Editoria. Da poetesse a narratrici, la scrittura è donna

Helena Janeczek, premio Bagutta e nella cinquina dello Strega

Helena Janeczek, premio Bagutta e nella cinquina dello Strega

Sappiamo che l’universo letterario femminile è in continua espansione, ma un ulteriore fenomeno rilevante è quello delle non poche poetesse autrici di narrativa. Tra le novità recenti, o addirittura recentissime, c’è il primo romanzo di Mariella Cerutti Marocco, già autrice di tre raccolte di versi uscite in Oscar Mondadori ( La devozione e lo smarrimento la più recente), oltre che anima e sostegno del premio Cetonaverde di poesia internazionale.Fratelli allo specchio (Mondadori, pagine 108, euro 18; sarà presentato domani a Milano, alla Casa della cultura alle 18.00) è un esordio persuasivo, un romanzo che mette in scena il complesso rapporto tra due fratelli, due imprenditori del nord ovest, la cui vicenda si snoda, tra successi, reciproche incomprensioni e svolte drammatiche, nel corso di alcuni decenni del Novecento, periodo in cui avvengono, nel nostro Paese, vistose trasformazioni storiche ed economiche, di cui la famiglia di Marco e Davide è parte significativa. Il fatto che Cerutti Marocco provenga dalla poesia le consente una felice essenzialità di scrittura e buoni ritmi narrativi, una capacità di scandire il percorso per situazioni ed episodi ognuno dei quali riesce a imporsi per carattere e nitidezza espressiva con sicura efficacia. Si tratta comunque di un romanzo dal cuore lirico, che si legge tutto d’un fiato per la verità senza retorica nel suo svolgersi. Dunque, le poetesse che passano alla narrativa.

È anche il caso di Helena Janeczek, entrata nella cinquina del premio Strega al primo posto, dopo aver vinto il premio Bagutta, con La ragazza con la Leica, (Guanda) e che era partita proprio dalla poesia, sia pure in un’altra lingua. Un altro caso è quello di Maria Attanasio, che ha già al suo attivo diverse opere di narrativa e che pubblica ora La ragazza di Marsiglia (Sellerio, pagina 390, euro 15), romanzo storico che ci riporta al tempo dei Mille, impresa alla quale partecipò anche una donna, Rosalie Montmasson, un’ex lavandaia dell’Alta Savoia divenuta mazziniana e amante di Francesco (che diventa Fransuà, o Ciccio) Crispi conosciuto a Marsiglia e sposato a Malta. Ma lui, una volta potente uomo pubblico, ne sposò un’altra e ne cancellò del tutto la memoria alterando la verità dei fatti. Attanasio ci introduce nei vari luoghi di questa storia affascinante e un po’ sinistra con la passione per la vicenda storica e per l’incerto destino femminile, con l’intelligenza di chi vuole rileggere pagine di un passato tanto importante con attenzione all’umano oscillare tra fedeltà a ideali e incoerenza, tra pensiero e azione. Un racconto d’ampio respiro.

Mary Barbara Tolusso, con L’esercizio del distacco (Bollati Boringhieri, pagine 176, euro 14) è al suo secondo romanzo (dopo L’imbalsamatrice), che pubblica in contemporanea con una notevole plaquette di versi, Disturbi del desiderio (Stampa 2009), introducendo il tema dell’adolescenza e di ciò che più tardi, nell’ormai normalizzato svolgersi di un’esistenza, ne permane come pur vivo residuo. Il collegio, le amicizie e gli amori di quell’età, un impulso verso un altrove, verso la trasgressione e l’evasione, e più tardi, raggiunta l’età pienamente adulta, il rispecchiarsi in un passato dal quale la propria fisionomia riappare inevitabilmente mutata, come in uno specchio deformante. Tolusso si propone in una scrittura nervosa eppure venata di sentimento e tenerezza, producendo il suo racconto attraverso un incalzante intrecciarsi di situazioni, ricco di interrogativi, di poetici dubbi insolubili.

Marina Corona, di cui ricordiamo soprattutto le poesie di I raccoglitori di luce, si occupa a sua volta dell’adolescenza, anche se la sua protagonista è molto più giovane di quella di Tolusso. La complice (puntoacapo, pagine 190, euro 15) è il titolo di un romanzo al cui centro è la tredicenne Greta, con i suoi problemi e misteri, con le complicazioni della famiglia, dei suoi genitori, di cui non può non subire il peso. Corona costruisce il suo racconto in una fittissima rete di dialoghi, in un intreccio di minuzie della realtà d’oggi che assorbono, nella loro debolezza, il cuore turbato dei personaggi. Di Lucrezia Lerro, poetessa, sono già numerosi i titoli di narrativa. La novità si intitola L’estate delle ragazze (La nave di Teseo, pagine 250, euro 18) e ne conferma l’esatta limpidezza di scrittura. Ma la poesia è centrale anche in questo romanzo, visto che la protagonista, una ragazza del sud, Corinna, che sta a Firenze, ne scrive, vuole diventare scrittrice e questo è ciò che per lei più conta. Poi incontra lo scrittore Jacopo, che sta a Milano, si prende cura di lei e ne cambia la vita, la porta nel mondo. L’autrice inserisce nel testo frammenti di narrazioni che Corinna sta scrivendo in un’efficace alternanza col racconto dove lei resta un personaggio inquieto, si strappa i capelli, ha un’intensità interiore che ne è il pregio e si trasmette alle pagine del romanzo.

Un caso particolare è infine quello di Cristina Annino, recente autrice di una bella e ottimamente accolta raccolta di poesie, Anatomie in fuga, si ripropone col romanzo Connivenza amorosa( Greco&Greco, pagine 198, euro 11) dove prende la parola una figura femminile, una poetessa, che narra del proprio rapporto, al tempo stesso intensissimo e feroce con un uomo diversissimo da lei per vicende personali e mentalità. Ne nasce una situazione conflittuale e disperata che Annino racconta con non comune estro vivace, con una potenza espressiva nella quale possiamo riconoscere, pur condotta su un piano narrativo, la fisionomia della sua singolare ricerca poetica.

da Avvenire

Il ritorno dell’Educazione civica. Un’ora per discutere ma non di regole

Un’ora per discutere ma non di regole

Caro direttore,
mi permetto d’intrufolarmi nel dialogo pubblicato, domenica 10 giugno, nella rubrica ‘Il Direttore risponde’ con il collega Leonardo Eva. E lo faccio con empatia, perché anch’io ho insegnato Italiano, Storia ed Educazione civica, e poi Storia e Filosofia e Pedagogia dal 1959 al 1971. Comincio ricordando che l’Assemblea Costituente, l’11 dicembre 1947, quasi al termine dei suoi lavori, votò con unanimi prolungati applausi l’odg firmato da Aldo Moro e altri, in cui si chiedeva: «che la Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano». Quel giorno, ha scritto Mario Lodi, è nata la scuola della Repubblica italiana.

Moro non chiedeva che «si passasse un’ora in più a parlare di regole», come dice il collega Eva, che si è fatto un’idea non proprio esaltante della Costituzione e del suo potenziale educativo e creativo. Platone, Dante e tutto il ben di Dio della nostra storia di scienze, lettere e arti facevano parte anche dei programmi della scuola fascista, quando si pretendeva che si studiasse per «credere obbedire combattere», dato che il Duce aveva «sempre ragione».

Ma i valori della nostra composita, limpida e anche torbida civiltà ebraico greco romano cristiana, illuministica, personalistica e sociale non erano passati invano nelle memorie e nelle coscienze di quei giovani che affrontarono la Resistenza. Anche per il loro sacrificio si arrivò alla Costituzione. L’indugio, paventato da Moro, fu superato dieci anni dopo, il 13 giugno 1958, giusto 60 anni fa, quando, divenuto ministro della Pubblica Istruzione, emanò con Gronchi il dpr che integrava i programmi di insegnamento della Storia negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica con i «programmi di Educazione civica». Il posto trovato nella scuola, era scarso, ma quanto di meglio si potesse fare, in quel contesto postbellico. Venne il fatidico ’68. Il 6 aprile scrissi sulla mia agenda: «Gruppo con studenti per leggere i programmi di studio dei licei classico, scientifico, magistrale. Conclusione: si possono applicare in modo intelligente. Il programma di Educazione Civica è stato innestato su un tronco vecchio.

Ma è l’idea nuova per cui battersi (adempimento della legge!). Oggi 18 ore l’anno sono rubate all’educazione civica. Occorre chiederne ragione ai consigli di classe». Sono 50 anni che cerco di rendere questa ‘nuova idea’ comprensibile, amabile, praticabile come luce orientante dei curricoli e insieme alimentabile col meglio di tutte le discipline scolastiche. Ho presieduto quattro gruppi di lavoro istituiti da diversi ministri, oltre al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, ricominciando ogni volta il discorso da capo, con approcci, temi, nomi, leggi, norme applicative, ‘sperimentazioni’ diverse.

A proposito: la legge in vigore (n.169 del 2018) parla di «conoscenze e competenze relative a cittadinanza e Costituzione nell’ambito delle aree storico geografica e storico sociale», non della sola cittadinanza, né di generica ‘trasversalità’ di questi temi, ossia di facoltatività superflua. Nonostante le ambiguità ministeriali, c’è un patrimonio di esperti e docenti di varie discipline, di documenti ufficiali e di studi, di esperienze e di ‘buone pratiche’, che consente di affrontare credibilmente i problemi impostati e chiariti, anche se non sempre risolti, neppure da Gesù e da Socrate. I quali, fra l’altro, non sempre sono riusciti a «trovare il tempo per far lezione con tranquillità», come richiede Eva. Ho citato il ’68. Dieci anni dopo fu assassinato Aldo Moro. È inquietante e non infondato pensare che se i brigatisti che compirono quel misfatto, nella distorta convinzione che servisse a rovesciare un sistema politico ritenuto altrimenti ingiusto e immodificabile, avessero studiato e capito la Costituzione, che il ministro Aldo Moro aveva introdotto nella scuola nel 1958, quel delitto non si sarebbe compiuto vent’anni dopo.

Credo che l’intera società, insieme alla Famiglia Moro, debba essere in qualche modo risarcita per la debolezza con cui si è affrontata nelle scuole l’Educazione civica, fino a farla tacitamente scivolare fuori dal curricolo. Don Milani scrisse nella Lettera a una professoressa: «Voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». Quest’anno si sono commemorati ufficialmente al Miur e nella scuola italiana sia Moro sia don Milani. Ma il loro pensiero e la loro testimonianza devono essere più profondamente compresi e messi in pratica. Diverse iniziative riscoprono in questi mesi il valore pedagogico della Costituzione e chiedono che sia ricuperato con legge di iniziativa popolare il profilo culturale e motivazionale per l’educazione civica previsto da Moro. Si tratta di un albero frondoso, ma con radici ampie e robuste. Va coltivato e potato con cura, anche dai docenti.

da Avvenire

di Luciano Corradini – Professore emerito di Pedagogia generale, Università di Roma Tre

Docenti di diritto. Salvare vite in mare un dovere. Poi si discute

Salvare vite in mare un dovere. Poi si discute

Caro direttore,
i sottoscritti docenti universitari e accademici, accomunati dall’interesse per il Diritto del mare al quale dedicano da molti anni i propri interessi di ricerca e didattici in diverse Università ed Enti pubblici di ricerca italiani e stranieri, membri del Gruppo d’interesse sul Diritto del mare della Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea, ritengono doveroso prendere la parola su alcune delle questioni che sono in queste ore al centro del dibattito pubblico per precisare i contenuti di alcuni princìpi giuridici vincolanti per il nostro Paese, in quanto parte della comunità internazionale e membro dell’Unione Europea. In primo luogo, il dovere di tutelare la vita umana in mare è imposto, dal diritto internazionale, a tutti gli Stati (costieri – attraverso un complesso sistema di ripartizione di obblighi di «search and rescue» , ricerca e salvataggio – e di bandiera – per il tramite degli equipaggi a bordo delle navi).

Così si esprime la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare del 1982, facendo peraltro propria un’antica consuetudine internazionale. Tale dovere, per sua natura, non può rivestire carattere esclusivo, e il mancato adempimento da parte di uno Stato non costituisce adeguato fondamento per il rifiuto di ottemperare opposto da un altro Stato. Nell’ultimo, positivo sviluppo della vicenda della nave “Aquarius” la Spagna ha dato una plastica dimostrazione di questa circostanza. In secondo luogo, pur non possedendo sufficienti informazioni (e, anche per questo, senza voler prendere posizione sulla controversia in corso tra Italia e Malta), quanto appena osservato ci porta a ritenere insufficiente, perché uno Stato possa dirsi “liberato” del dovere di dare accoglienza nei propri porti a una nave in difficoltà, il fatto che un altro Stato abbia coordinato il soccorso della nave attraverso il proprio Rescue Coordination Center (Rcc).

Ciò, se non altro, per il banale motivo che tale interpretazione disincentiverebbe ogni attività di coordinamento di soccorso, con effetti contrari allo spirito stesso di cooperazione sotteso all’esistenza di una rete internazionale di centri di soccorso. In terzo luogo, la chiusura dei porti. Tale misura non è di per sé esclusa dal diritto del mare, ricadendo i porti nell’ambito dell’esclusiva sovranità dello Stato. La possibilità di attuarla dipende tuttavia dall’esistenza (o meno) di accordi bilaterali tra lo Stato del porto e quello di bandiera (e dal contenuto di tali accordi) nonché dalle specificità di ciascun singolo caso. Il rifiuto di accogliere in porto una nave potrebbe quindi configurare una violazione del dovere di salvaguardare la vita umana in mare qualora la nave in oggetto si trovi in difficoltà, se non addirittura una forma di respingimento di massa, anch’esso vietato dal Diritto internazionale (nella specie, dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). In quarto luogo (e in estrema sintesi), il ruolo dell’Unione Europea.

Che il regolamento europeo (cosiddetto “Dublino III”) che individua lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale (Reg. Ue n. 604/2013) debba essere rivisto è fuor di dubbio, essendo stato concepito senza tener conto delle dimensioni dei flussi migratori che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Si tratta, però, di un tema diverso da quello delle migrazioni per mare benché collegato a esse: non è infatti a causa di Dublino, bensì della sua posizione e conformazione geografica che l’Italia si trova a essere il punto di approdo naturale dei migranti provenienti dal continente africano. È dunque giusto che il nostro Paese spinga per una revisione del sistema di Dublino (che fa gravare sull’Italia l’esame di un numero troppo elevato di domande di protezione) e insista nel chiedere ai partner europei una più equa ripartizione degli sforzi (logistici ed economici) necessari per fronteggiare le emergenze umanitarie che le migrazioni per mare portano con sé.

Irini Papanicolopulu professore associato di Diritto internazionale Università di Milano-Bicocca

Rosario Sapienza professore ordinario di Diritto internazionale, Università di Catania

Gian Maria Farnelli assegnista di ricerca Università di Bologna

Lorenzo Schiano di Pepe professore ordinario di Diritto dell’Unione Europea, Università di Genova

Fiammetta Borgia ricercatrice di Diritto internazionale, Università di Roma “Tor Vergata”

Claudia Cinelli docente a contratto Accademia Navale di Livorno e Università di Pisa Ilaria Tani avvocato e docente a contratto in Diritto internazionale del mare, Università di Milano-Bicocca

Andrea Caligiuri professore associato di Diritto internazionale Università di Macerata

Francesca Mussi assegnista di ricerca in Diritto internazionale Università di Trento

Gemma Andreone ricercatrice di Diritto internazionale Istituto di Studi Giuridici Internazionali – Cnr

Roberto Virzo professore associato di Diritto internazionale Università del Sannio

Emiliano Giovine avvocato e supervisor presso la Human Rights and Migration Law Clinic Università di TorinoTullio Scovazzi professore ordinario di Diritto internazionale Università di Milano-Bicocca

Giuseppe Cataldi professore ordinario di Diritto internazionale Università di Napoli “L’Orientale” e Presidente dell’Association Internationale du Droit de la Mer

Tullio Treves professore emerito Università di Milano

Speranza, discernimento, vocazione: le parole chiave del Sinodo dei giovani

Giovani partecipanti ai lavori dell'assemblea pre-sinodale (Siciliani)

Giovani partecipanti ai lavori dell’assemblea pre-sinodale (Siciliani)

Si scrive Sinodo, si legge speranza. Così, in pratica, il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario dell’istituzione sinodale, ha riassunto il senso dell’Instrumentum Laboris del prossimo Sinodo dei giovani, presentato oggi (CLICCA QUI PER IL TESTO COMPLETO) ai giornalisti nella sala stampa della Santa Sede. Speranza, che manca, speranza che il Papa e la Chiesa – proprio attraverso l’Assemblea di ottobre – vuole contribuire a ridare ai giovani. «L’ascolto che abbiamo messo in campo durante questi ultimi anni in vista del Sinodo – ha fatto notare il porporato – ci ha restituito una mancanza di speranza piuttosto generalizzata: anziché coltivare una speranza affidabile e vivere a partire da essa, molti giovani tentano continuamente la sorte: le scommesse in ogni campo aumentano esponenzialmente, il gioco d’azzardo si amplia tra i giovani, nelle nostre città si moltiplicano le sale da gioco in cui si smette di sperare, affidando la propria vita ad un improbabile colpo di fortuna. Effettivamente, quando si perde la speranza si tenta la fortuna». Dunque il Sinodo deve essere l’occasione per «ritrovare la speranza della vita buona, il sogno del rinnovamento pastorale, il desiderio della comunione e la passione per l’educazione».

Naturalmente si parla non una generica e immanente speranza, ma di quella cristiana. E allora Baldisseri ha espresso un triplice auspicio: «Per tutti i giovani, perché in un mondo che sta rubando loro affetti, legami e prospettive di vita, riscoprano la bellezza della vita a partire dalla felice relazione con il Dio dell’alleanza e dell’amore. Per la Chiesa, perché in un momento non facile riacquisti, attraverso un percorso di autentico discernimento nello Spirito, un rinnovato dinamismo giovanile. Ed infine per il mondo intero, perché tutti gli uomini e le donne possano riscoprire di essere destinatari privilegiati della buona notizia del Vangelo».

Un’altra parola cardine, anzi quella centrale nel tema del Sinodo, citata abbondantemente nel corso della Conferenza stampa è stata la «vocazione». Don Rossano Sala, uno dei segretari speciali di questo Sinodo, ha sottolineato: «Una delle grandi debolezze della nostra pastorale oggi risiede nel pensare la “vocazione” secondo una visione ristretta, che riguarderebbe solo le vocazioni al ministero e alla vita consacrata. La perdita della cultura vocazionale ci ha fatto precipitare in una società “senza legami” e “senza qualità”. Secondo la visione cristiana dell’uomo, la questione riguardante l’identità e l’unità della persona può avere solamente una risposta vocazionale. Se manca la dinamica vocazionale non ci può che essere una personalità frammentata, caotica, confusa e informe. Invece è da riconoscere che la vocazione è la parola di Dio per me, unica, singolare, insostituibile, che offre consistenza, solidità, senso e missione, all’esistenza di ciascuno». Risulta dunque «evidente – ha concluso il salesiano – che solo all’interno di una rinnovata e condivisa “cultura vocazionale” che valorizza ogni tipo di chiamata trova senso l’impegno specifico per la cura delle vocazioni “di speciale consacrazione”».

Il gesuita Giacomo Costa, l’altro segretario speciale del Sinodo sui giovani, si è soffermato invece suldiscernimento: «Riemerge con forza la necessità che il Sinodo si trasformi in una occasione di crescita della Chiesa nella capacità di discernere, in modo da rendere davvero generativo, anche oggi, quel patrimonio spirituale che la storia della Chiesa ci consegna perché ancora una volta possiamo “lavorarlo” in modo che porti frutto. Alcune delle esperienze raccolte durante il lavoro di preparazione mostrano la ricchezza che scaturisce quando questo avviene. Optare per il discernimento, anziché per soluzioni preconfezionate, implica assumere un rischio, ma è soprattutto un atto di fede nella potenza della Spirito, che fin dall’antichità invochiamo come Creatore».

E proprio a proposito di questo, è stato chiesto, durante la conferenza stampa, perché nel documento si usi l’espressione Lgbt. Il cardinale Baldisseri ha risposto rimandando al documento finale dell’incontro presinodale del quale, nel marzo scorso sono stati protagonisti i giovani. «Ci hanno fornito un testo e noi lo abbiamo citato».

Sta qui in effetti una delle novità del processo redazionale che, come ha fatto notare il vescovo Fabio Fabene, sottosegretario del Sinodo, ha portato alla stesura delll’Instrumentum Laboris. Oltre alle risposte delle Conferenze episcopali, fonte consueta, si è fatto riferimento al Seminario internazionale sulla condizione giovanile, tenutosi a settembre del 2017, al questionario on line attivo da giugno a dicembre dello scorso anno, alla Riunione presinodale e anche ai contributi che singoli giovani, o gruppi di giovani, dei cinque continenti hanno inviato alla Segreteria del Sinodo.

Anche durante l’Assemblea di ottobre, ha annunciato Fabene, «è previsto uno spazio di comunicazione indirizzato direttamente ai giovani. Verranno utilizzati i social media (in particolare Facebook, Instagram e Twitter), con le tempistiche ed i linguaggi propri delle reti sociali. Si avrà così la possibilità di un’interazione giornaliera, anche attraverso immagini e video. Naturalmente – ha aggiunto – tra gli Uditori, oltre agli educatori dei vari campi, ci sarà un numero considerevole di giovani, anche con particolari esperienze che faranno riflettere sulle difficili situazioni di vita di tanti giovani. Non mancheranno, come in tutti i Sinodi, i Delegati Fraterni di diverse confessioni cristiane e Invitati Speciali di altre religioni».

da Avvenire

Capitali cultura Ue 2018, al via Valletta e Leeuwarden L’anno prossimo toccherà a Matera e Plovdiv

Malta, La Valletta (Foto: Clive Vella)

BRUXELLES – Anno nuovo capitale della cultura nuova: il 2018 vedrà sotto i riflettori la malteseValletta e l’olandese Leeuwarden, che passeranno poi il testimone, nel 2019, all’italiana Matera e alla bulgara Plovdiv. La capitale di Malta terrà la cerimonia di apertura dal 14 al 20 gennaio, ispirandosi alla tradizionale “festa” paesana maltese, con l’obiettivo di ripensare il concetto di cultura e di mettere in contatto le due sponde del Mediterraneo. Tre i temi attorno a cui ruoteranno gli oltre 140 progetti e 400 eventi del programma annuale: ‘Storie dell’isola’, ‘Barocco futuro’ e ‘Viaggi’, con circa mille artisti, curatori, scrittori, designer, registi, attori, cori e così via.

Leeuwarden, capitale della Frisia olandese, lancerà le attività culturali il fine settimana successivo del 26-27 gennaio, con al centro del programma il concetto di “iepen mienskip”, ovvero comunità aperta. L’obiettivo è rafforzare i legami tra le diverse comunità sia in Frisia che in Europa con oltre 800 progetti che coinvolgono musica, danza, teatro, opera, sport e arte. Tra i momenti clou, una mostra sul celebre incisore e grafico olandese M.C. Escher, nato proprio a Leeuwarden nel 1898, e un’opera sulla celebre spia Mata Hari, anche lei con in natali nella stessa cittadina.

La capitale europea della cultura venne lanciata per la prima volta nel 1985 dall’allora ministra greca della cultura Melina Mercouri, ed è sempre stata una delle iniziative culturali Ue di maggior successo. “Il 2018 – sottolinea il commissario Ue alla Cultura Tibor Navracsics – sarà l’Anno europeo del Patrimonio culturale, ed entrambe le capitali hanno molti progetti che lo promuovono nei loro programmi, contribuendo così a sottolineare il ruolo della cultura nel costruire un’identità europea”.

ansa

CONNETTERSI ALLA NATURA, ASCOLTARE GLI ALBERI, LA FOREST BATHING PER TUTTI Il ‘forestale’ Zovi, il flusso di energia nutre la nostra sete di natura

Un bosco in autunno foto Philip Openshaw iStock. (ANSA)

Le favole che abbiamo ascoltato da bambini ci hanno fatto conoscere il bosco come un luogo oscuro, pericoloso, pieno di insidie, dove Pollicino si perde e Cappuccetto rosso incontra il lupo cattivo. La foresta che avvolge il castello della Bella addormentata non è meno cupa e inquietante. Gli alberi e le radure che ci racconta Daniele Zovi nel libro Utet che insegna come guardare, ascoltare e avere cura del bosco, sono invece rassicuranti, ci parlano, nutrono la nostra sete di natura, ci invitano ad addentrarci e a camminare tra gli alti fusti. Ma soprattutto il libro di Zovi, ‘Alberi sapienti, antiche foreste’, ci consiglia di ascoltare gli alberi perché, scrive:’ ’la foresta è immersa in un silenzio fatto di mille rumori’’.

Le foglie mosse dal vento, il fruscio di quelle secche a terra, il cigolio dei rami, i versi degli uccelli, i l suono degli animali che si muovono nel sottobosco, il ticchettio degli insetti che camminato sui tronchi, il ronzio delle zanzare e il canto dei grilli sono la voce della foresta che l’autore ci insegna ad ascoltare.

Originaria del Giappone la ‘forest bathing’, una pratica con benefici scientificamente approvati e che nella sua terra d’origine dal 1982 è parte del programma di salute pubblica nazionale, al di là della terminologia e della moda si può praticare ovunque, dal parco cittadino al bosco in montagna.

‘’Se si sta dentro un bosco in posizione di ascolto, prima o poi- scrive Zovi – si avverte, si intuisce la presenza di un flusso di energia che circola tra i rami, le foglie, le radici. Talvolta è un sussurro, altre volte strepiti e grida. È come se le piante parlassero tra loro’’.

Daniele Zovi, nato nel 1952 a Roana e cresciuto a Vicenza, si è laureato in Scienze Forestali a Padova e per quarant’anni ha prestato servizio nel Corpo Forestale. Nel 2017 è stato nominato generale di brigata del Comando Carabinieri-Forestale del Veneto ed è uno dei maggiori esperti in materia di animali selvatici, autore di diversi trattati sul tema. Negli anni, camminatore infaticabile e sensibilissimo osservatore della natura, ha attraversato i sentieri che tagliano i boschi alpini di conifere, ha perlustrato le antiche foreste croate e slovene, si è arrampicato fino alle cime dei Picos de Europa, in Spagna, ha contemplato il più vecchio eucalipto al mondo, il Giant Tingle Tree, in Australia; seguito i semi dell’abete rosso vorticare nel vento prima di atterrare sulla neve o la chioma contorta di secolari pioppi bianchi grandi come piazze; ha rincorso le specie pioniere, gli alberi coloni che si sviluppano in territori abbandonati; analizzato cortecce e radici, fronde e resine. Con ‘Alberi sapienti .Antiche foreste’ ha realizzato unmanuale d’amore per il bosco in cui ci parla dell’intelligenza delle piante, capaci di adattarsi ad ogni ambiente anche ostile. Di come gli alberi si muovano, abbiano una loro sensibilità .

’’Certo – scrive Zovi- non hanno un cervello che coordina le informazioni né un sistema nervoso che trasmette segnali, tuttavia tra le diverse parti di una pianta vengono scambiate informazioni’’. Secondo Zovi, dunque ‘’gli alberi non hanno occhi ma vedono’’ ad esempio il sole e la luce che si sposta.

Originaria del Giappone la ‘forest bathing’, una pratica con benefici scientificamente approvati e che nella sua terra d’origine dal 1982 è parte del programma di salute pubblica nazionale, al di là della terminologia e della moda si può praticare ovunque, dal parco cittadino al bosco in montagna.

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