Filosofia. Jankélévitch, la noia rivela il senso della vita

Il filosofo Vladimir Jankélévitch

Il filosofo Vladimir Jankélévitch

Quante volte abbiamo sentito ripetere che la filosofia è quanto di più lontano possa esserci dalla vita. Dalla nostra quotidiana esistenza. Tante, tantissime volte. Ed è così. Basti pensare alla tendenza autoreferenziale che ha assunto gran parte della filosofia contemporanea. Soprattutto, ma non solo, quella di derivazione analitica. Che rivolgendo lo sguardo su se stessa, ha preso congedo dalla vita. Dimenticandosi di essa. Ma anche i grandi sistemi filosofici della modernità, non solo quello hegeliano, non hanno fatto che pensare la vita all’interno di astrazioni logico-concettuali e metafisiche che l’hanno inaridita, la vita. Riducendola al silenzio. Se poi pensiamo allo stato odierno della filosofia negli insegnamenti liceali e universitari – ridotta a una manualistica, ripetitiva e noiosa ‘disciplina’ – non possiamo dare torto a chi sostiene che davvero ha fatto esodo dalla vita. E tuttavia, non è stato sempre così. Anzi. Non è forse sulla vita – biologica, sociale, etica, politica, estetica, religiosa – che si interrogano i primi pensatori della Grecia antica? E tutti gli altri o gran parte di essi, che si susseguiranno sino alle soglie della modernità? È soprattutto nell’età contemporanea, invece, che si opera la frattura tra vita e filosofia. Una frattura che è necessario ricomporre. Risanare. Dentro lo stesso pensiero contemporaneo.

È ciò che ha provato a fare Vladimir Jankélèvitch (Bourges 1903 – Parigi 1985 ). Che sulla scorta, soprattutto, della lezione di Simmel, Bergson e dell’intera tradizione filosofica occidentale, ha cercato nelle sue opere di riacciuffare in qualche modo la vita. In tutte le sue più impensate increspature. In tutte le sue più quotidiane, familiari, consuete esperienze. Come quella dell’avventura. O quella della noia. O l’esperienza della serietà. Sulle quali si è soffermato con questo bel libro uscito in Francia nel 1963 e in prima edizione italiana da Marietti nel 1991, ora riproposto da Einaudi L’avventura, la noia, la serietà con l’introduzione di Enrica Lisciani Petrini. Avventura, noia, serietà: si tratta di quotidiane esperienze, che noi tutti facciamo. O abbiamo fatto. Oppure faremo. Sono delle “forme” nelle quali la nostra vita, in alcuni suoi provvisori, transitori passaggi, si determina. Perciò le chiamiamo “forme di vita”. Ma come è possibile, si chiede Jankélévitch, che la nostra vita, animata da un costitutivo dinamismo espansivo, si lasci irretire dentro ‘forme’ che tendono invece a devitalizzarla? Insomma, a negarla? È questa la ‘tragedia’ della nostra vita, sottolinea Enrica Lisciani-Petrini nell’introduzione.

La vita non può fare a meno delle “forme”. Giacché sono le “forme” che le conferiscono espressione. Ma il prezzo che la vita deve pagare per poter essere ‘espressiva’ è quello di rinunciare alla sua potenza espansiva. Ma questo non intende in alcun modo farlo. Ecco perché la nostra vita tende incessantemente e contraddittoriamente a negare quelle stesse ‘forme’ di cui non può fare a meno, per potersi esprimere. E questa negazione delle ‘forme’ la sperimentiamo nell’avventura. Che non si lascia mai predeterminare: che avventura sarebbe, se conoscessimo prima l’esito della sua esperienza? E nella serietà, ci dice Jankélévitch, non facciamo forse esperienza di una ‘forma di vita’ che la potenza espansiva della vita tende a negare? «Tutto è serio osserva Jankélévitch – e di conseguenza nulla lo è. Le nostre agende dell’anno scorso, con i loro defunti appuntamenti e tutte le crucialissime incombenze che ci agitavano, rendono una malinconica testimonianza di tale insignificanza generale». E coloro i quali hanno trascorso annoiandosi tutta la vita a sbadigliare, non saranno forse i primi a chiedere di poter avere un giorno ancora di vita, quando la morte busserà alla loro porta? Ci annoiamo, scrive Jankélévitch, «soprattutto nell’età in cui siamo convinti di avere in mano tutta l’immensità dell’avvenire, nell’età in cui immaginiamo che la vita sia senza fine… No, la vita non è lunga, la vita è breve come un sogno e, a conti fatti, ancor più breve che noiosa; infatti la morte è in definitiva ben più importante della noia».

avvenire

Raduan, a 7 anni dalla Siria a Trento per curare l’osteogenesi imperfetta

Bambini siriani rifugiati (Ansa)

Bambini siriani rifugiati (Ansa)

Il piccolo Raduan, bimbo siriano di 7 anni, sorride e fa ciao con la manina, l’unica parte del corpo che può muovere. Da gennaio è in Italia con la famiglia grazie ai corridoi umanitari. Quattro giorni fa hanno ottenuto lo status di rifugiati. Un’iniziativa che ha strappato la giovane famiglia al dramma di uno dei campi profughi a Tripoli in Libano, e il bimbo a un destino segnato. Un corridoio molto particolare, il primo sostenuto anche economicamente da un’amministrazione locale, la Provincia autonoma di Trento che con una delibera di giunta, dopo una mozione del consiglio, ha deciso di finanziare i corridoi: l’80% dei 100mila euro necessari, il resto dal Centro Astalli che con la cooperativa Villa Sant’Ignazio e la Comunità di Sant’Egidio sta gestendo accoglienza e integrazione.

Iniziativa nell’ambito del progetto della stessa Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Tavola Valdese e alla Federazione delle Chiese evangeliche, già affiancato dai corridoi umanitari promossi della Cei.

Trent’anni il papà, 27 la mamma, cinque figli da 2 a 12 anni. Vivevano a Homs, città a metà strada tra Damasco e Aleppo, in gran parte distrutta ma ancora al centro delle cronache per alcuni attacchi missilistici ad una base governativa. «Anche la loro casa è stata distrutta – ci racconta Stefano Canestrini, coordinatore del Centro Astalli di Trento –. Così un anno e due mesi fa sono fuggiti in Libano. Erano in 15».

E a Tripoli è cominciata «la vita da invisibili», come la definisce il presidente del Centro Astalli, Stefano Graiff. Fino a gennaio hanno vissuto in un palazzo non terminato, senza porte e finestre, e coi pavimenti in cemento grezzo, dicono Giuseppe e Sebastiano, i due operatori del Centro Astalli che sono andati a prenderli. Una situazione terribile, soprattutto per il piccolo Raduan. La malattia, infatti, ha fatto del suo corpo un fragile fuscello.Osteogenesi imperfetta o ‘ossa di cristallo’, viene chiamata. Le ossa si fratturano in continuazione e il corpo non cresce, fino all’adolescenza, ma ormai è tardi.

Così nella fuga in Libano, è stato trasportato con una coperta trasformata in barella. Poi per più di un anno la vita in un unico stanzone. Per dormire solo dei materassini. «Condizioni igieniche precarie. Costretti a vivere chiusi lì dentro. Una prigione senza catene», racconta Giuseppe. I bambini in tutto quel tempo non hanno mai visto altro che quel palazzo. L’unica a uscire era la nonna. «Era la più forte, dispensava sorrisi a tutti. La separazione è stata straziante», aggiunge Giuseppe.

Dopo cinque giorni nei quali i due operatori trentini hanno vissuto assieme alla famiglia e comunicando solo grazie ai traduttori dei cellulari, la partenza in un clima di gioia. «Per la prima volta l’applauso c’è stato al decollo e non all’atterraggio. Partito dalle manine dei bambini». Una prima sosta a Roma dove Raduan è stato ricoverato al Bambino Gesù per accertare lo stato della sua malattia. «Malgrado l’immobilità sorride sempre, è vivacissimo e ha un’intelligenza superiore. Gli piace la musica e sta imparando a suonare la pianola», ci racconta Canestrini.

Attualmente la famiglia è ospitata a Villa Sant’Ignazio dove vivono altri migranti, ma sarà presto trasferita in un appartamento preso in affitto. Raduan è seguito dal servizio pediatria di Trento e avrà l’assistenza scolastica a domicilio, mentre i fratelli hanno già cominciato la scuola. «Tutta la famiglia ha avuto uno screeningsanitario. I bambini non avevano mai visto un medico né erano stati vaccinati».

Il papà segue un corso di italiano per poi essere inserito in percorsi lavorativi. «Ha tanta voglia di imparare». «La barriera principale è stata quella linguistica – spiega Eleonora, che si occupa dell’inserimento –. Ma sono molto intuitivi. Fondamentale è stata la mediazione culturale per cogliere la complessità e porci nel modo più opportuno».

L’assessore provinciale alla sanità, Luca Zeni ricorda come il Trentino accolga 1.603 richiedenti asilo, mille dei quali in appartamenti. «C’è un’integrazione positiva che fa cadere i pregiudizi. La campagna elettorale ha dimostrato come una strategia di paura permette di capitalizzare. Ma questo avvelena il clima mentre è possibile una gestione tranquilla». Un evidente riferimento al recente danneggiamento nel comune di San Lorenzo del B&B che doveva ospitare sette rifugiati.

Coi corridoi umanitari sono già arrivati in Trentino 54 persone di 10 famiglie, come spiega il consigliere provinciale Mattia Civico, esponente della Comunità di Sant’Egidio che ricorda la frase di uno di loro: «Qualcuno è stato con noi, qualcuno ci ha aspettato, qualcuno ci ha preparato un posto».

Avvenire

Il Vangelo Domenica 22 Aprile. I lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti

IV Domenica di Pasqua
Anno B

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. […]

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.
Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.
La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d’amore.
Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.
Siamo davanti al filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.
Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l’attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa al tralci, della sorgente che dà acqua viva.
Pietro definiva Gesù «l’autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l’universo.

Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.
Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.
Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.
Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.
(Letture: Atti 4,8-12; Salmo 117; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18)

di Ermes Ronchi

Avvenire

Il bullismo in classe. Fallimenti e responsabilità: qualcosa che serve a questa scuola

Tutti vittime. Tutti colpevoli. Dipende da chi è a puntare il dito. Studenti, insegnanti e genitori sono diventati irriducibili nemici: manipoli di bulli che si fronteggiano armati di parole pesanti e che qualche volta – sempre meno raramente – dalle parole passano ai fatti.

I bollettini di guerra sono affidati alle cronache: maestre che maltrattano i bambini di cui dovrebbero avere cura,adolescenti che umiliano i docenti invece di prenderli a esempio, genitori che schiaffeggiano chi osa criticarne i figli. Un fallimento conclamato. Anzi, tanti fallimenti conclamati: della relazione, dell’educazione, del principio di responsabilità.

Falliscono diversi insegnanti: schiacciati da un sistema che mette al centro la burocrazia, raramente valorizzati e sistematicamente frustrati, finiscono – e come dar loro torto? – col lasciare che si spenga la passione per l’insegnamento che certo li aveva spinti a varcare la soglia di una classe. Rinunciano all’autorevolezza, esercitano l’autorità – quando ci riescono – che non li rende amati, tantomeno ammirati.

Falliscono certi genitori: incapaci di mantenere la giusta distanza, abdicano al ruolo di padri e madri calandosi in quello del compagno di scorribande, dell’amicone, del complice. Il pargolo ha sempre ragione, specie quando non ce l’ha. Il loro obiettivo – e neppure a loro si può dare torto – è la soddisfazione dei figli, e sono disposti a tutto per garantirla: fanno finta di non sapere che la soddisfazione più dolce è quella che ti conquisti, non quella che ti regalano.

Un fotogramma del video in cui uno studente bullizza il professore

Un fotogramma del video in cui uno studente bullizza il professore

Falliscono non pochi ragazzi: convinti che si possa crescere da soli, sacrificano alla comodità di un presente senza impegno un futuro che non si ottiene senza fatica. Occasioni che non tornano. Ma tutti sono vittime. Tutti sono colpevoli. Il professore frustrato che non ha più voglia di insegnare, il genitore dimentico di sé e del suo ruolo educativo, il ragazzo prepotente sicuro dell’impunità potrebbero continuare a crogiolarsi ciascuno nel proprio brodo di coltura se facessero male solo a se stessi. Invece, i danni – voluti o collaterali – non si contano.

Danni che nessuno risarcirà: per quanto un giudice potrebbe anche stabilire un indennizzo, l’insegnante sfregiata riuscirà più a guardare i suoi studenti con gli stessi occhi? La bambina presa a schiaffoni dalla maestra sarà ancor capace di fidarsi degli adulti? Sono responsabilità massicce a pesare su quanti si fronteggiano in queste trincee della scuola.

Responsabilità, concetto cardine della filosofia morale: la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e di correggere quest’ultimo sulla base di tale previsione. Siamo liberi di scegliere quale comportamento tenere, siamo liberi di agire per il bene o per il male. La seconda opzione non è – non deve essere – senza contraccolpi: questo tutti dovrebbero avere ben presente.

Gli adulti sforzarsi di insegnarlo ai ragazzi. Con le parole e con l’esempio: se un adolescente mette online il video di una compagna svestita, non dovrà passarla liscia e, se ancora non lo sa, deve imparare che non si può fare. Per il suo stesso bene. Non servono punizioni esemplari, anzi: le pene umilianti, ormai e noto e certificato, sono controproducenti. Serve un lavoro di recupero che sappia diventare valorizzazione, una spinta verso il meglio.

E la punizione andrebbe condivisa dagli adulti – siano essi i genitori o gli insegnanti – colpevoli di non aver esercitato il loro ruolo educativo.

Perché crescere figli maleducati è una colpa: lo dimostrano svariate sentenze della Corte di Cassazione che hanno condannato mamme e papà a pagare i danni causati a cose o persone dai comportamenti dei figli. Agli insegnanti che non hanno saputo insegnare non serve infliggere alcunché: la loro pena la scontano tutti i giorni, entrando in classe e incontrando gli sguardi vuoti dei ragazzi, che non li vedono nemmeno.

PS. Alla scuola serve anche qualcosa che non dipende solo dai suoi protagonisti: una politica pienamente consapevole del suo valore e un’informazione che sappia vederne e raccontarne anche i meriti e le buone pratiche. Noi ci proviamo.

avvenire

don Tonino ci aiuti a essere «Chiesa del grembiule»

Il discorso del Papa ad Alessano (LaPresse)

Il discorso del Papa ad Alessano (LaPresse)

Il Papa è arrivato alle 8.47 ad Alessano, città natale di don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, morto esattamente 25 anni fa, il 20 aprile 1993. Il 21° viaggio italiano di Francesco si svolge infatti sui luoghi più significativi del presule pugliese, di cui è in corso la causa di beatificazione.

Il Pontefice, decollato da Roma alle 7.35 è atterrato all’areoporto militare di Galatina e ha raggiunto in elicottero Alessano. Qui è stato accolto dal vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, nel cui territorio si trova la cittadina salentina, e dal sindaco Francesca Torsello.

Prima tappa del viaggio il cimitero comunale, dove riposa don Tonino Bello.

Il Papa sulla tomba di don Tonino (Fotogramma)

Il Papa sulla tomba di don Tonino (Fotogramma)

Il Papa raggiunge la tomba direttamente dall’elicottero e si ferma per lunghi minuti di preghiera silenziosa in piedi davanti alla lastra che ricopre la tomba. Il silenzio è assoluto. Si sente solo il vento che agita gli alberi e la veste bianca del Pontefice, il quale deve tenere in mano lo zucchetto per evitare che il vento stesso glielo porti via. Francesco depone sull’aiuola un mazzo di fiori bianchi e gialli. Infine si segna e va a pregare anche davanti alla tomba della madre di don Tonino, distante qualche passo.

Il Papa sulla tomba della madre di don Tonino (Fotogramma)

Il Papa sulla tomba della madre di don Tonino (Fotogramma)

Ritornando verso l’ingresso del cimitero il Papa si ferma a salutare a uno a uno i familiari del vescovo di Molfetta, accarezza e bacia i bambini, pronipoti di don Tonino, stringe le mani ai due fratelli Trifone e Marcello e riceve in dono da loro una stola appartenuta a don Tonino, che gli fu regalata durante un viaggio a El Salvador nel decennale dell’assassinio di monsignor Romero, e un grembiule ricamato dalle donne del paese, segno della Chiesa col grembiule tanto cara a monsignor Bello.

Il Papa ora si reca su un caddy bianco verso la spianata dove è allestito il palco per un saluto ai fedeli, che in circa 20mila lo attendono fin dalle prime ore dell’alba.

La folla dei fedeli in attesa fin dall'alba (foto Muolo)

La folla dei fedeli in attesa fin dall’alba (foto Muolo)

Il discorso del Papa: pace, poveri, contempl-attivi, umili

Alla preghiera sulla tomba il Papa fa riferimento all’inizio del suo discorso. E dice che quella tomba «non si innalza verso l’alto, ma è tutta piantata nella terra: don Tonino seminato nella sua terra». Quindi da questa terrail Papa lancia un nuovo appello per la pace nel Mediterraneo, così cara al vescovo di Molfetta morto 25 anni fa. Una terra che egli «chiamava “terra-finestra” – sottolinea Francesco nel discorso di Alessano -, perché dal Sud dell’Italia si spalanca ai tanti Sud del mondo, dove i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno. Siete una “finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia”, ma siete soprattutto una finestra di speranza perché il Mediterraneo – fa notare il Pontefice -, storico bacino di civiltà, non sia mai un arco di guerra teso, ma un’arca di pace accogliente».

Don Tonino uomo di pace, dunque. E così papa Bergoglio, con rapide pennellate ne ricorda il suo impegno incessante contro tutte le guerre. A partire da quelle più vicine. «Agiva localmente per seminare pace globalmente – dice -, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Infatti, se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe, là dove artigianalmente si plasma la comunione. Diceva, speranzoso, don Tonino: “Dall’officina, come un giorno dalla bottega di Nazareth, uscirà il verbo di pace che instraderà l’umanità, assetata di giustizia, per nuovi destini”».

Don Tonino vicino ai bisognosi. «Capire i poveri era per lui vera ricchezza – ricorda il Pontefice -. Aveva ragione, perché i poveri sono realmente ricchezza della Chiesa. Ricordacelo ancora, don Tonino, di fronte alla tentazione ricorrente di accodarci dietro ai potenti di turno, di ricercare privilegi, di adagiarci in una vita comoda». Quindi aggiunge: «Una Chiesa che ha a cuore i poveri rimane sempre sintonizzata sul canale di Dio, non perde mai la frequenza del Vangelo e sente di dover tornare all’essenziale per professare con coerenza che il Signore è l’unico vero bene. Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero». Don Tonino, sottolinea ancora Francesco, «sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino spossessarsi di sé. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l’indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l’incertezza del lavoro, problema oggi ancora tanto attuale. Non perdeva occasione per affermare che al primo posto sta il lavoratore con la sua dignità, non il profitto con la sua avidità».

Papa Bergoglio continua ad aggiungere pennellate su pennellate al ritratto di monsignor Bello. Era un contempl-attivo, dice con un gioco di parole tipico del vescovo. «Caro don Tonino – dice il Pontefice – ci hai messo in guardia dall’immergerci nel vortice delle faccende senza piantarci davanti al tabernacolo, per non illuderci di lavorare invano per il Regno. E noi ci potremmo chiedere se partiamo dal tabernacolo o da noi stessi. Potresti domandarci anche se, una volta partiti, camminiamo; se, come Maria, Donna del cammino, ci alziamo per raggiungere e servire l’uomo, ogni uomo. Se ce lo chiedessi, dovremmo provare vergogna per i nostri immobilismi e per le nostre continue giustificazioni. Ridestaci allora alla nostra alta vocazione; aiutaci ad essere sempre più una Chiesa contemplattiva, innamorata di Dio e appassionata dell’uomo».

Infine il don Tonino umile. «In questa terra Antonio nacque Tonino e divenne don Tonino. Questo nome, semplice e familiare, che leggiamo sulla sua tomba, ci parla ancora. Racconta il suo desiderio di farsi piccolo per essere vicino, di accorciare le distanze, di offrire una mano tesa. Invita all’apertura semplice e genuina del Vangelo. Il nome di “don Tonino” – aggiunge il Pontefice – ci dice anche la sua salutare allergia verso i titoli e gli onori, il suo desiderio di privarsi di qualcosa per Gesù che si è spogliato di tutto, il suo coraggio di liberarsi di quel che può ricordare i segni del potere per dare spazio al potere dei segni. Don Tonino non lo faceva certo per convenienza o per ricerca di consensi, ma mosso dall’esempio del Signore. Nell’amore per Lui troviamo la forza di dismettere le vesti che intralciano il passo per rivestirci di servizio, per essere “Chiesa del grembiule, unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo”». Una Chiesa, rimarca il Pontefice, «non mondana ma per il mondo». Una Chiesa «monda di autoreferenzialità» ed «estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé; non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso; mai assopita nelle nostalgie del passato, ma accesa d’amore per l’oggi, sull’esempio di Dio, che ha tanto amato il mondo».

La conclusione del Papa è un invito a imitare monsignor Bello, affinché «la sua profezia sia attuata». «Non accontentiamoci di annotare bei ricordi, non lasciamoci imbrigliare da nostalgie passate e neanche da chiacchiere oziose del presente o da paure per il futuro. Imitiamo don Tonino, lasciamoci trasportare dal suo giovane ardore cristiano, sentiamo il suo invito pressante a vivere il Vangelo senza sconti. È un invito forte rivolto a ciascuno di noi e a noi come Chiesa. Ci aiuterà a spandere oggi la fragrante gioia del Vangelo».

Al termine il Papa ha invitato i presenti a recitare un’Ave Maria davanti all’immagine della Vergine de Finibus Terrae che si venera a Santa Maria di Leuca, dove Benedetto XVI si recò in pellegrinaggio dieci anni fa.

Il saluto del vescovo Angiuli

In precedenza monsignor Vito Angiuli aveva salutato il Papa, ringraziandolo per la sua visita. «Speriamo di vedere presto don Tonino Beato. Don Tonino è vivo esempio per i nostri pastori. È stato per tutti, don Tonino, prima che Vescovo, papà del suo popolo, mostrando una forte paternità». Cita il cardinale Martini, secondo cui in monsignor Bello «brillava la centralità assoluta del mistero di Gesù crocifisso e risorto». Fa riferimento alla convivialità delle differenze che è stato, dice, anche il programma di vita perseguito instancabilmente dal Servo di Dio. E infine sottolinea: «Nei Suoi gesti, ci pare di intravedere gli esempi di vita che don Tonino ci ha lasciato. Troppo evidente ci sembra la somiglianza. Ogni volta che Lei appare alla finestra del Palazzo Apostolico, a noi viene in mente il titolo di un libro di don Tonino: Alla finestra la speranza. Sì, Padre Santo, le Sue parole, come quelle di don Tonino, ci aiutano a non farci rubare la speranza». Ed è proprio la speranza, aggiunge Angiuli, «che ci sostiene nell’affrontare alcuni gravi problemi che affliggono il nostro territorio: il flagello della xylella che ha devastato la bellezza dei nostri alberi d’ulivo; il ricorrente tentativo di deturpare il nostro mare; la precarietà e la mancanza di lavoro; la ripresa delle migrazioni di molti giovani e di interi nuclei familiari; il grido di dolore di tanti poveri umiliati nella loro dignità umana.La Sua presenza, oggi, in mezzo a noi mette le ali alla nostra speranza e ci sprona a seguire con più audacia il sentiero della pace indicato da don Tonino».

L’attesa e la veglia dei giovani

Durante l’attesa sono stati proiettati sui maxischermi anche alcuni filmati di don Tonino e brani di suoi discorsi.Tra la gente numerosi i giovani, che ieri sera hanno animato la veglia di preghiera davanti alla chiesa parrocchiale dove fu battezzato don Tonino e che poi sono rimasti svegli tutta la notte. Una veglia scandita dai tre grandi amori del presule. L’amore per la vita, per i poveri e per Dio.

Presenti tra gli altri don Luigi Ciotti e monsignor Angiuli. Toccante la testimonianza di don Ciotti: «L’Italia deve esportare la pace e non le armi» ha detto.

La veglia dei giovani ieri sera ad Alessano (foto Muolo)

La veglia dei giovani ieri sera ad Alessano (foto Muolo)

Papa Francesco è decollato alle 10.15 alla volta di Molfetta, dopo aver salutato a lungo i malati ai piedi del palco. A Molfetta celebrerà la Messa nell’area del porto, lo stesso luogo dove il 22 aprile 1993 si svolsero i funerali di don Tonino.