, che andiamo a trovare i miei ragazzi, sulla collina».
L’amico missionario, nel narrarmi le virtù e i segreti della foresta, mi suggerisce anche di stare attento a dove metterò mani e piedi, perché «da quelle parti si nascondono i mamba neri». Serpenti tra i più velenosi e pericolosi. Un solo morso è capace di uccidere dieci uomini. Ma andare per colline, in Burundi, può rivelarsi ancora più rischioso che disturbare il lento strisciare di un serpente, soprattutto quando sono ripresi gli scontri armati tra insorti e militari, come in quei giorni trascorsi assieme a padre Bepi. Ma lui su queste cose proprio ci passa sopra, indifferente ai pericoli che ha già tante volte vissuto. Li mette sul conto del suo “mestiere”.
«Bepi, come saluti i tuoi ragazzi quando li incontri?», chiedo al missionario. Quando si parla dei suoi ragazzi lui si illumina, e risponde: Jambo kagabo, “ciao, piccolo uomo”. Raggiunto il villaggio dopo più di un’ora di cammino, nessuno ci viene incontro. «Che strano», sussurra l’amico saveriano. Si fa cupo in volto e il sorriso scompare in una smorfia di dolore. Con la mano che cade, mi indica quel che resta della sua scuola. Il tetto sfondato e i banchi spaccati e ammucchiati in una catasta di legna, ora buona solo da bruciare. «Devono essere stati più colpi di mortaio a sventrare l’edificio – commenta affranto padre Bepi, con la rabbia che gli fa fumare una sigaretta via l’altra –. Chi è stato? Ribelli e soldati si incolperanno a vicenda: a loro interessano solo i kagabo.
Bepi, quel giorno, mi confesserà la sua stanchezza di uomo davanti alla stupida distruzione della violenza che si accanisce “contro l’Africa”, ma espresse anche tutta la sua cocciuta volontà missionaria di ricominciare di nuovo, da capo. Prendevo appunti sul mio quaderno, quando ecco che a piccoli gruppi vedo riemergere bambini e adulti da chissà quale nascondiglio. Padre Bepi sembra rinascere, e non smette più il suo mantra di gioia: Jambo kagabo. Io mi accorgo che i bambini non distolgono mai il loro sguardo dalla mia penna biro e dal mio quaderno. Li colgo rapiti da uno stato di pura estasi.
«Sulla collina non abbiamo quaderni, costano troppo. Ma i bambini usano lavagnette di legno su cui imparare a scrivere usando bastoncini di bambù e inchiostro di certe bacche. Le lavagnette vengono poi lavate e riutilizzate – mi spiegava quel giorno padre Bepi –. Il problema non è ricostruire la scuola distrutta, ma costruire la fiducia e fornire l’istruzione a questi piccoli uomini. Per non farli diventare piccoli soldati».

Storia di un popolo. Gli zingari, perseguitati da cinquecento anni in tutta Europa

Una bambina gioca tra i rifiuti in un campo rom a Giugliano (Napoli), nella Terra dei Fuochi

Una bambina gioca tra i rifiuti in un campo rom a Giugliano (Napoli), nella Terra dei Fuochi

Il primo a volerli cacciare è stato Ludovico il Moro: nel 1473 stabilisce che gli zingari vengano allontanati dal territorio del ducato di Milano, pena la morte. Da lì comincia una lunga serie di editti – “grida”, come ci ha insegnato Alessandro Manzoni – contro i gitani che termineranno soltanto ai tempi di Maria Teresa. Anche con lei, però, non avranno piena cittadinanza, semplicemente si passerà dalla persecuzione all’assimilazione.
Un po’ in tutta Italia, e pure nel resto d’Europa, dal Cinquecento in poi gli zingari diventano oggetto di bandi e persecuzioni, ma da nessuna parte accade con tanta ossessività come a Milano. Con gli spagnoli si arriverà a una sessantina di grida sul tema. Il che, in un paio di secoli, fa una media di una legge ogni poco più di tre anni, con un crescendo di pene talmente esagerato da rivelarne l’assoluta inefficacia.
E pensare che all’inizio gli zingari vengono accolti con simpatia: sono costretti a lasciare i Balcani dopo le conquiste ottomane del XV secolo e sciamano un po’ in tutta Europa. Quando già a Milano li si perseguitava, a Venezia attorno al 1505 Giorgione dipinge un quadro, La Tempesta, destinato a cambiare la storia dell’arte: è il primo dove il paesaggio diventa protagonista. Viene descritto come “paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et sodato” e se una zingara aveva un tale posto di prestigio all’interno dell’opera di uno degli artisti più celebri dell’epoca, significa che non era ancora stata colpita dalla riprovazione sociale. Mancava poco. «È finito quel brevissimo lasso di tempo in cui lo zingaro, esotico e misterioso, incuriosiva la gente e commuoveva con la sua triste storia di pellegrino: inizia ora la caccia allo zingaro ladro, pigro e imbroglione», scrive Giorgio Viaggio nel suo Storia degli zingari in Italia.
La Serenissima non vede l’ora di prendere gli zingari e incatenarli ai remi delle proprie galee. Il decreto papale del 1557 stabilisce che «gli zingari debbino uscire di Roma e suo territorio» e concede tre giorni di tempo, pena la galera per gli uomini e la frusta per le donne. Nel 1570 a Cremona un gruppo di ventidue zingari viene assalito dalla popolazione cittadina che ne brucia la casa provocando la morte degli occupanti. Nel 1572 trecento zingari nella provincia di Parma vengono attaccati e sterminati dai soldati del duca, accompagnati da una folla inferocita.
A Milano dopo la fine della dinastia Sforza (1498) i francesi ribadiscono le norme anti gitani che vengono riprese e rafforzate dagli spagnoli. Col duca di Terra Nova (1568) e Carlo d’Aragona (1587) inizia la repressione vera e propria, con la condanna a cinque anni di remo per gli uomini e alla «pubblica frusta» per le donne; nel decreto del 1587 si parla di «cingheri, gente pessima, infame, data solo alle rapine, ai furti e ogni sorte di mali». Una grida del 1605 comanda invece che «niuna persona, ancora privilegiata o feudataria, ardisca alloggiare, dare ricetto, aiuto o favorire in alcun modo a detti cingari».

Nel 1624 in una legge contro le delinquenza comune gli zingari vengono definiti i più pericolosi tra i malfattori e si dichiara lecito derubarli delle loro cose, senza tener conto di permessi e licenze da essi posseduti (spesso avevano autorizzazioni all’accattonaggio e al girovagare emesse in Germania). Inoltre si intima il divieto di frequentarli. Evidentemente le autorità del ducato di Milano non riescono a fare nulla di concreto contro i nomadi, visto che autorizzano la giustizia fai da te: nel 1657 si concede alle popolazioni di riunirsi al suono della campane a martello «e perseguitare detti cingari prenderli e consignarli prigioni».
Non si riesce a farli star buoni? E allora che non entrino nemmeno: il 15 marzo 1663 una nuova grida vieta l’accesso agli zingari nel ducato, pena sette anni di galera agli uomini e alle donne di essere pubblicamente frustate e mutilate di un orecchio (la pena della galera non significa andare in prigione, ma diventare “forzati da remo” a bordo delle unità militari: Milano “affittava” vogatori forzati a Venezia). Trent’anni dopo, nell’agosto 1693, è prevista l’impiccagione immediata per gli zingari che fossero trovati nel territorio milanese. Di più: qualunque cittadino ha diritto di «ammazzarli impune» e poi di «levar loro ogni sorta di robbe, bestiami denari che gli trovasse», in regime di esenzione fiscale, «senza che s’habbia a interessare il regio fisco». Si ha diritto di ammazzare e di far bottino come se si fosse in guerra, ma il nemico, in questo caso, non sono i soldati stranieri, bensì gli zingari.

avvenire

Biennale. Marlene Monteiro Freitas: «Fidatevi della danza, è la lingua della pace»

da Avvenire

Marlene Monteiro Freitas (A. Merk)

Marlene Monteiro Freitas (A. Merk)

«Quando dico che sono di Capo Verde, molti mi chiedono: dov’è? Ma quando parlo di Cesaria Evora tutti lo sanno. La nostra musica è riconosciuta nel mondo, lo stesso mi piacerebbe accadesse per la danza». Ha un sorriso largo sotto una cascata di ricci neri Marlene Monteiro Freitas, una bella creola nata nel 1979 nell’isola di Saint Vincent nell’arcipelago africano al largo dell’Atlantico, dove ha cofondato la compagnia Compass. Pioniera della danza contemporanea nel suo paese, dopo essersi formata tra Lisbona e Bruxelles, Marlene è divenuta una delle nuove coreografe più richieste tanto da meritarsi il Leone d’argento alla Biennale Danza di Venezia. Il riconoscimento le verrà consegnato il 28 giugno, prima del debutto italiano del suo premiato Bacchae – Prelude to a purge (“Bacco – Preludio alla punizione”) ispirato alle Baccanti di Euripide. Giunto alla sua dodicesima edizione, il Festival internazionale di danza contemporanea, inaugurato venerdì scorso dalla consegna del Leone d’Oro alla coreografa americana Meg Stuart, quest’anno è all’insegna della forza femminile.

Marlene, cosa significa per lei questo Leone d’argento?

«Il Leone d’Argento è stato una grande sorpresa, un onore e un riconoscimento importante per tutta l’équipe che lavora con me da tempo. A Capo Verde la danza professionale non ha mai avuto un grande posto, grazie anche a questo premio la gente da noi ora sa che la danza contemporanea esiste».

Come, nel paese della musica la danza non ha posto?

«Da noi la danza è qualcosa di quotidiano, di sociale, che si usa nelle cerimonie e nelle feste. C’è, ma non è teatro. La musica di Capo Verde, invece, ha un riconoscimento internazionale che ci affranca dall’isolamento geografico. La presenza di compagnie professionali di danza provenienti dall’estero è occasionale. Ma a Capo Verde si può sognare qualcosa d’altro e di nuovo».

Ma lei come ha scoperto la danza? «Io ho cominciato con un gruppo di amici che mi hanno fatto appassionare. Non esisteva una scuola di danza da noi, ma a 15 anni ho visto per la prima volta uno spettacolo di danza contemporanea grazie alla residenza artistica di una compagnia portoghese a Capo Verde. Noi ci siamo formati studiando le cassette registrate con i videoclip di Mtv che ci mandavano dei colleghi di mio padre dall’America. Poi ho deciso di venire a studiare danza in Europa».

I suoi genitori come hanno reagito?

«Avevo la possibilità di fare altri studi, cosa che per noi è un privilegio, perché studiare in Europa è molto costoso e possiamo andarci solo grazie a borse di studio. Il mio è stato un passo azzardato, ma la mia scelta è stata rispettata. Credo di aver ereditato la vena artistica da mio nonno, il compositore George Monteiro, noto come Jatamont».

Com’era vivere in un arcipelago africano crocevia di culture?

«Sono cresciuta a Saint Vincent, in questa isola c’era una relazione forte con il porto: spesso arrivavano navi con gente straniera, che parlava altre lingue e portava oggetti internazionali, musiche nuove, la moda… Ho vissuto un’isola cosmopolita. In più i nostri emigranti rientravano per le vacanze e portavano tante cose nuove. Avevamo l’opportunità di conoscere persone che avevano studiato all’estero, che avevano visto spettacoli o film, che ci parlavano di libri e ci portavano riviste. L’isola ha una cultura molto specifica, creola, con cui mi identifico, ma anche cosmopolita».

Capo Verde è anche luogo di forte emigrazione?

«La relazione coi nostri emigrati è molto forte. Noi ricevevamo da loro dei bidoni di ferro con vestiti, caramelle e altri oggetti che venivano distribuiti. Le cose ora sono cambiate, ma al porto si vedono ancora alcuni bidoni. Gli emigranti di Capo Verde sono ovunque nel mondo, tanti negli Stati Uniti, in Portogallo e nei Paesi del Nord Europa; mio zio è emigrato in Argentina. Mio padre invece è rimasto, lavora in un’impresa di esportazione e importazione di combustibili, mentre mi sorella lavora in progetti sanitari dell’Unicef per i bambini delle isole di Capo Verde».

Lei propone uno stile di danza originale che coinvolge vi- so e corpo, ma anche voce e strumenti. Come sarà il suo Euripide?

«Dal Teatro Nazionale di Lisbona mi è arrivata la proposta di lavorare sulla tragedia greca e io ho scelto Baccantiper la forza irrazionale alla base di questo dramma. In Euripide si articolano la ferocia e il desiderio di pace, la crudeltà e l’aspirazione a una vita semplice e pacifica. I personaggi e le situazioni sono legati alla trama, ma uso anche le poesie di Sanguineti. Le figure sono più enigmatiche e misteriose. La definirei una pièce di danze e mistero, dall’illusione e la cecità alla rivelazione, un gioco di apparenze».

Cos’è il mistero per lei?

«Una relazione con l’intensità, come quando si sente qualcosa e non si capisce veramente: il sentire tragico mi interessa molto. Penso alla relazione coi sogni, la notte, come le immagini emergono, a volte contradittorie. C’è uno spettro largo, qualcosa che non è lineare: lo abbiamo in noi».

La danza può insegnare a superare le barriere?

«Della danza bisogna fidarsi, il suo è un linguaggio teatrale per la pace. È il linguaggio che, all’ansia di questa epoca di catalogare e di comunicare tutto, contrappone quello del sogno. La danza può essere compresa da tutti».

Lei è nata in Africa e vive in Europa, a Lisbona. Come questi due continenti, che oggi paiono in conflitto, possono dialogare?

«A me lo ha insegnato la cultura creola, che è un ponte fra Europa e Africa . C’è una capacità di adattamento e una curiosità verso l’altro molto grande. Essere in Europa vuol dire vivere un viaggio l’uno verso l’altro, è subire una metamorfosi, andare verso lo straniero. Si va l’uno uno verso l’altro finche si trova l’ibrido. Tutto il mio lavoro è sulla creatura ibrida, sulle idee ibride: forse sono contraddittorie, ma io propongo un dialogo».

Geopolitica. Hamadi Redissi: «Religione e libertà, la vera sfida per l’islam»

Un fedele in preghiera nella moschea di Katmandu

Un fedele in preghiera nella moschea di Katmandu

Quali significati può assumere la parola “appartenenza” nel mondo musulmano? “Islam e appartenenze” – al plurale – è il tema del convegno internazionale di Pluriel che si svolgerà a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, dal 26 al 28 giugno. Espressione della Fuce, la Federazione delle università cattoliche d’Europa e del Libano, Pluriel è una piattaforma di ricerca sul dialogo islamocristiano. In questa prospettiva si collocano i lavori del convegno, che si concluderanno con un intervento del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. L’apertura è invece affidata al politologo tunisino Hamadi Redissi, figura di spicco nel dibattito pubblico del suo Paese (è presidente onorario dell’Osservatorio per la transizione democratica) e voce tra le più ascoltate nella riflessione sul rapporto tra islam e modernità. Toccherà a lui occuparsi di una delle questioni più controverse, quella relativa alla blasfemia. «Di per sé è un problema comune a tutte le religioni – spiega –. Ma ultimamente è quasi diventato un’esclusiva dell’islam».

Come mai?

«Per la mancata separazione tra le diverse sfere di cui la società si compone. Non dimentichiamo che nell’Ottocento anche la Chiesa cattolica considerava “delirante” l’idea di libertà di coscienza e lo stesso esercizio della liberà era ritenuto un atto di perdizione. Bisognerà attendere la dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae, che risale al 1965, perché la dimensione civile della libertà religiosa sia accolta dalla Chiesa: al presunto “diritto all’errore” subentra la nozione della libertà civile di cui ogni persona umana dispone in modo naturale. Ma è proprio qui che l’islam incontra un ostacolo».

Quale?

«In assenza di un’autorità centrale come quella della Chiesa diventa difficile distinguere tra diritto alla verità sul piano religioso e diritto alla libertà sul piano civile. Di fatto l’islam rimane impantanato in una prospettiva teologica e politica insieme, che impedisce di concepire la separazione tra sfere diverse. È un dispositivo a tre facce: il diritto positivo, i tribunali, la pratica della fatwa. Nel mondo musulmano la maggior parte delle Costituzioni fa riferimento all’islam, così come tutte le legislazioni condannano l’offesa contro la religione e possono prevedere la pena di morte in caso di apostasia o di ingiuria al Profeta, secondo le disposizioni del diritto islamico classico. Dove non si pronuncia lo Stato, intervengono gli ulema con la fatwa, recepita come sentenza celeste dai suicidi che si incaricano di eseguirla. In Pakistan, a partire dagli anni Ottanta, ci sono state una trentina di queste uccisioni extragiudiziali. Spesso gli assassini muoiono nel compire l’impresa oppure non vengono arrestati. Se anche questo accade, vengono condannati a pene molto lievi rispetto alla gravità del reato. Una volta usciti di prigione, sono celebrati come eroi. Chi prova a dissociarsi è soggetto ad angherie di ogni tipo».

È così in tutti i Paesi?

«Ci sono Stati che trattano alla stregue di un crimine solo l’oltraggio all’islam, altri condannano l’offesa arrecata al Profeta, altri ancora la estendono all’apostasia. Ma è una tripartizione che non va enfatizzata. L’Egitto, che in teoria appartiene al primo gruppo, è il Paese che detiene il record di processi per blasfemia, apostasia, insulti al Profeta, attentati al buoncostume e all’ordine pubblico. Secondo un rapporto dell’Iniziativa egiziana per i diritti civili, tra il 2011 e il 2015 i tribunali avrebbero condannato 81 cittadini per reati contro la religione. È la conseguenza della carenza di distinzione tra sfera teologica e sfera politica».

Ma il Corano come affronta la blasfemia?

«L’insulto a Dio e alla religione è condannato con nettezza nella nona sura: “Se li interroghi, certamente ti diranno: Stavamo solo chiacchierando e scherzando. Tu allora di’ loro: Voi vi prendete gioco di Dio , dei suoi segni e del suo Profeta? Non scusatevi, perché siete divenuti miscredenti dopo aver creduto”. Altrove si afferma che Dio “maledice in questo mondo e nell’aldilà quanti offendono Dio e il suo Profeta, preparando per loro un castigo ignominioso”. Il Corano, però, non stabilisce un castigo per l’immediato. I detti e le gesta del Profeta offrono un quadro ancor più pieno di contrasti: alcuni blasfemi vengono uccisi, ad altri è risparmiata la vita. Ma tutto questo, purtroppo, non aiuta a capire se il pentimento sia sempre accettabile».

Della blasfemia esistono definizioni diverse?

«Le parole possono cambiare, ma il concetto rimane e comporta una definizione, oltre che una sanzione. Nel diritto islamico ci si riferisce all’“insulto” ( sabb oppure shatm) ed è comune la convinzione per cui chi insulta Dio, la religione e Muhammad è un empio che dev’essere ucciso, a meno che non si penta. Ma non c’è accordo sul fatto che questo pentimento vada sempre accolto. Anche calunniare la sposa del Profeta o i suoi compagni è un peccato, punito però in modo più discrezionale, di solito a frustate».

Quale spazio può esserci per la libertà di pensiero, di critica e di espressione in questo contesto?

«Questa è senza dubbio la sfida maggiore. In Occidente vige una distinzione abbastanza chiara tra libertà di critica e blasfemia, mentre nel mondo musulmano il confine non è così preciso. Ci sono intellettuali che cercano di promuovere un’interpretazione dell’islam in chiave liberale, ma sono osteggiati dal potere politico, dalle autorità religiose e dalla stessa opinione pubblica. Quanto al dialogo, non può limitarsi alla cerchia ecumenica ed esige che a tutti gli interlocutori sia riconosciuta uguale dignità. L’Occidente non si sta mostrando molto accogliente nei confronti della cosiddetta “questione islamica”. L’islam da parte sua, rivendica diritti dove si trova in minoranza e detta legge dov’è in maggioranza».

Il tema della blasfemia può influire sulla complessità dei processi migratori?

«Il nodo è la complessità, appunto. Mi pare che in Europa non si colgano le implicazioni intellettuali e morali della questione. Si guarda alle migrazioni, ai migranti e ai rapporti tra le comunità in modo abbastanza meschino, come se l’Europa facesse storia a sé. In Francia, per esempio, il dibattito è molto riduttivo e si fonda sulla contrapposizione tra quanti, come Gilles Kepel, sostengono che sia in atto l’ennesima radicalizzazione dell’islam e quanti, come Olivier Roy, pensano che l’islamismo sia invece uno strumento di cui i radicalisti si servono. L’islam, insomma, non farebbe altro che produrre terroristi o, in alternativa, attirare delinquenti. In un modo o nell’altro, non si tengono in alcuna considerazione fattori come l’influenza dei Paesi da cui i migranti provengono, la dimensione sociale originaria, i conflitti dell’area mediorientale, il ruolo dei media islamici, la consuetudine della fatwa digitale e la pressione esercitata dalla tradizione giuridica e teologica. Il dibattito in corso dovrebbe portarci a riflettere sulla globalizzazione delle religioni e più ancora su come i credenti possano deliberatamente macchiarsi di crudeltà. Nel Novecento non avremmo mai pensato di confrontarci con questioni simili».

da Avvenire

La Giornata mondiale contro le droghe. E le sostanze vengono «normalizzate»

«Sui territori ci sentiamo soli -­ dice chiaro Luciano Squillaci, presidente della Fict, “Federazione italiana comunità terapeutiche” (l’intervista integrale è nel video qui sotto) -. La sensazione è che ci sia stata una sorta diresa generalizzata di fronte alla questione delle dipendenze, come se l’uso e l’abuso di sostanze, il gioco d’azzardo, le dipendenze comportamentali, la psicosi da internet fossero un male del quale non si può fare a meno, perché parte di una modernità. Che a noi francamente non piace».

La tenaglia è forte e fortemente convincente. Da una parte società e politica che insieme hanno reso le droghe una specie d’innocua abitudine, dall’altra una risposta alle dipendenze inchiodata a quaranta anni fa. Così le tante celebrazioni previste per domani nella “Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico di droga” si svuotano un bel po’ di significati.

Risultati? Un italiano su dieci racconta d’aver provato almeno una volta nella vita una sostanza illegale e mezzo milione di persone sono dentro con tutti i piedi la dipendenza da una sostanza (o più), racconta l’ultima Relazione al Parlamento.

Un’occhiata veloce all’Europa? La cocaina è lo stimolante illecito più consumato, più o meno 2,3 milioni di giovani adulti (da 15 a 34 anni) l’ha usata nell’ultimo anno, annota l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze.

E se diminuiscono le nuove sostanze psicoattive individuate, aumentano i danni. Come quelli legati ai nuovi cannabinoidi sintetici e ai nuovi oppiacei sintetici, tra cui intossicazioni acute e decessi.

I cannabinoidi sintetici, spesso venduti come «miscele di erbe da fumare», sono state le nuove droghe più frequentemente sequestrate nel 2016. Crescono anche i nuovi oppiacei sintetici di elevata potenza, che imitano gli effetti degli oppiacei di origine naturale (ad esempio eroina e morfina).

WhatsApp contro fake news, un bollino per i messaggi inoltrati

 © ANSA

WhatsApp sta ufficialmente testando una funzione contro spam e fake news: contrassegna un messaggio inoltrato per far capire che non e’ stato scritto dall’utente ma semplicemente copiato da un’altra conversazione, quindi non verificabile. A confermare un’indiscrezione circolata qualche settimana fa e’ Carl Woog, capo della comunicazione della chat di proprieta’ di Facebook, intervenuto al Global Fact-Checking Summit che si e’ tenuto a Roma.

Un tentativo per interrompere bufale, truffe o catene di Sant’Antonio, fastidiose e in alcuni casi drammatiche. Come dimostra quanto accaduto di recente in India: due uomini sono stati uccisi dopo un tam tam di panzane sulla chat, che li accusava del rapimento di bambini. ‘Aiutare i fact-checkers sara’ una mossa futura cruciale per WhatsApp, abbiamo a cuore la sicurezza degli utenti’, aggiunge il manager dell’app di messaggi piu’ popolare al mondo che secondo il Reuters Digital News Report 2018 sta conquistando sempre di piu’ il favore delle persone nella fruizione delle notizie.

Secondo gli ultimi dati, la piattaforma conta 1,5 miliardi di utenti mondiali che inviano 65 miliardi di messaggi al giorno. Per Woog ‘il 9% dei messaggi sono mandati tra due persone, i gruppi contano in media 6 utenti’. Un’altra soluzione per contenere la disinformazione – sottolinea il manager – e’ dare piu’ potere agli amministratori dei gruppi che possono controllare le conversazione e gestire il tipo di messaggi. Al momento – aggiunge – non sono allo studio di WhatsApp contrassegni per le fake news, mentre per le organizzazioni di fact-checking non e’ ancora possibile raggiungere tante persone, l’app deve ancora implementare sistemi per grandi numeri ‘e’ stata progettata per gli amici e la famiglia’.

La chat attualmente sta facendo esperimenti in alcuni paesi per la verifica delle notizie con fact-checkers certificati. E con WhatsApp Business, la chat professionale lanciata a gennaio in un gruppo di paesi, sara’ possibile per media e testate giornalistiche avere profili verificati.

A tallonare WhatsApp nel mondo e’ la chat cinese WeChat che poche settimane fa ha raggiunto il traguardo di 1 miliardo di profili. Una piattaforma che opera in un paese, la Cina, che monitora Internet e in cui ‘la disinformazione e’ punita con il carcere’ ha ricordato nel corso del Global Fact-Checking Summit di Roma, Chi Zang dell’University of Southern California, studiosa di questa app di messaggistica. ‘Molti di voi lavorano in paesi con una presenza significativa di immigrati cinesi’, ha poi detto la ricercatrice rivolgendosi alla platea del Summit e incoraggiando a interessarsi a WeChat chi lavora sulla verifica delle notizie e alla creazione di un network.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA