SCUOLA: I CREDITI FORMATIVI ARRIVANO ANCHE IN DISCOTECA

PROGETTO A SANTA MARGHERITA CONTRO I RISCHI DELL’ALCOL Gli studenti del Tigullio potranno maturare i crediti formativi in discoteca spiegando ai coetanei i rischi legati ad alcol e sballo. È il progetto cui stanno lavorando Asl Chiavarese, Comune di Santa Margherita e la discoteca Covo di Nord Est, all’interno della campagna “W la moVIDA”. I ragazzi riceveranno la formazione dalla Asl e trasmetteranno i corretti comportamenti ai coetanei. Il progetto riguarda i ragazzi del triennio delle superiori e rientra nell’alternanza scuola-lavoro. (ANSA).

Meghan Markle è arrivata nella cappella di St. George per il matrimonio con il principe Harry al castello di Windsor

Harry e Meghan all'altare © Ansa

Meghan Markle è arrivata nella cappella di St. George per il matrimonio con il principe Harry al castello di Windsor. Ad attenderla in chiesa, il principe Carlo – erede al trono britannico e padre dello sposo – chiamato ad accompagnarla all’altare in sostituzione di papà Markle, Thomas, il quale ha dato forfait all’ultimo momento per problemi di salute legati ad un attacco cardiaco annunciato subito dopo il coinvolgimento in uno scandalo di presunte foto vendute a un tabloid.

L’arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, presiederà il rito religioso, affiancato dal presule afroamericano Michael Curry, titolare della diocesi di Chicago della Chiesa episcopale, emanazione Usa dell’anglicanesimo, invitato per scelta degli sposi a tenere un sermone.

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Paolo VI e Romero santi in Vaticano il 14 ottobre

Papa Paolo VI in un'immagine d'archivio © ANSA

Papa Paolo VI e mons. Oscar Arnulfo Romero saranno canonizzati in Piazza San Pietro il prossimo 14 ottobre, nel corso del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Lo ha comunicato papa Francesco durante il Concistoro ordinario pubblico per alcune cause di canonizzazione, svoltosi oggi in Vaticano. Gli altri santi che verranno proclamati il 14 ottobre dal Papa sono i sacerdoti italiani Francesco Spinelli e Vincenzo Romano e le suore Maria Caterina Kasper, tedesca, e Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù, spagnola.

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Gerusalemme sia luogo di pace e non di divisione

Gerusalemme

Per tutti gli uomini, Gerusalemme dovrebbe essere “una città aperta e rappresentare il luogo della comunione e della pace, e non della discordia e della divisione”. E’ quanto scrive Civiltà Cattolica in un articolo a firma di padre Giovanni Sale dal titolo “Gerusalemme, città sacra e città aperta”. L’articolo sottolinea che la decisione del Presidente Donald Trump di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme ha “una grande rilevanza politica, in quanto si oppone all’indirizzo finora seguito su questa delicata materia dalla gran parte della comunità internazionale”.

Futuro status Gerusalemme ha ripercussioni internazionali

La rivista dei gesuiti evidenzia quindi che le vicende degli ultimi decenni dimostrano come “il problema della Città Santa e quello riguardante la soluzione del conflitto israelo-palestinese siano strettamente legati e interdipendenti e questo fatto non può essere ignorato, né tantomeno sottovalutato”. Padre Sale ripercorre tutti i più significativi snodi nella storia tormentata della città di Gerusalemme dal Secondo Dopoguerra ad oggi, annotando che “a motivo dell’importanza che Gerusalemme ha per le tre grandi confessioni religiose, quello che avviene in questa città ha ripercussioni internazionali”.

Per pace in Medio Oriente, serve soluzione su Gerusalemme

In ogni caso, prosegue l’articolo, “il conflitto israeliano non sarà mai risolto fino a quando non si troverà una soluzione condivisa su Gerusalemme”. Dagli Accordi di Oslo al Vertice di Camp David, ammonisce padre Sale, la “storia recente insegna che non è possibile raggiungere un accordo di pace tra i due popoli senza prima definire lo status della Città santa”.

vaticannews

Sinodalità: dimensione costitutiva della Chiesa. La voce dei teologi

Una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile

“Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”: con questa affermazione che esprime l’impegno programmatico proposto da Papa Francescoil 17 ottobre 2015 – nel 50.esimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi da parte di Paolo VI – si apre l’Introduzione al documento: “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa” pubblicato lo scorso 3 maggio. Il testo, 41 pagine, preparato dalla Commissione teologica internazionale e approvato da Francesco, intende offrire un contributo all’approfondimento teologico del significato della sinodalità, alcuni orientamenti pastorali in riferimento alla sua attuazione concreta ai vari livelli, e sui riflessi nel cammino ecumenico e nel servizio della Chiesa al mondo.

Sinodalità, sfida prioritaria per la Chiesa

La sinodalità “è dimensione costitutiva della Chiesa”, aveva sottolineato ancora in quell’occasione il Papa.  Per Francesco la sinodalità esprime infatti la figura di Chiesa che scaturisce dal Vangelo di Gesù e che è chiamata a incarnarsi oggi nella storia, in fedeltà creativa alla Tradizione.
Il termine ‘sinodalità’ significa ‘camminare insieme’ e indica il cammino del popolo di Dio, ma anche il suo radunarsi in assemblea in ascolto reciproco e dello Spirito Santo o intorno all’Eucaristia. E’ una parola antica che ha origini greche e latine e che nel corso della storia della Chiesa ha avuto maggiore e minore rilevanza. Una forte esperienza di sinodalità fu, per la prime comunità cristiane il Concilio di Gerusalemme intorno al 48-49 d.C.

Una dimensione al cuore del Vaticano II

“Benché il termine e il concetto di sinodalità non si ritrovino esplicitamente nell’insegnamento del Concilio Vaticano II  – si legge ancora nell’Introduzione al documento – si può affermare che l’istanza della sinodalità è al cuore dell’opera di rinnovamento da esso promossa”. Il Concilio sottolinea infatti la comune dignità di tutti i battezzati, coinvolti ciascuno con il proprio dono, carisma, vocazione e servizio, nella vita e nella missione della Chiesa.
Ma se il Vaticano II ha fatto molto per promuovere la comunione ecclesiale, molti restano ancora i passi da compiere in questa direzione. “Oggi, anzi, la spinta a realizzare una pertinente figura sinodale di Chiesa, – si legge nel documento della Commissione – benché sia ampiamente condivisa e abbia sperimentato positive forme di attuazione, appare bisognosa di principi teologici chiari e di orientamenti pastorali incisivi”. E’ ciò che il documento intende fare.

Alcune parole che percorrono il documento

Discernimento comunitario, Chiesa come ‘casa e scuola della comunione’, ecclesiologia e spiritualità di comunione, dialogo e ascolto, cultura dell’incontro. Sono tutte espressioni che dicono uno stile ecclesiale a cui Papa Francesco ritorna spesso nei suoi discorsi e che disegnano un volto preciso della Chiesa.
L’assunzione di una corretta pratica sinodale è per mons. Piero Coda, membro della Commissione teologica internazionale e tra coloro che ha lavorato al testo, una sfida prioritaria per la Chiesa oggi in fedeltà creativa al magistero del Vaticano II, perché la sinodalità esprime e attualizza la natura e la missione più autentiche della Chiesa nella storia.

Sinodalità nel dialogo ecumenico e con il mondo

Mons. Coda  sottolinea inoltre ai nostri microfoni, l’importanza del tema per il cammino ecumenico e nel contesto delle società del nostro tempo che sempre più richiedono una cultura dell’incontro e della cooperazione. Nella difficile realizzazione di tutto questo il processo verso una più matura sinodalità ecclesiale assume, quindi, anche un significato di servizio all’umanità verso la giustizia e la solidarietà sociale.

Mons. Piero Coda, la sinodalità è un’esperienza che è stata vissuta fin dalle origini della Chiesa. Perché allora oggi questo documento sulla sinodalità?

R. – Si rendeva oggi opportuno, direi financo necessario, un documento sulla sinodalità perché Papa Francesco, riprendendo lo slancio di rinnovamento iniziato dal Vaticano II e portato avanti dai suoi predecessori ha sottolineato che ciò che Dio chiede alla Chiesa nel terzo millennio è appunto riassunto nella parola “sinodo”. Allora, era opportuno che la commissione teologica internazionale approfondisse questo concetto e ne sviscerasse il significato.

Dare dignità ai laici, al popolo di Dio, è stata una delle grandi sollecitazioni del Vaticano II. Ma ora si tratta, mi pare, di andare oltre, di sperimentare nuovi modi di discernimento e di decisionalità. E’ così?

R. – La questione fondamentale che il processo sinodale mette in atto nella vita della Chiesa è proprio questa: coinvolgere tutte le componenti del popolo di Dio, sotto l’autorità di coloro che lo Spirito Santo prepone come pastori della Chiesa, in modo tale che tutti possano sentirsi corresponsabili nella vita e nella missione della Chiesa. Il passo in avanti, la soglia di novità che il tema della sinodalità invita a compiere è proprio questo: mettere a servizio gli uni degli altri i rispettivi doni e carismi di cui tutti siamo investiti. Evidentemente i pastori nel loro modo; coloro che esercitano un carisma particolare in un altro; i laici, che sono esperti nelle varie dimensioni della vita civile, culturale e sociale, nel loro specifico modo; e direi, in modo anche particolare, dare spazio al carisma delle donne, alla loro capacità di leggere i segni dei tempi e di generare strade nuove per portare il Vangelo a tutti.

Le cito alcune parole contenute nel documento che sentiamo sempre più spesso da Papa Francesco: discernimento comunitario, ecclesiologia e spiritualità di comunione, dialogo e ascolto, cultura dell’incontro. Che cosa ci dicono queste parole, che volto di Chiesa descrivono?

R. – Tutte queste parole in fondo descrivono un volto di Chiesa e della sua presenza nella vita sociale del nostro tempo sotto il segno della fraternità. Questo significa all’interno della Chiesa passare da una concezione tendenzialmente clericale e gerarcocentrica a una visione più comunionale, in cui i rispettivi ministeri non solo non vengono depotenziati ma, proprio in una logica di reciprocità di relazionalità, vengono messi al loro giusto posto. E nella presenza della vita della Chiesa nel mondo ciò significa immettere il sale, il lievito del dialogo, dell’incontro per costruire quella che anche Papa Francesco ha chiamato non un’alleanza semplicemente tra le civiltà, che già è un gran cosa ed è estremamente difficile, ma per realizzare una “civiltà dell’alleanza”.
Una civiltà cioè in cui il principio della reciprocità dello scambio dei doni, del rispetto delle diversità, della convergenza nel camminare insieme, sia il timbro di una epoca nuova e feconda della storia umana.

Una maggiore sinodalità può portare anche passi nuovi in ambito ecumenico?

R. – Assolutamente sì, il tema della sinodalità negli ultimi decenni è stata al centro del dialogo ecumenico. Penso in modo particolare al dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa e anche tra la Chiesa cattolica e le Chiese nate dalla riforma:  il Consiglio ecumenico delle Chiese ha messo al centro del cammino questo tema.

Come fare perché la sinodalità cresca nella Chiesa?

R. – Occorre, come ci invita sempre Papa Francesco, una conversione, occorre cioè per tutti acquisire e interiorizzare i principi di una spiritualità non individuale ma comunitaria, occorre imparare ad ascoltarci, a discernere comunitariamente il significato di una situazione. Ma occorre anche una conversione pastorale il che vuol dire che siano approntate, vissute con serietà e responsabilità quelle strutture, quegli eventi di comunione e di sinodalità che per il vero sono già in gran parte previsti anche alla luce del Vaticano II: i vari consigli, le varie assemblee. E’ un salto di maturità nella vita della Chiesa che interpella ciascuno.

vaticannews

Il progetto. La pace corre sulla slitta

Armen Khatchikian con i suoi Siberian Husky

Armen Khatchikian con i suoi Siberian Husky

Nel centenario della Grande Guerra gli “eredi” dei cani da slitta arruolati con la Quinta divisione alpina schierata sul fronte Ortles-Cevedale Adamello vogliono diventare ambasciatori di pace. I discendenti di quegli straordinari esemplari, capaci di trainare ad oltre tremila metri di quota carichi pesantissimi di armi, munizioni e rifornimenti, saranno i protagonisti di uno straordinario tour della pace tra Italia, Paesi nordici, Stati Uniti e Giappone Il progetto – a cavallo tra difesa ambientale, sport, divulgazione storica e impegno sociale – sta prendendo forma proprio ai piedi dell’Adamello, versante lombardo, dove da oltre 30 anni Armen Khatchikian, italiano d’origine armena, ha messo in piedi la prima scuola italiana di sleddog. Grande sportivo – tra i primi italiani a correre sui 1.800 chilometri della mitica Iditarod in Alaska, la più importante gara mondiale di cani da slitta –, innamorato della montagna e dei suoi cani, Armen è però soprattutto un uomo di pace. La storia della sua famiglia lo ha vaccinato per sempre contro il virus dell’intolleranza e dell’odio. I nonni conobbero gli orrori del genocidio armeno ma differenza del milione e mezzo di connazionali caduto per la follia omicida dell’impero ottomano, riuscirono a sfuggire allo sterminio sistematico, raggiungendo il Medio Oriente, l’Egitto e poi il Sudan, dove Armen è nato nel 1956, dopo il matrimonio del padre con una donna italiana. Qualche anno dopo il trasferimento a Gorizia, gli studi, i primi contatti con il mondo del grande Nord, delle avventure sul ghiaccio, delle imprese estreme.

Alle radici di una passione sorprendente per un armeno nato in Africa, un innamoramento giovanile per la figura di Jack London e per le atmosfere del suo romanzo più noto, Zanna Bianca. A 27 anni, in compagnia di un amico, scende in canoa lungo il fiume Yukon, lo stesso solcato all’inizio del ’900 da London su una zattera di legno, 3.200 chilometri dal Canada all’Alaska. Quel viaggio gli permette di conoscere i segreti delle grandi distese ghiacciate e, soprattutto, l’arte di addestrare i cani da slitta, di comprendere il loro spirito di abnegazione e di sacrificio, di intuire quando quella generosità va incoraggiata e quando moderata, quando negli occhi di questi eccezionali animali si accede quella fiammella ideale che suggella con il proprietario-conduttore l’inizio di un patto per la vita: fiducia reciproca, totale e per sempre. Il sogno di stabilire un collegamento tra i cani della Grande Guerra e i discendenti di oggi è nato fin da quando Armen ha realizzato sul Tonale la sua scuola di sleddog – era il 1985 – portando direttamente dall’Alaska i primi 37 esemplari di Husky. Un’esperienza che continua anche oggi, sia sul versante sportivo sia su quello del tempo libero, con centinaia di famiglie e di bambini che ogni anno si avvicinano a questa attività affascinante, natura, neve, ambiente, benessere. E naturalmente sempre Alaskan Husky, questi cani instancabili, dolcissimi e tenaci. Difficile invece stabili- re a quale razza appartenessero i “quattro zampe” con le stellette che per quasi un anno, tra il 1917 e il 1918, furono utilizzati su sentieri inaccessibili perfino ai muli. Ma che fosse possibile avventurarsi fino ai 3.554 metri dell’Adamello con una slitta trainata dai cani, il fondatore della scuola italiana di sleddog l’ha dimostrato in prima persona, salendo in vetta nel 1986 con una muta di quattro cani veterani dell’Iditarod.

Animali ben addestrati quindi, proprio come quelli scelti cent’anni fa dal maggiore Carlo Mazzoli. Grossi cani da pastore – l’ufficiale ne metterà insieme circa 250 – che dopo una periodo di prova e di selezione al canile militare di Bologna, vengono spediti in alta quota per condividere con gli alpini del battaglione ‘Val d’Orco’ gli ultimi, durissimi mesi di guerra. Sono gli alpini “cagnari” – oggi diremmo cinofili – addetti al trasporto di armi e vettovaglie lungo i più impervi percorsi innevati. Di quelle giornate di eroismo e di paura non rimane che qualche foto sbiadita. L’epopea degli “alpini cagnari” durò pochi mesi. Poi, alla fine del conflitto, il reparto venne sciolto e furono decine gli alpini che, non volendo separarsi dai cani che avevano loro offerto sostegno e fedeltà durante la guerra, ottennero di tornare a casa con un “compagno” al guinzaglio. Durante una delle sue ricognizioni sull’Adamello, Armen ha anche recuperato i resti di una delle rudimentali slitte utilizzate dagli alpini durante la Grande Guerra. Ora, a distanza di un secolo dal primo conflitto mondiale, l’obiettivo è quello di trasformare i cani da slitta in ambasciatori di pace. Si partirà proprio dal massiccio a ca- vallo tra le province di Brescia e di Trento e quindi si raggiungeranno, con modalità ancora da definire, le località che nel mondo hanno dedicato un monumento ai cani da slitta. Prima tappa Venezia, dove nei giardinetti di piazzale Roma, a due passi dalla stazione ferroviaria, c’è la statua dell’esploratore Francesco Querini, disperso nel 1900 durante la spedizione al Polo Nord del Duca degli Abruzzi. L’ufficiale di Marina è ritratto con i cani che lo accompagnarono durante l’ultima, fatale corsa senza ritorno sui ghiacci dell’Artico.

Altri monumenti ad altrettanti eroi di spedizioni polari – tutti con i fedeli quattrozampe al seguito – si trovano in Danimarca, Norvegia, Svezia. E poi, naturalmente, ad Anchorage, in Alaska, e a Sapporo, in Giappone. Due le statue a New York, entrambe in memoria di un episodio risalente al 1925, quando in Alaska una staffetta di 150 cani e 12 “ musher” (i conducenti delle slitte) riuscì a percorrere in 5 giorni, con temperature medie di 40 sottozero, i 1.200 chilometri che separano la capitale Anchorage da Nome. Obiettivo quello di trasportare le antitossine necessarie a combattere un’epidemia di difterite che si era diffusa nella cittadina al Nord dell’Alaska. Dall’impresa, che ebbe successo, nel 1995 è stato ricavato il film di animazione Balto. E proprio a Balto, “mezzo lupo e mezzo Husky” è dedicata una statua a Central Park. Mentre un altro cane protagonista di quell’epopea, Togo, è immortalato nel bronzo a Seward Park. Ma di lui, a cui nessun cartone animato è stato mai dedicato, non si sa quasi nulla.

avvenire

Oltre le barriere. Le parrocchie «per tutti» abbracciano la disabilità

Una donna cieca legge una preghiera in Braille durante la Messa (Fotogramma)

Una donna cieca legge una preghiera in Braille durante la Messa (Fotogramma)

Includere è la parola d’ordine. Ed è il compito a cui è chiamata l’intera comunità, soprattutto quando la Chiesa si confronta con la periferia esistenziale della disabilità. «La disabilità provoca. Non possiamo nascondercelo. Eppure, come dice papa Francesco, o la Chiesa è casa per tutti o non è Chiesa», spiega suor Veronica Amata Donatello, responsabile del Settore per la catechesi delle persone disabili dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei. Una sfida al centro del seminario nazionale dedicato a questo ambito che si è svolto nei giorni scorsi ad Assisi.

A fare da filo conduttore l’Iniziazione cristiana che necessita di un “percorso inclusivo”, come evidenziava il titolo dell’appuntamento. «A che cosa serve un cammino di Iniziazione cristiana se non è per tutti? – sottolinea la religiosa della Congregazione delle Suore Francescane Alcantarine –. C’è bisogno di comunità che si lascino trasformare da Dio per diventare grembo fecondo che mentre genera è rigenerato, come Sara matriarca della Scrittura. Del resto non può esistere una catechesi che non sia messa in atto da una comunità che nei suoi modi di dire e di fare sia inclusiva, in cui ciascuno è protagonista e i doni di ognuno sono valorizzati e messi a servizio di tutti».

Il primo passo, però, è abbattere i pregiudizi che anche in una parrocchia possono incunearsi, magari portati dal pensiero dominante dell’“uomo perfetto”. «Si tratta di un’impostazione che, affidandoci alle parole del Papa, genera la cultura dello scarto – afferma suor Donatello –. Invece dobbiamo alimentare la cultura della vita. E la nascita di un nuovo umanesimo non può che contemplare l’incontro con la diversità e con i limiti».

L’evento in terra umbra è stato aperto da una lectio del teologo e frate minore francescano padre Giulio Michelini che ha posto l’accento sulla «scelta di Dio che è da sempre inclusiva». «Però questa intuizione si è un po’ smarrita nel corso del tempo – commenta la religiosa –. Al contrario il Padre abbraccia chiunque e si affida a una pluralità di linguaggi. Anche papa Francesco ce lo ricorda quando nella sua ultima Esortazione apostolica, Gaudete et exsultate, rimarca che la santità è per tutti». Allora, se le vie del Signore sono infinite, possono passare anche dai sensi che aiutano a iniziare alla fede, come ha spiegato il biblista e poeta José Tolentino Mendonça.

«I sensi – osserva la consacrata – sono il portale d’ingresso di un viaggio interiore che coinvolge tutto l’uomo. L’olfatto, il gusto, l’udito, il tatto, la vista sono linguaggi della fede, variazioni infinite sul tema del corpo come lingua materna di Dio che la Bibbia attesta. Diceva sant’Agostino che ognuno ha una porta per cui Cristo entra: nelle persone disabili, dove un senso viene meno, i sensi vicarianti diventano porte dell’incontro con Dio. Ecco perché i cinque sensi e il corpo possono essere un terreno pastorale inclusivo».

Una prospettiva che ad Assisi è stata espressa anche negli atelier sensoriali e nella mostra “O tutti o nessuno!” con alcuni stru- menti pastorali realizzati da diocesi, associazioni e aggregazioni laicali. Le buone prassi sono già una realtà nella Chiesa italiana. «In numerose parrocchie – racconta suor Donatello – grazie a parroci e catechisti si sta lavorando sul pregiudizio. E al termine del cammino alcuni ragazzi con disabilità diventano catechisti. Oppure accade che catechisti sordi diano vita a un coro che con la lingua dei segni anima la liturgia o che catechisti ciechi leggano durante la Messa. Il compito della comunità è, quindi, permettere a ogni suo figlio di essere protagonista».

Ad Assisi la tavola rotonda ha visto coinvolti i diversi uffici pastorali perché «la generatività e l’inclusione delle persone disabili non sono un “problema” di settore», afferma la religiosa che ha i genitori sordi e una sorella disabile intellettiva ed è interprete della lingua dei segni. Quindi prosegue: «Insieme si è desiderato porre in essere un processo trasformativo che inizi sempre più ad avere nella normalità comunità che siano antidoto alla cultura odierna dell’individualismo, del “mio gruppo”, della catechesi speciale o solo sacramentale. Dobbiamo considerare l’esperienza di fede della persona disabile capace di costruire la Chiesa, così come lo è l’esperienza di fede di una persona normodotata».

E suor Donatello suggerisce di passare dalla frase I care (Mi interessa) a We care (Ci interessa). «Ciò vuol dire – conclude – essere comunità che sanno dare la possibilità a tutti di trovare il proprio spazio e di avere una piena dignità ecclesiale».

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