Calcio. Donne sull’orlo della qualificazione ai Mondiali di Francia 2019

Le Azzurre sono a un passo dalla grande impresa. Il Ct Milena Bertolini: «Un gruppo di qualità che ha battuto tanti pregiudizi»

da Avvenire

Alcune ragazze della Nazionale di calcio femminile, la qualificazione a Francia 2019 è vicina

Alcune ragazze della Nazionale di calcio femminile, la qualificazione a Francia 2019 è vicina

Il Mondiale non sfuggirà. Sei partite e sei vittorie e qualificazione che potrebbe arrivare in anticipo già il prossimo 8 giugno nella sfida contro il Portogallo, a Firenze. C’è un’Italia calcistica che vince e che la rassegna iridata se la godrà come merita, perché tra un anno in Francia la Nazionale femminile ci sarà, vent’anni dopo l’ultima partecipazione a Usa 1999. Un’impresa, non una sorpresa: «Ho preso in mano la Nazionale a settembre – spiega Milena Bertolini, ct delle azzurre – e ne conoscevo le qualità. Le ragazze hanno dimostrato il loro valore, ma devo dire che me lo aspettavo».

Bertolini, qual è stata la svolta?

«Un’amichevole, quella di gennaio a Marsiglia con la Francia. Ho sempre pensato che il livello di una squadra si misuri affrontando avversarie più forti: quel giorno abbiamo pareggiato in casa loro, chiudendo in attacco. Lì la consapevolezza delle ragazze è aumentata: se contro certi avversari perdi sempre, diventa un problema. Ma se te le giochi e rischi di vincere cresce l’autostima».

Non solo le qualificazioni Mondiali…

«Anche avere raggiunto la finale della Cyprus Cup (persa con la Spagna) è stato un risultato significativo: in nove partecipazioni, non era mai accaduto».

È la cartina di tornasole di un movimento che ha cominciato a correre.

«Eravamo rimasti fermi 15-20 anni in termini di investimenti e lo abbiamo pagato. Ma le scelte della Federazione, nell’ultimo triennio, hanno consentito un’accelerazione che ci ha permesso di recuperare terreno a grande velocità».

Lei già nel 2015 denunciava ostracismi e pregiudizi.

«Le persone intelligenti sono quelle che cambiano, e la Federazione ha avuto l’intelligenza di mettersi in discussione. Si erano toccati pun- ti bassi, ma c’è stata la volontà di cambiare e si è stati in grado di recuperare».

Scelte vincenti: l’apertura alle società professionistiche la prima.

«Società che, come Fiorentina e Juventus, hanno una visione che guarda al futuro, ci si sono buttate appena hanno visto l’opportunità e la loro presenza ha dato un impulso fondamentale in termini di strutture e staff. Poi Empoli, Sassuolo, Atalanta, ora l’Inter…».

E sotto l’aspetto mediatico?

«L’ingresso della Juventus ha cambiato il paradigma. Ora si parla di calcio femminile nel modo giusto».

In concreto?

«Si parla di atlete, non ci si concentra più solo sul loro corpo. E si parla di prestazioni, di calcio. Stanno passando messaggi giusti».

Quando il capitano della Nazionale e della Juventus, Sara Gama, ha ispirato una Barbie cosa ha pensato?

«Che finalmente una bambina o una ragazza può sognare di diventare una calciatrice e di essere riconosciuta come tale, come un modello e un riferimento».

Qualche stigma però rimane; cosa risponde a chi sostiene che il calcio femminile sia un altro sport rispetto al calcio maschile?

«Sono totalmente in disaccordo. Il calcio è uno, ciò che cambia è il modo in interpretarlo. Le faccio un esempio: il modo di interpretare il calcio di Dybala è lo stesso, per dire, di Koulibaly? No, chiaramente, ed è un discorso che vale anche per le differenze tra calcio maschile e femminile».

Altro cambiamento, il più recente: il calcio femminile è passato sotto l’egida della Figc, non più della Lnd.

«Andando verso una sempre maggiore presenza di club professionistici, è la scelta più corretta e saggia. Ora serve proseguire così: indietro non si può tornare».

Tuttavia le donne continuano a non poter essere professioniste dello sport, almeno de iure.

«La legge 91/81 relega allo status dilettantistico, e toccherà prima o poi a Governo e Parlamento metterci mano. Per quanto di competenza del movimento, si possono fare altri passi».

Come si riduce il gap con nazioni tipo Francia e Germania, in termini di tesseramenti?

«È un bene che le squadre possano essere miste e le ragazze possano giocare con i maschi sino ai 15 anni, ma serve incentivare i settori giovanili femminili di quartiere o di paese, perché spesso è la questione logistica a rendere difficoltosa la scelta, e renderli accoglienti e stimolanti. Poi giocare a calcio nelle scuole, senza competizione, in maniera giocosa. Infine proseguire con messaggi mediatici positivi attraverso giocatrici e allenatrici».

Può il calcio essere il tramite di un cambiamento culturale sulla figura femminile?

«A livello educativo senz’altro: i bambini che giocano a calcio con le bambine saranno domani uomini che le considereranno in maniera diversa, non come persone che non possono tentare di affermarsi in certi ambiti».

Tornando all’agonismo: la Juventus ha vinto lo scudetto al primo colpo dopo lo spareggio col Brescia.

«Il campionato ha definito da subito le due squadre che si sarebbero giocate il titolo e si sarebbero qualificate per la Champions. Avrebbero meritato entrambe. La lotta per la salvezza è stata molto competitiva. E credo che il format di 12 squadre in A e 12 in B sia quello più adatto per alzare il livello medio della competizione».

Quali giocatrici hanno mostrato i miglioramenti più evidenti in questa stagione?

«Barbara Bonansea, capocannoniere con la Juventus, poi Cristiana Girelli e Cecilia Salvai, giovane che sta crescendo molto in termini di personalità. Sara Gama è una conferma, poi voglio citare Valentina Bergamaschi per umiltà e prospettive, Martina Rosucci per gli ultimi mesi della stagione ed Elisa Bartoli, una ragazza che in Nazionale gioca sempre al 120%. Un esempio per tutte».

Stadio Olimpico. Papa Francesco regala ai poveri una serata di sport

Poveri, senzatetto e migranti sono tra gli invitati del Papa allo Stadio Olimpico di Roma dove avrà nel pomeriggio di giovedì 31 maggio il Golden Gala di atletica leggera: un’occasione di svago

da Avvenire

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

L’Elemosineria Apostolica, a nome del Papa, ha invitato i poveri, i senzatetto, i profughi, i migranti e le persone più bisognose allo Stadio Olimpico di Roma per partecipare, nel pomeriggio di giovedì 31 maggio, al Golden Gala, l’importante manifestazione internazionale di atletica leggera.

L’iniziativa è stata possibile grazie alla Federazione italiana di atletica leggera che ha riservato i posti gratuiti per le persone invitate da papa Francesco che saranno accompagnati dai volontari della Comunità di Sant’Egidio, della Cooperativa Auxilium e dell’Athletica Vaticana, rappresentativa podistica dei dipendenti della Santa Sede. L’obiettivo, si legge in una nota, è “offrire una serata di festa e di amicizia, attraverso la bellezza di uno sportuniversale e semplice come l’atletica e di rilanciare i valori dell’accoglienza e della solidarietà”.

Più volte Francesco ha ricordato che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una
parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago e di sano divertimento. Nel settore “Curva Sud” dello Stadio Olimpico, gli
invitati del Papa avranno anche una “cena al sacco”.

Un Dio che si fa vicino per non allontanarsi mai più. Santissima Trinità Anno B

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Ci sono andati tutti all’ultimo appuntamento sul monte di Galilea. Sono andati tutti, anche quelli che dubitavano ancora, portando i frammenti d’oro della loro fede dentro vasi d’argilla: sono una comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, l’abbandono, la sorte tragica di Giuda; una comunità che crede e che dubita: «quando lo videro si prostrarono. Essi però dubitarono».
E ci riconosciamo tutti in questa fede vulnerabile. Ed ecco che, invece di risentirsi o di chiudersi nella delusione, «Gesù si avvicinò e disse loro…». Neppure il dubbio è in grado di fermarlo. Ancora non è stanco di tenerezza, di avvicinarsi, di farsi incontro, occhi negli occhi, respiro su respiro. È il nostro Dio “in uscita”, pellegrino eterno in cerca del santuario che sono le sue creature. Che fino all’ultimo non molla i suoi e la sua pedagogia vincente è “stare con”, la dolcezza del farsi vicino, e non allontanarsi mai più: «ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Il primo dovere di chi ama è di essere insieme con l’amato.
«E disse loro: andate in tutto il mondo e annunciate».
Affida ai dubitanti il Vangelo, la bella notizia, la parola di felicità, per farla dilagare in ogni paesaggio del mondo come fresca acqua chiara, in ruscelli splendenti di riverberi di luce, a dissetare ogni filo d’erba, a portare vita a ogni vita che langue. Andate, immergetevi in questo fiume, raggiungete tutti e gioite della diversità delle creature di Dio, «battezzando», immergendo ogni vita nell’oceano di Dio, e sia sommersa, e sia intrisa e sia sollevata dalla sua onda mite e possente! Accompagnate ogni vita all’incontro con la vita di Dio. Fatelo «nel nome del Padre»: cuore che pulsa nel cuore del mondo; «nel nome del Figlio»: nella fragilità del Figlio di Maria morto nella carne; «nel nome dello Spirito»: del vento santo che porta pollini di primavera e «non lascia dormire la polvere» (D.M. Turoldo).
Ed ecco che la vita di Dio non è più estranea né alla fragilità della carne, né alla sua forza; non è estranea né al dolore né alla felicità dell’uomo, ma diventa storia nostra, racconto di fragilità e di forza affidato non alle migliori intelligenze del tempo ma a undici pescatori illetterati che dubitano ancora, che si sentono «piccoli ma invasi e abbracciati dal mistero» (A. Casati). Piccoli ma abbracciati come bambini, abbracciati dentro un respiro, un soffio, un vento in cui naviga l’intero creato.
«E io sarò con voi tutti i giorni». Sarò con voi senza condizioni. Nei giorni della fede e in quelli del dubbio; sarò con voi fino alla fine del tempo, senza vincoli né clausole, come seme che cresce, come inizio di guarigione.
(Letture: Deuteronomio 4,32-34.39-40; Salmo 32; Romani 8,14-17; Matteo 28,16-20)

di Ermes Ronchi – Avvenire

I divieti disattesi. «Consentito» ai minori, le colpe degli adulti

da Avvenire

È vero, ai minorenni è vietato fumare ma non più di quanto sia vietato agli adulti: la sigaretta non la possono accendere nei bar e nei ristoranti, a scuola, negli altri luoghi pubblici. Ma se sono per strada o al parco, in spiaggia o in camera loro, se vogliono – e c’è chi lascia fare – possono fumare senza incorrere in sanzione alcuna. Lo stesso vale per il bere: la legge, a parte ordinanze comunali più uniche che rare che prevedono multe anche per i ragazzi, proibisce e punisce la vendita e la somministrazione ai minorenni delle bevande alcoliche, ma non il loro consumo da parte dei minorenni stessi a casa, ai giardinetti, in piazza (salvo regole che, però, hanno più a cuore il decoro urbano che il fegato dei quindicenni).

Del resto, sarebbe difficile pretendere da un adolescente colto con la sigaretta in bocca o la birra in mano il pagamento di una multa: rivalersi sui genitori? Potrebbe essere una strada da percorrere, lo scorso anno la propose Ascom, dopo il caso di una ragazza finita in coma etilico a Seriate, città della provincia bergamasca, ma non se n’è fatto nulla: avrebbe il merito di aprire gli occhi ai genitori ignari, la capacità di responsabilizzare i superficiali, la forza di colpire i veri e propri complici (quelli che “una birra non ha mai fatto male a nessuno”, che condividono i pacchetti di sigarette con i figli sedicenni). La connivenza degli adulti è quasi sempre frutto dell’inconsapevolezza: capita troppo spesso di vedere, al bar, la nonna che allunga al nipotino il tagliando della lotteria da grattare.

Sta violando la legge? Di sicuro quella del buon senso. Ma se entrasse un vigile, probabilmente sarebbe il tabaccaio a finire nei pasticci, perché è a lui che la legge impone di vigilare che nel suo locale nessun minorenne si dedichi all’azzardo. Per tabaccai e baristi che spacciano alcol e fumo ai minorenni – o che li fanno avvicinare alle slot machine, che vendono loro Gratta&Vinci – le multe sono (giustamente) salate, ai recidivi viene sospesa la licenza: la legge vuole che chiedano la carta d’identità all’avventore che suscita qualche dubbio, cosa che dovrebbe capitare di continuo considerato il grado di maturità – solo fisica, per i più – di tante e tanti sedicenni. Succede? Non sempre e non ovunque: altrimenti non si spiegherebbero i dati che forniscono numeri preoccupanti sull’azzardopatia in continua crescita tra i minori o sul consumo di alcol e sul grado di dipendenza dal fumo di chi di anni è ben lontano dal compierne diciotto. Hanno tutti amici diciottenni che si prestano all’acquisto? O, piuttosto, sono circondati da adulti che si girano dall’altra parte per trascuratezza, con faciloneria?

Strumento importante ma snaturato. Il tirocinio dei giovani, ponte da raddrizzare

(Ansa)

(Ansa)

Quello tra i giovani e il lavoro è diventato, negli ultimi anni, un rapporto sempre più problematico. Non solo per il tasso di disoccupazione che, seppur in calo, resta sopra il 30%, collocando l’Italia negli ultimi posti in Europa. E neppure per la crescente difficoltà di allineare domanda e offerta di lavoro con le imprese, le quali paiono cercare decine di migliaia di profili professionali che i giovani non sembrerebbero in grado di ricoprire. Infatti, anche quando un giovane riesce, con non poca fatica, a entrare in contatto con un’impresa, la situazione non è semplice. Questa constatazione emerge analizzando i dati, da tempo attesi, sui tirocini in Italia, recentemente diffusi dall’Anpal, che analizzano i percorsi di stage attivati al termine di un percorso scolastico o universitario. Il tirocinio sembra essere diventato ormai la modalità normale di accesso al mercato del lavoro da parte soprattutto degli under 30. I numeri parlano chiaro: tra il 2012 e il 2016, l’aumento è stato dell’80%, passando da 185mila tirocini attivati a oltre 300mila, e le previsioni per il 2017 sembrano indicare un’ulteriore crescita. Nello stesso arco di tempo, la durata media è passata da 4,2 a 5,5 mesi, dirigendosi verso una durata ormai standard di 6 mesi per ciascun tirocinio. Ma ciò non significa che un giovane si troverà assunto alla fine di questo semestre, questo accade in media per un tirocinante su tre, percentuale che aumenta con il passare del tempo, ma che non supera mai, neanche dopo un ulteriore semestre, il 40%. È bene ricordare che il tirocinio non è un rapporto di lavoro, come spesso si tende a credere, e in quanto tale non prevede tutte le tutele previste dai contratti, prima tra le quali il pagamento dei contributi previdenziali. Un giovane tirocinante, quindi, si troverà per un periodo di 6 mesi, che dopo le linee guida approvate recentemente diventeranno 12 in molte Regioni, con una retribuzione che si aggira in media intorno alle metà di quella di un suo coetaneo con un vero contratto e senza che questo periodo sia computato nel calcolo dei contributi. Queste criticità sarebbero invero sostenibili, in un mercato del lavoro in forte cambiamento e che richiede competenze che spesso le scuole faticano a formare, se il tirocinio fosse davvero un periodo formativo. Un giovane si troverebbe quindi a rinunciare ad alcune tutele e a una retribuzione piena in cambio di una formazione per lui molto preziosa, che giustificherebbe il suo investimento. Purtroppo sappiamo che molto spesso non è così. E non ce lo insegna solo l’esperienza di Garanzia Giovani, le cui offerte di tirocinio spesso rappresentano veri illeciti e hanno come oggetto attività che di formativo hanno ben poco. Non solo i dati sulle assunzioni post-tirocinio sono troppo bassi, prova che molte realtà occupano posizioni utilizzando unicamente il tirocinio. Ma soprattutto emerge il fatto che molti dei settori in cui i tirocini sono più che raddoppiati (se non triplicati) negli ultimi anni – commercio, ristorazione, edilizia – spesso offrono tirocini per attività che di formativo hanno ben poco e che fino a pochi anni fa erano svolte con normali contratti che includevano periodi di prova. Stentano per contro a decollare i percorsi di alternanza e con essi i tirocini curriculari, progettati e sviluppati dentro l’offerta formativa di scuole e università come fattore di forte innovazione della didattica e delle modalità di apprendimento.

Tutto questo potrebbe portare a demonizzare lo strumento, ma sarebbe un errore. Perché ciò che va criticato e denunciato è lo snaturamento di quello che è stato pensato dal legislatore come un importante e moderno metodo formativo e pedagogico, e non certo come un contratto di inserimento al lavoro per il quale esistono diverse risposte da parte dell’ordinamento giuridico e del sistema di relazioni industriali. E per rimettere il tirocinio al suo posto, basterebbe ripartire dal lavoro e dai giovani stessi, considerandoli nel capitolo degli investimenti, e non solo in quello dei costi.

Avvenire