Uova ‘assolte’, non fanno male per chi ha il diabete

Mangiare molte uova non aumenta colesterolo, zuccheri nel sangue o pressione, in persone con diabete. A ‘scagionare’ un alimento spesso sconsigliato per questi pazienti è una nuova ricerca sull’American Journal of Clinical Nutrition.
I ricercatori del Charles Perkins Centre, centro affiliato all’Università di Sydney, hanno diviso i 128 partecipanti con diabete o pre-diabete in due gruppi, uno con dieta ad alto consumo di uova (12 a settimana) e l’altro a basso consumo (meno di 2 a settimana). Li hanno seguiti per un totale di 12 mesi, inclusi 3 mesi di dieta durante i quali però non variava il consumo di uova. Lo studio randomizzato ha monitorato un’ampia gamma di fattori di rischio cardiovascolari tra cui colesterolo ‘cattivo’, glicemia e pressione, senza trovare differenze significative tra i due gruppi. Inoltre i diversi consumi di uova non avevano alcun impatto sul peso. “La nostra ricerca indica che anche le persone con pre-diabete e diabete di tipo 2 non devono rinunciare a mangiare le uova, se questo fa parte di una dieta sana”, spiega il primo autore, Nick Fuller. I risultati confermano precedenti studi di minore durata, aggiunge, e “sono importanti per via dei potenziali benefici di questo alimento, fonte di proteine e micronutrienti che fanno bene a occhi, cuore e vasi sanguigni”. “Lo studio è particolarmente interessante per popolazioni nordeuropee abituate a un ampio consumo di uova a colazione”, chiarisce Maria Ida Maiorino, ricercatore presso la UOC di Endocrinologia dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. “I risultati sembrano in apparente disaccordo con studi epidemiologici che mostrano una associazione lineare fra il rischio di malattie cardiovascolari ed il consumo di uova nei pazienti con diabete tipo 2”. Da sottolineare, però, prosegue l’esperta della Società Italiana di Diabetologia (Sid), “che ai pazienti inclusi nello studio veniva consigliato di consumare le uova bollite o in camicia, o anche fritte purché in olio extra-vergine di oliva. Strategie che di sicuro rendevano il regime alimentare più salutare”.

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Calcio. Mancini e Velasco, a volte ritornano

Roberto Mancini (Ansa)

Roberto Mancini (Ansa)

Si parte per vedersi ritornare. Roberto Mancini ct dell’Italia, Julio Velasco nuovo tecnico di Modena. Dove eravamo rimasti? Il ritorno al futuro è sempre un ritorno a casa. Mancini – ora che ha rescisso con lo Zenit di San Pietroburgo – ha rinunciato a 13 milioni; Velasco ha scritto una lettera alla Federazione argentina: a settembre guiderà la nazionale al Mondiale, poi tornerà in Italia. Al cuor non si comanda. Entrambi avranno un compito complicato. Parola chiave: rifondazione. Mancini raccoglie i cocci di una nazionale esclusa dal Mondiale, con un movimento senza una vera bussola e un parco giocatori senza eccellenze: arriva dopo il «no, grazie» di Ancelotti, lo attende un duro lavoro, primo obiettivo la qualificazione a Euro 2020, ma nel mentre il Mancio – che guadagnerà 2 milioni di euro all’anno per due anni – avrà la responsabilità per così dire «etica» di ridare un senso ad una nazionale perduta nei gangli della mediocrità e troppe volte inadeguata nel tentativo di piacere agli italiani.

Per Velasco si tratta della terza avventura sulla panchina di Modena. Prima volta: 1985-1989. Seconda: 2004-2006. Catia Pedrini, la presidentessa, lo accoglie così: «Julio è stato l’uomo che ha cambiato la storia della nostra disciplina, a Modena in Italia e nel mondo. L’ho voluto con noi perché lo considero una straordinaria promessa di futuro». Intanto però dovrà vedersela in tribunale con il coach bulgaro Radostin Stoytchev: alla fine sono volati gli stracci.

Il passato – se è stato bello – di bello ha questo: al solo ricordo riaccende la scintilla. Velasco a Modena nella seconda metà degli anni ’80 non ha vinto solo quattro titoli, tre Coppa Italia e una Coppa delle Coppe; ma ha tracciato un solco, indicato un orizzonte e portato tutti in una terra promessa dove il volley di casa nostra era davvero vincente. Mancini con l’azzurro ha avuto un rapporto tormentato, mai all’altezza delle aspettative e delle grandi potenzialità di un fuoriclasse assoluto della sua generazione, quella pascolata tra gli anni ’80 e ’90.

Dopo il debutto, subì l’esilio, a causa di una fuga notturna tra le mille luci di New York durante una tournée in Usa e Canada con la nazionale di Bearzot, venne richiamato da Vicini (discrete prestazioni a Euro 88, convocato ma nemmeno un minuto in campo al Mondiale di Italia 90) e infine dimenticato da Sacchi. Mancini voleva la panchina della nazionale, non l’ha mai nascosto: dovrà farsi mediatore, lui che spesso è andato allo scontro anche con i poteri forti del nostro calcio. Velasco dovrà riportare agli antichi fasti un club che ha vinto l’ultimo titolo nel 2016 (stagione chiusa col «Triplete», ma sono soltanto due gli scudetti in bacheca dal 2000 ad oggi) e che in passato è stato la stella polare di tutto un movimento.

Ma è scesa la notte, a Modena come a Coverciano: tocca a Velasco e Mancini trovare l’interruttore per riaccendere luci e speranze. Nell’attesa, valga per entrambi lo slogan di Velasco: «Uno non è un grande allenatore quando fa muovere i giocatori secondo le proprie intenzioni, ma quando insegna i giocatori a muoversi per conto loro. L’ideale assoluto avviene nel momento in cui l’allenatore non ha più niente da dire perché i giocatori sanno tutto quello che c’è da sapere».

avvenire

Calcio. Scudetto, la Juventus delle sette bellezze

Scudetto, la Juventus delle sette bellezze

Un pari all’Olimpico contro la Roma ed è ancora scudetto. Come la Juve nessuno mai. Sette scudetti, e quattro “double di fila”: titolo nazionale più Coppa Italia. I numeri parlano di una squadra cannibale: 29 vittorie (sabato con il Verona possibile la trentesima), cinque pareggi e soltanto tre sconfitte. Un attacco esplosivo, con 84 reti realizzate e appena 23 subite. La forza di una squadra campione sta sempre nella difesa e questa si è confermata, a partire dal suo portiere: la leggenda bianconera Gigi Buffon. A 40 anni il Gigi nazionale si ritira e lo fa con 9 scudetti vinti, superato il vecchio Furino della Juventus Trapattoniana. Ora è il tempo della Juve di Max Allegri, un condottiero straordinario che vince e rivince puntando sul collettivo, su gregari affidabili come Benatia e Matuidi e su stelle ormai consacrate come il tandem argentino Dybala (cannoniere bianconero con 24 gol) e Higuain. Allegri è uno special one della lettura della gara in corsa, un creativo della panchina capace di inventarsi Cuadrado terzino di spinta, così come la passata stagione fece con Mandzukic, retrocesso, alla bisogna, dall’attacco alle retrovie.

L’uomo in più di questo 7° sigillo tricolore è stato senz’altro Douglas Costa. Ma Dybala stoppa ogni celebrazione personalistica con un twitter assolutamente condivisibile: «Mostruosi! Campioni d’Italia». Un messaggio accompagnato dal video che vede negli spogliatoi dello stadio Olimpico di Roma tutta la squadra bianconera a festeggiare cantando: «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi!». I brasiliani Alex Sandro e Douglas Costa indossano la maglietta celebrativa con la scritta “MY7H” che è già diventato anche un hashtag di tendenza. Il leggendario Buffon si limita ad un semplice “7 in fila” corredato da una carrellata di foto dei suoi trionfi. «Non è facile realizzare quello che abbiamo fatto, ma dietro a questi sette scudetti c’è tutto ciò che significa essere Juventus. Uno scudetto non lo si vince ad agosto e neanche a dicembre, ma lo si costruisce giorno per giorno.Per questo è lo scudetto di un popolo intero», ha scritto su Instagram il principino Marchisio, un altro dei 7 scudettati. «L’abbiamo fatto di nuovo. Non vedo l’ora di ricevere lo Scudetto la prossima settimana per la terza volta. Settimo di fila per la Juventus», ha scritto invece il tedesco Sami Khedira.

L’ultima parola e l’ultimo “7” da esibire pubblicamente spetta a un altro della vecchia guardia, che come Buffon sta per lasciare la Juve, Andrea Barzagli. Sette scudetti in bianconero per Barzagli, Lichsteiner, Marchisio e Chiellini, come Roberto Bettega e come quella grande anima juventina di Gaetano Scirea. La Juve cambia uomini e aggiorna la maglia ma il motto resta sempre quello bonipertiano: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta».

da Avvenire

Australia. «In pensione» il donatore di sangue che ha salvato 2 milioni di bimbi

James Harrison (Australian Red Cross)

James Harrison (Australian Red Cross)

Va “in pensione” per raggiunti limiti di età, in Australia, a 81 anni un donatore speciale di sangue. Si chiama James Harrison e viene definito “The man with the golden arm”, l’uomo dal braccio d’oro: ha donato sangue quasi ogni settimana per 60 anni e, secondo l’Australian Red Cross Blood Service, ha aiutato a salvare la vita di oltre 2,4 milioni di bambini australiani. Per questo è considerato un eroe nazionale. Il sangue di Harrison ha anticorpi unici che sono stati usati per sviluppare un’iniezione chiamata Anti-D, che aiuta a combattere una condizione in cui il sangue di una donna incinta inizia ad attaccare le cellule del suo bambino non ancora nato. Nei casi peggiori, ciò può provocare danni cerebrali o morte dei piccoli.


Si tratta di gravidanze in cui la madre presenta un gruppo sanguigno Rh- (negativo) e il bebè un Rh+ (positivo, ereditato dal papà): in questi casi è possibile che il sangue della donna produca anticorpi che attaccano i globuli rossi del bambino. Le donazioni sono iniziate quando Harrison ha subito un intervento chirurgico al torace all’età di soli 14 anni. Le donazioni di sangue gli hanno salvato la vita, quindi si è impegnato a mettere in atto anche lui questo gesto.


Alcuni anni dopo, i medici hanno scoperto che il suo sangue conteneva un anticorpo che poteva essere usato per creare iniezioni Anti-D, così Harrison ha iniziato a fare donazioni di plasma sanguigno per aiutare quante più persone possibili. I sanitari non sono proprio sicuri del perché Harrison abbia questo tipo di sangue raro, ma pensano che potrebbe essere dovuto alle trasfusioni che ha ricevuto. Ad avere questa caratteristica sono non più di 50 persone in Australia. “Ogni sacca di sangue è preziosa, ma il sangue di James è particolarmente straordinario – ha evidenziato Jemma Falkenmire della Croce Rossa australiana – il suo sangue è effettivamente utilizzato per produrre un farmaco salva-vita”.

avvenire

Liverpool. Addio tra le lacrime ad Alfie, «piccolo guerriero»

I funerali di Alfie (Lapresse)

I funerali di Alfie (Lapresse)

Alcuni soldatini e un cuore blu sulla piccola bara bianca e, sul tetto del carro funebre, due scritte composte con i fiori che dicevano «guerriero» e «nostro eroe». Così i genitori di Alfie Evans, il piccolo morto il 28 aprile scorso, all’ospedale Alder Hey di Liverpool, dopo aver respirato oltre quattro giorni da solo dopo il distacco del ventilatore, hanno dato l’ultimo addio a quel figlio adoratissimo.

Al funerale, per volontà della famiglia, sono stati ammessi soltanto parenti stretti e gli amici più cari. «Tom e Kate continuano a ringraziare la comunità che li ha sostenuti ma ci hanno domandato di chiedere che la loro privacy venga rispettata durante il funerale», ha detto l’ispettore della polizia di Liverpool, Chris Gibson, leggendo un comunicato, «a chi vuole essere presente chiediamo di riempire le strade vicino a Goodison Park».

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In migliaia sono arrivati, da tutto il Regno Unito, per buttare fiori sul carro funebre e applaudire quel piccolo guerriero di 23 mesi e quei genitori eroici che hanno difeso il diritto a far curare il figlio all’estero in ogni grado di appello dei tribunali britannici per settimane. Alcuni arrivavano dalla Scozia e altri hanno aspettato per due ore che passasse il corteo. Orsacchiotti, fiori e biglietti sono stati deposti vicino alla statua di Dixie Dean, famoso giocatore dell’Everton, del quale il papà di Alfie, Tom, è un grande sostenitore.

I funerali di Alfie (Lapresse)

I funerali di Alfie (Lapresse)

Colorati di viola e blu, come le magliette di questa squadra di Liverpool, erano anche i palloncini, i nastri e le rose deposti lungo la strada e le cancellate dello stadio di Goodison Park. Anche nel resto del Paese i sostenitori del pacifico «esercito di Alfie» si sono riuniti accendendo candele e ricordando quel bambino che «ha riunito il mondo», come si leggeva su alcune magliette e sugli hashtag a lui dedicati sui social network.

A partecipare al dolore dei genitori di Alfie è Lord Alton, tra i politici inglesi più famosi, una lunga carriera alla Camera dei Comuni prima di essere ammesso tra i Lord. «Per la famiglia di Alfie il funerale sarà stato un momento di dolore inimmaginabile – ha dichiarato Lord Alton ad Avvenire –. Noi cattolici inglesi abbiamo pregato che genitori e parenti possano, almeno in parte, consolarsi pensando che milioni, in tutto il mondo, hanno pianto con loro al pensiero che quel figlio incredibile non c’è più».

E tocca a noi far sì che l’eredità di Alfie sia al sicuro, ha concluso Lord Alton. E lo sarà se la legislazione verrà modificata perché venga garantito ai genitori il diritto a mantenere in vita i figli. È proprio Lord Alton a spiegare che ha collaborato per mesi con i genitori di Charlie Gard, il piccolo, morto lo scorso luglio, in circostanze simili a quelle di Alfie. «Abbiamo lavorato a una “legge di Charlie”», spiega, «una proposta di modifica della legislazione che garantisca che i genitori possano avere l’ultima parola sulla vita dei figli. Spero che i genitori di Alfie la sosterranno».

A mandare «pensieri e preghiere» a Tom Evans e Kate James, dal suo account Twitter, è anche l’europarlamentare Steven Woolfe che sta portando avanti una «legge di Alfie» con obiettivi simili alla legge di Charlie. Ovvero garantire ai genitori un ruolo legislativo e aiuti finanziari quando entrano in conflitto con l’ospedale sul tipo di cure che dovrebbero ricevere i loro figli.

da Avvenire

La cura senza scarto. I 40 anni della legge Basaglia e la legge del Vangelo

I 40 anni della legge Basaglia e la legge del Vangelo

Caro direttore,
commuove la dichiarazione raccolta qualche settimana fa dall’inviata di ‘Avvenire’ nella Rems Anton Martin di San Maurizio Canavese: «Lì ci trattavano come bestie, qui invece ci danno del lei». Commuove, e non solo per la sua intensità. Non solo perché a pronunciarla è un malato che ha peregrinato tanto a lungo tra reparti psichiatrici e Opg. Commuove perché dimostra che, a certe condizioni, «l’impossibile diventa possibile»: è il principio in base al quale lo psichiatra Franco Basaglia lottò e vinse la battaglia per la chiusura dei manicomi quarant’anni fa. La legge che porta il suo nome ha segnato una svolta per gli italiani.

Non l’hanno compresa fino in fondo, ma l’hanno applicata. Si fa così, quando si vuol essere migliori. La Basaglia non è arrivata come una novità assoluta nell’esperienza dei Fatebenefratelli. Da tempo, anche grazie alla dedizione e alla lucidità di religiosi come fra Pierluigi Marchesi, lavoravamo per un sistema sanitario che restituisse la dignità a chi soffre, non lo strappasse alla sua comunità e lo coinvolgesse invece nel ricovero e nella cura. La riforma ci ha permesso dunque di praticare fino in fondo il carisma dell’ospitalità, che ci ha tramandato san Giovanni di Dio; in questo senso, non è temerario affermare che la passione civile di Basaglia e la profonda fede cristiana di Juan Ciudad fossero sorelle.

La legge 180 del 13 maggio 1978 ha voltato pagina su una società che aveva scelto di chiudere gli occhi sulla sofferenza mentale e di rinchiudere il malato in strutture inaccessibili, anticipando la «cultura dello scarto» che addolora papa Francesco. Quella sanità antica non era certamente al servizio del cittadino, bensì della sua paura, lo stigma. Esattamente come avveniva nella Spagna del Cinquecento, dove Ciudad, che prenderà poi il nome di Giovanni di Dio, inventò l’ospedale moderno proprio per servire i malati di mente, che allora si curavano con la reclusione nelle carceri.

I Fatebenefratelli hanno operato entro diversi sistemi sanitari, compreso quello italiano. Abbiamo partecipato al percorso che ha condotto alla riforma, come pure, in precedenza, ai suoi ritardi; tuttavia, il Vangelo ci impose ben prima del 1978 di “dare del lei” al paziente, perché nella sua sofferenza noi scorgiamo la Croce. Quando arrivò la legge Basaglia ci fu chiaro pertanto che non si trattava di un mero cambiamento di regole né soltanto del superamento di pratiche terapeutiche inumane, ma del conformarsi dell’intero sistema pubblico a una visione del paziente e della malattia che – provvidenzialmente – coincideva con la visione cristiana. La legge 180 però non ha risolto tutto. Come disse un genitore nel 1992, quando ne fu avviata l’applicazione, «ora il manicomio è nelle famiglie dei malati».

È ancora così e la Chiesa dedica grandi sforzi per contrastare la desertificazione che circonda le famiglie dei malati di mente. Già nel 1990 una Nota congiunta della Consulta nazionale per la pastorale della sanità e della Consulta ecclesiale delle opere caritative e assistenziali spronava a «promuovere la solidarietà tra le famiglie stesse», a «sollecitare gli enti pubblici» e a «organizzare i servizi sul territorio che siano anche di supporto alle famiglie». Le lacune non tolgono nulla alla grandezza della riforma.

Questa legge ha permesso un’evoluzione anche qualitativa sul piano clinico che era impensabile quarant’anni fa. Seguendo l’esempio di san Giovanni di Dio, il quale voleva che i poveri disponessero delle medesime opportunità terapeutiche dei ricchi, oggi possiamo investire in ricerca e tecnologie per offrire agli utenti del Servizio sanitario nazionale gli strumenti diagnostici e terapeutici più avanzati. L’impossibile diventa possibile. E quando, discutendo queste tematiche, definiamo “santo” Franco Basaglia, magari scandalizzando qualcuno, non intendiamo né provocare né convertirlo post mortem, ma riconoscere che il suo folle amore per il malato di mente era lo stesso folle amore che animò tanti santi cristiani.

di Massimo Villa – Sacerdote – Superiore della Provincia Lombardo Veneta dei Fatebenefratelli

da Avvenire