Arriva Rosarium, l’app per recitare il Rosario con l’iPhone

Si chiama Rosarium la nuova applicazione che consente di recitare il rosario con l’iPhone e l’Apple Watch. L’app, che farà la gioia di tanti fedeli, è già disponibile per il download sull’App Store e ha ottenuto un grande successo.

I tempi cambiano e anche i credenti si adeguano, approcciandosi alla religione in modo più tecnologico. Dimenticatevi i rosari con i grani, le preghiere daleggere nel libretto o da imparare a memoria, il futuro della fede è in un’app.

A realizzarla un team di giovani sviluppatori all’interno nell’Apple Developer Academy di San Giovanni a Teduccio, in provincia di Napoli. Nella versione realizzata per chi usa l’Apple Watch, il fedele viene aiutato nella recita dei Misteri del giorno durante il Santo Rosario.

Tramite un’interfaccia grafica flat, che riprende i vari colori utilizzati in ambito religioso, riesce a seguire le preghiere senza perdersi. L’applicazione fornisce infatti una Digital Crown, ossia una Corona Digitale, che aiuta a spostarsi da una preghiera all’altra, riproducendo la sensazione che viene offerta dai grani del rosario fisico. 

Nella versione di Rosarium per l’iPhone il fedele può consultare le preghiereutilizzate nel Rosario e impostare una notifica giornaliera per ricordarsi di recitarlo. L’applicazione è stata realizzata in ben 4 lingue, dall’italiano allo spagnolo, sino all’inglese e naturalmente il latino.

Il grande successo dell’app fa pensare che a breve verranno aggiunte altre lingue. L’obiettivo infatti è quello di rendere Rosarium un punto di riferimento per i credenti di tutto il mondo. L’app è stata distribuita in ben 155 nazioni e si può scaricare gratuitamente sull’App store.

Rosarium non è certo l’unica app dedicata ai fedeli. La religione ormai viaggia anche sul web, dove si trovano moltissimi servizi per i credenti. Si va da The Truth e Life che contiene una versione recitata del Nuovo Testamento, aiBreviary che fa riferimento al Rito Ambrosiano, sino a Mea Culpa, l’applicazione che consente di appuntare i peccati e di categorizzarli, per riferirli al prete durante la confessione.

app rosarium

fonte: SuperEva

Siria, Trump ha ordinato l’attacco In corso in coordinamento con Francia e Regno Unito

Cyprus Syria © AP

Donald Trump ha sciolto le riserve e, a una settimana dall’attacco chimico alla città siriana di Duma, ha ordinato la rappresaglia contro il regime di Damasco, in stretto coordinamento con Londra e Parigi. Lo ha fatto in diretta tv in un drammatico discorso alla nazione, in cui ha insistito sulla necessità di agire contro i crimini e la barbarie perpetrati dal regime di Bashar al Assad, definito “un mostro” che massacra il proprio popolo.

Annunciando l’attacco in Siria, TRump ha parlato di uno sforzo alleato contro “barbarie e brutalità” in una “operazione congiunta” con Regno Unito e Francia. Intanto anche Theresa May ha annunciato di avere dato ordine alle forze britanniche “di condurre attacchi coordinati e mirati per ridurre il potenziale dell’armamento chimico del regime siriano e dissuaderne l’uso”. La premier britannica ha fatto riferimento, per giustificare i raid, al presunto attacco chimico su Douma, in Siria, indicando un bilancio di “75 morti, inclusi bambini, in circostanze di puro orrore”.

Ha poi accusato “il regime siriano” di avere precedenti nell’uso di “armi chimiche contro il proprio popolo nel più crudele e abominevole dei modi” ed ha parlato di “un significativo dossier di informazioni, incluso d’intelligence, che puntano il dito” su Damasco anche per “quest’ultimo attacco”. Si tratta di un comportamento che “deve essere fermato”, ha proseguito May, sostenendo di aver “tentato ogni canale diplomatico”, ma che tutti gli sforzi in questo senso sono stati mandati a monte” e denuncia in particolare “il veto dei Russi a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla costituzione di un’investigazione indipendente sull’attacco di Douma”. Detto questo, ha asserito che non resta alcuna “alternativa praticabile all’uso della forza” contro “le armi chimiche del regime siriano”.

 

E, come raccontano alcuni testimoni, i primi missili Tomahawk cadevano su Damasco e Homs proprio mentre il presidente americano stava ancora parlando, intorno alle 22 ora di Washington, le tre del mattino in Italia. Per ora si è trattato di una ‘one night operation’, un’operazione unica durata poco più di un’ora, nel corso della quale sono stati colpiti principalmente tre obiettivi, come ha spiegato il Pentagono: un centro di ricerca scientifica a Damasco, un sito di stoccaggio per armi chimiche a ovest della città di Homs e un importante posto di comando situato nei pressi del secondo obiettivo.

I missili sono partiti sia da alcuni bombardieri sia da almeno una delle navi militari americane posizionate nelle acque del Mar Rosso. “Questo è un chiaro messaggio per Assad”, ha spiegato il segretario americano alla Difesa, l’ex generale James Mattis, assicurando come al momento non si registrino perdite tra le forze Usa e come sia stato compiuto ogni sforzo per evitare vittime civili. Del resto, ha sottolineato ancora il numero uno del Pentagono, si è trattato di un attacco mirato che ha avuto come obiettivo solo siti legati alla produzioni o allo stoccaggio di armi chimiche.

La prima risposta di Mosca, stretta alleata di Damasco, è arrivata dopo l’annuncio della fine della prima ondata di raid e di bombardamenti: “Le azioni degli Usa e dei loro alleati non resteranno senza conseguenze”, ha detto l’ambasciatore russo a Washington Anatoly Antonov. L’impressione di molti osservatori però è che gli obiettivi da colpire siano stati condivisi con Mosca, non fosse altro che per evitare incidenti e non colpire personale o postazioni russe in Siria. Intanto la prima reazione di Damasco è tesa a sminuire i risultati dell’operazione degli Usa e dei suoi alleati: se i raid sono finiti qui, hanno affermato fonti del governo di Damasco, i danni sono limitati.

Poche ore prima il ministero della Difesa russo aveva affermato di avere la prova di un coinvolgimento diretto della Gran Bretagna nell’organizzazione della “provocazione” del presunto attacco chimico nella Ghuta. E il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov aveva dichiarato: “Abbiamo dati inconfutabili” sul fatto che l’attacco chimico di Duma, in Siria, è stato organizzato. “I servizi speciali di un paese, che ora sta cercando di essere nelle prime file della campagna russofoba, sono stati coinvolti in questa messa in scena”, ha aggiunto il reponsabile della diplomazia del Cremlino.

Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo francese Emmanuel Macron hanno avuto ieri una telefonata. Alla domanda se i due leader avessero discusso della situazione in Siria, ha detto: “sì, la conversazione ha toccato questo argomento”. Vladimir Putin ed Emmanuel Macron nel corso della loro telefonata hanno deciso di dare mandato ai rispettivi ministri della Difesa e degli Esteri di mantenere uno “stretto contatto” per una “de-escalation” della situazione in Siria. Lo fa sapere il Cremlino. Entrambi i leader hanno poi espresso “soddisfazione” per l’arrivo degli esperti dell’Opac a Damasco. Putin ha sottolineato che serve un’indagine “oggettiva” prima della fine della quale conviene evitare “accuse infondate” contro “chiunque”.

“Abbiamo la prova che la settimana scorsa sono state utilizzate armi chimiche in Siria da parte del regime”: ha detto ieri il presidente francese, Emmanuel Macron, intervistato in diretta da TF1. E sempre ieri Angela Merkel ha escluso una partecipazione tedesca ad un intervento militare in Siria. Lo ha detto in conferenza stampa con il premier danese.

avvenire

Il Vangelo. Testimoni del Risorto con lo stupore dei bambini

III Domenica di Pasqua
Annno B

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro (…).

Non sappiamo dove sia Emmaus, quel nome è un simbolo di tutte le nostre strade, quando qualcosa sembra finire, e si torna a casa, con le
macerie dei sogni. Due discepoli, una coppia, forse un uomo e una donna, marito e moglie, una famigliola, due come noi: «Lo riconobbero allo spezzare del pane», allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del Vangelo. Spezzare il pane o il tempo o un vaso di profumo, come a Betania, e poi condividere cammino e speranza.
È cambiato il cuore dei due e cambia la strada: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». L’esilio triste diventa corsa gioiosa, non c’è più notte né stanchezza né città nemica, il cuore è acceso, gli occhi vedono, la vita è fiamma. Non patiscono più la strada: la respirano, respirando Cristo. Diventano profeti.
Stanno ancora parlando e Gesù di persona apparve in mezzo a loro, e disse: Pace a voi. Lo incontri e subito sei chiamato alla serenità: è un Signore che bussa alla mia vita, entra nella mia casa, e il suo saluto è un dono buono, porta pace, pace con me stesso, pace con chi è vicino e chi è lontano. Gesù appare come un amico sorridente, a braccia aperte, che ti accoglie con questo regalo: c’è pace per te.
Mi colpisce il lamento di Gesù «Non sono un fantasma» umanissimo lamento, c’è dentro il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da stringere con slancio, da abbracciare con gioia. Non puoi amare un fantasma. E pronuncia, per sciogliere dubbi e paure, i verbi più semplici e più familiari: «Guardate, toccate, mangiamo insieme!» gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni.
Lo conoscevano bene, Gesù, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. E mi consola la fatica dei discepoli a credere. È la garanzia che la Risurrezione di Gesù non è un’ipotesi consolatoria inventata da loro, ma qualcosa che li ha spiazzati.
Il ruolo dei discepoli è aprirsi, non vergognarsi della loro fede lenta, ma aprirsi con tutti i sensi ad un gesto potente, una presenza amica, uno stupore improvviso.
E conclude oggi il Vangelo: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un’altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gli fiorisce dagli occhi. La bella notizia: Gesù non è un fantasma, è potenza di vita; mi avvolge di pace, di perdono, di risurrezione. Vive in me, piange le mie lacrime e sorride come nessuno. Talvolta vive “al posto mio” e cose più grandi di me mi accadono, e tutto si fa più umano e più vivo.
(Letture: Atti 3, 13-15. 17-19; Salmo 4; 1 Giovanni 2, 1-5; Luca 24, 35-48).

Gli aiuti allo sport quando lo sport aiuta

Fra i contributi concessi alle associazioni sportive dilettantistiche, la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì ha favorito quelle che si occupano in particolare dello sport con squadre miste di ragazzi e giovani normodati e con disabilità o che vivono il disagio sociale giovanile. Spiega il Presidente della Fondazione, Roberto Pinza: «Abbiamo erogato a 40 società sportive dilettantistiche 300mila euro, che contribuiranno a sviluppare progetti per oltre 3,3milioni di euro. Si tratta di associazioni di tutto il territorio, operanti anche nelle piccole realtà e paesi dedicate alla pratica sportiva con particolare riferimento ai giovani e alle categorie più deboli del nostro territorio».
La Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì riconosce così a ciascuna realtà del territorio un contributo proporzionato alla «continuità operativa e solidità organizzativa, alla qualità dei contenuti dell’attività proposta e alle reti attivate, con particolare attenzione alle associazioni che cercano di integrare, attraverso lo sport, giovani disabili e normodotati, perché nessuno sia escluso dalla comunità sportiva, sociale e umana». Conclude il presidente Pinza: «Con questa iniziativa economica cerchiamo di potenziare e valorizzare lo sport come pratica educativa e preventiva, in grado di incidere sulla salute psico-fisica delle giovani generazioni, strumento per prevenire l’aggravarsi di forme di marginalità e disagio sociale giovanile, facilitando l’inclusione sociale e promuovendo la diffusione di valori quali lealtà, rispetto e solidarietà fra tutti, in particolare fra disabili e normodotati».

avvenire

Fotografie. Ecco chi sono i vincitori del premio World Press Photo

È stato annunciato il vincitore del World Press Photo of the Year, il più importante premio del più importante concorso di fotogiornalismo al mondo, organizzato dall’omonima fondazione olandese dal 1955: è il fotografo venezuelano Ronaldo Schemidt, che lavora per l’agenzia Agence France-Presse. La fotografia con cui ha ottenuto il premio mostra un ragazzo di 28 anni che indossa una maglietta che sta bruciando; è stata scattata durante una manifestazione di protesta contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro, avvenuta a Caracas nel maggio 2017. La foto ha anche vinto il primo posto nella categoria Spot News, immagini singole.  La giuria del World press photo (Wpp) ha annunciato tutti i vincitori della 61ª edizione del più importante premio fotogiornalistico al mondo. Quest’anno la giuria è stata presieduta da Magdalena Herrera, responsabile della sezione fotografica della rivista Geo in Francia. I giurati hanno esaminato 73.044 foto, scattate da 4.548 fotografi provenienti da 125 paesi.

È stato annunciato il vincitore del World Press Photo of the Year, il più importante premio del più importante concorso di fotogiornalismo al mondo, organizzato dall’omonima fondazione olandese dal 1955: è il fotografo venezuelano Ronaldo Schemidt, che lavora per l’agenzia Agence France-Presse. La fotografia con cui ha ottenuto il premio mostra un ragazzo di 28 anni che indossa una maglietta che sta bruciando; è stata scattata durante una manifestazione di protesta contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro, avvenuta a Caracas nel maggio 2017. La foto ha anche vinto il primo posto nella categoria Spot News, immagini singole. La giuria del World press photo (Wpp) ha annunciato tutti i vincitori della 61ª edizione del più importante premio fotogiornalistico al mondo. Quest’anno la giuria è stata presieduta da Magdalena Herrera, responsabile della sezione fotografica della rivista Geo in Francia. I giurati hanno esaminato 73.044 foto, scattate da 4.548 fotografi provenienti da 125 paesi.

General News, Storie, 1° premio. La foto è di Ivor Prickett, The New York Times
. Un bambino tenuto in braccio da un soldato delle forze speciali irachene, dopo essere stato portato fuori dall'ultima area controllata dallo Stato Islamico nella città vecchia di Mosul da un uomo sospettato di essere un militante

General News, Storie, 1° premio. La foto è di Ivor Prickett, The New York Times
. Un bambino tenuto in braccio da un soldato delle forze speciali irachene, dopo essere stato portato fuori dall’ultima area controllata dallo Stato Islamico nella città vecchia di Mosul da un uomo sospettato di essere un militante

General News, 1° premio. La foto è di Patrick Brown, Panos Pictures, per Unicef. I corpi di rifugiati rohingya morti dopo che l'imbarcazione su cui provavano a scappare dal Myanmar si è ribaltata a circa otto chilometri al largo della spiaggia di Inani Beach, vicino a Cox's Bazar, Bangladesh. Sulla barca c'erano circa 100 persone. Ci sono stati 17 sopravvissuti

General News, 1° premio. La foto è di Patrick Brown, Panos Pictures, per Unicef. I corpi di rifugiati rohingya morti dopo che l’imbarcazione su cui provavano a scappare dal Myanmar si è ribaltata a circa otto chilometri al largo della spiaggia di Inani Beach, vicino a Cox’s Bazar, Bangladesh. Sulla barca c’erano circa 100 persone. Ci sono stati 17 sopravvissuti

La foto è di Ivor Prickett, The New York Times
. Civili che sono rimasti a Mosul ovest dopo la battaglia per riprendere la città, si mettono in fila per ricevere aiuti nel quartiere di Mamun.

La foto è di Ivor Prickett, The New York Times
. Civili che sono rimasti a Mosul ovest dopo la battaglia per riprendere la città, si mettono in fila per ricevere aiuti nel quartiere di Mamun.

Spot News, Storie, 2° premio. La foto è di Toby Melville, Reuters. Una passante consola una donna ferita dopo che Khalid Masood ha investito i pedoni sul ponte di Westminster a Londra, nel Regno Unito, uccidendo cinque persone e ferendone altre.

Spot News, Storie, 2° premio. La foto è di Toby Melville, Reuters. Una passante consola una donna ferita dopo che Khalid Masood ha investito i pedoni sul ponte di Westminster a Londra, nel Regno Unito, uccidendo cinque persone e ferendone altre.

Persone, Storie, 1° premio. La foto è di Adam Ferguson, The New York Times. Aisha in posa per un ritratto a Maiduguri, stato di Borno, Nigeria. Dopo essere stata rapita da Boko Haram, Aisha doveva compiere un attentato suicida, ma è riuscita a scappare.  Dal 29 agosto al 22 settembre 2017 Ferguson ha realizzato ritratti delle ragazze rapite da Boko Haram a cui è stato ordinato di farsi saltare in aria in zone affollate, ma sono riuscite a scappare. (Tutte le foto Ansa)

Persone, Storie, 1° premio. La foto è di Adam Ferguson, The New York Times. Aisha in posa per un ritratto a Maiduguri, stato di Borno, Nigeria. Dopo essere stata rapita da Boko Haram, Aisha doveva compiere un attentato suicida, ma è riuscita a scappare. Dal 29 agosto al 22 settembre 2017 Ferguson ha realizzato ritratti delle ragazze rapite da Boko Haram a cui è stato ordinato di farsi saltare in aria in zone affollate, ma sono riuscite a scappare. (Tutte le foto Ansa)

People, 1° premio. La foto è di Magnus Wennman. Djeneta (a destra) è a letto e non risponde agli stimoli da due anni e mezzo, sua sorella Ibadeta da più di sei mesi: entrambe hanno la cosiddetta uppgivenhetssyndrom, a Horndal, in Svezia. La uppgivenhetssyndrom è una patologia che si crede esista solo tra i rifugiati in Svezia.

People, 1° premio. La foto è di Magnus Wennman. Djeneta (a destra) è a letto e non risponde agli stimoli da due anni e mezzo, sua sorella Ibadeta da più di sei mesi: entrambe hanno la cosiddetta uppgivenhetssyndrom, a Horndal, in Svezia. La uppgivenhetssyndrom è una patologia che si crede esista solo tra i rifugiati in Svezia.

Musica Sacra / La Messa del maestoso Pergolesi “celebrata” dall’Orchestra Ghislieri

Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) rappresenta una delle pietre angolari che sostengono l’intero repertorio sacro del Settecento italiano, e non solo. Visionario e anticipatore, ma anche profondamente radicato nel suo tempo, nella sua breve esistenza il compositore di Jesi ha saputo imprimere il sigillo indelebile della sua grandezza grazie a un magistero riversato principalmente su una manciata di opere per il teatro e sull’irraggiungibile Stabat Mater.
Una statura artistica che ritorna ancora oggi a dimostrare tutta la sua attualità grazie al nuovo disco-capolavoro firmato dal Coro e dall’Orchestra Ghislieri diretti da Giulio Prandi, che hanno impaginato un programma incentrato su due opere sacre in prima registrazione mondiale, destinate a rivelare una cifra maggiormente solenne e maestosa, quasi monumentale, dello stile compositivo pergolesiano.
Da un lato troviamo infatti il gioioso e festoso “mottettone” Dignas laudes resonemus, pagina imponente che prevede in organico doppio coro a cinque voci, doppia orchestra d’archi (con oboi e trombe) e voci soliste (nella registrazione quelle pregevoli del soprano Marlis Petersen e del contralto Marta Fumagalli), attori principali coinvolti nel difficile equilibrio tra i continui contrasti di quella spettacolare “religiosità teatrale” così in voga nella Napoli dell’epoca. La straordinaria capacità di Prandi e compagni di sbalzare in rilievo i diversi piani prospettici di sezioni con caratteristiche formali, espressive e stilistiche differenti si evidenzia in modo particolare tra i pannelli policromi della Messa in re maggiore, la cui struttura prevede la sola intonazione di Kyrie e Gloria, ma che viene articolata nell’alternanza di una serie di episodi affidati a coro e solisti: nel drammaturgico Kyrie iniziale, tra le dinamiche interne ai gruppi vocali nel Gloria in excelsis come nella grandiosa doppia fuga del Cum Sancto Spiritu finale, arduo banco di una prova superata “magna cum laude” dalle validi compagini del Ghislieri.

Pergolesi
Messa in re maggiore, Dignas laudes resonemus
Orchestra & Coro Ghislieri,
Giulio Prandi
Arcana / Self-Tàlea. Euro 20,00

Il caso. Qatar, il calcio come inganno per gli immigrati

Un'immagine dal documentario "The Workers Cup" del regista Adam Sobel

Un’immagine dal documentario “The Workers Cup” del regista Adam Sobel

Il Qatar ha appena completato il primo stadio con aria condizionata in vista dei Mondiali 2022: il Khalifa International Stadium di Doha è dotato di un modernissimo sistema di condizionamento che permetterà di mantenere sul terreno di gioco una temperatura di 26 gradi, mentre sugli spalti varierà tra i 24 e i 28 gradi per i suoi 40mila spettatori. E questo nonostante i Mondiali siano stati spostati eccezionalmente in inverno, a causa delle torride temperature, cosa che ha indispettito il pubblico e le emittenti tv. Mentre nei “sacri palazzi” del calcio miliardario si discute di diritti televisivi, faraonici progetti da archistar e inciuci che hanno decapitato i vertici Fifa, Umesh, 36enne operaio edile indiano, alza lo sguardo allo scassato condizionatore dell’infermeria. Considera fortunato il suo amico che si è fatto male a una gamba nel cantiere di uno stadio e ora può starsene ingessato su un letto al fresco. Non come lui e gli altri 4000 lavoratori provenienti da Africa, India, Filippine, Bangladesh e Nepal che vivono in piccoli torridi prefabbricati dalle condizioni igieniche precarie nel campo di Umm Salal, lontano dalla città, nascosto fra l’autostrada e il deserto.

Uno dei tanti che ospitano il milione e seicentomila lavoratori migranti ingaggiati per costruire le infrastrutture dell’evento sportivo più importante del pianeta e che rappresentano il 60% della popolazione del Qatar, ma senza diritto alla cittadinanza. Anzi, che, secondo i recenti rapporti di Amnesty international e Human Right Watch, vivono in condizioni di autentica schiavitù e pericolo di vita (secondo l’Associazione internazionale dei sindacati il Mondiale alla fine costerà la vita di 4000 lavoratori). «Se dici che vivi in un campo, le ragazze pensano che sei un rifugiato. E quando mai troverai una ragazza? Già è impossibile uscire da questo recinto senza il permesso del datore di lavoro…» sorride malinconico Paul, 21 anni, un romanticone arrivato dal Kenya con grandi speranze e che ora si vergogna di dire a suo padre che lavora 12 ore al giorno a pelare zucchine e pulire pentoloni per meno di 200 dollari al mese. Ma un giorno, all’improvviso, anche per loro, lavoratori invisibili, sottopagati e senza diritti, esclusi dallo splendente circo mediatico dei Mondiali 2022 (valore 140 miliardi di dollari) arriva una scintilla di riscatto grazie proprio a un torneo di calcio a loro dedicato.

Commuove, esalta e ci fa arrabbiare The Workers Cup, il bel documentario del regista Adam Sobel, applaudito anche allo scorso Sundance Film Festival e proiettato ieri al festival “Le voci dell’inchiesta” di Pordenone sostenuto da Cinemazero. Sponsorizzato dal Comitato Supremo della Coppa del Mondo Qatar 2022, il torneo nel 2014 ha coinvolto le squadre di lavoratori di 24 compagnie impegnate nella costruzione delle infrastrutture dei Mondiali. Un’operazione di facciata per finire sui giornali e che facilita l’arruolamento di altri moderni schiavi, allettati dal vedere i loro colleghi all’estero giocare a calcio di fronte a folle entusiaste, ammette un organizzatore davanti alla cinepresa. Ma per i lavoratori, giocare a calcio porta un momento di sollievo e di riscatto nelle loro vite disperate. Vite in balia dei loro datori di lavoro secondo una legge capestro come la “kafala” che il Qatar, messo sotto pressione internazionale, dichiara di avere abolito anche se occorrerà vedere i risultati effettivi: le ditte possono trattenere il passaporto degli operai, farli lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni su 7 e impedire loro sia di cambiare mestiere sia di tornare in patria.

E così in un documentario che ci emoziona come Fuga per la vittoria di John Huston, ci ritroviamo a fare il tifo in questo moderno lager per il Gcc team, la scalcagnata squadra della Gulf Contracting Co. Il capitano è Kenneth, un bel ragazzo di 21 anni del Ghana, aspirante calciatore ingannato dal suo agente che al prezzo di 1500 dollari lo ha spedito in Qatar con la promessa di entrare in una squadra di calcio, mentre invece si è ritrovato schiavo in un cantiere. Lui motiva il gruppo e, mentre si fa il segno della croce entrando in campo, spera che qualche scout del calcio lo noti. Un talentuoso portiere che ha militato nella prima divisione del Ghana, ma senza riuscire a viverci, Samuel, è troppo orgoglioso per dire al padre che si ritrova a spalare pietre nel deserto e gli dice che in Qatar è diventato calciatore professionista.

Padam, dal Nepal, è un geometra che guadagna 400 dollari al mese, troppo pochi per avere diritto a ricongiungersi con sua moglie (occorre un reddito di circa 2500 dollari) e a causa della lontananza il matrimonio sta andando a rotoli. Con tutto questo carico emotivo sulle spalle e la fatica quotidiana nei muscoli, questi uomini si allenano, fanno squadra, sperano nella libertà e combattono partita dopo partita arrivando alle semifinali come in un sogno. Uno dei loro gol vale mille volte di più di qualunque strabiliante rovesciata di Ronaldo. I sogni, si infrangono in una manciata di rigori, e in un pur meritatissimo quarto posto. Il giorno dopo, si torna alla dura realtà: i più bravi, Kenneth e Paul, provano a chiedere agli organizzatori una chance per diventare calciatori.

«Ci spiace, per le regole del Qatar dovete lavorare altri 5 anni nei cantieri, poi si vedrà» li liquida un imbarazzato mister. Davanti allo scoramento generale da applauso è il discorso del capocantiere: «Non dividetevi fra di voi. Questo è l’inferno, quel mondo è per i ricchi, non è per noi. Stanno abusando di noi, siamo schiavi, ma ricordatevelo, siamo i migliori di tutti». Una lezione di dignità registrata da Adam Sobel, che fa parte di una associazione, “Behind the camera”, di giovani ma già premiati filmaker tutti residenti in Qatar, decisi a raccontare storie del Medio Oriente e del Nord Africa al mondo. «La storia dei lavoratori dei mondiali è intorno a noi, ma così difficile da penetrare se non in una maniera superficiale – spiega il regista -. Questo torneo è stato una opportunità unica di passare del tempo reale con questi uomini. Abbiamo seguito i loro racconti di speranza, di ambizioni deluse e di solitudine attraverso gli anni. Le loro storie parlano di tantissimi altri lavoratori migranti in giro per il mondo, non solo in Qatar».

avvenire

Amnesty International. Pena di morte, condanne ed esecuzioni in calo nel 2017

Nel 2017 nel mondo sono diminuite le condanne a morte. Stando al rapporto sulla pena di morte di Amnesty International nel 2017 ci sono state 993 esecuzioni in 23 stati, il 4 per cento in meno rispetto alle 1032 esecuzioni del 2016 e il 39 per cento in meno rispetto alle 1634 del 2015, il più alto numero dal 1989.

La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo in Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan. È in Cina che si esegue la maggior parte delle condanne a morte ma, sottolinea Amnesty International, la reale dimensione dell’uso della pena capitale non è conosciuta perché i dati sono considerati un segreto di Stato. Per questo, secondo l’organizzazione, il totale delle 993 esecuzioni registrate nel 2017 non comprende le migliaia che si ritiene abbiano avuto luogo nel Paese.

Negli Stati Uniti il numero delle esecuzioni (23) e delle condanne a morte (41) del 2017 è lievemente aumentato rispetto al 2016, ma è rimasto in linea con le tendenze, storicamente basse, degli ultimi anni. Il numero degli Stati americani dove sono state eseguite condanne a morte è salito da cinque a otto. Dopo un periodo d’interruzione, sono riprese le esecuzioni in Arkansas, Ohio e Virginia. Quattro Stati (Idaho, Mississippi, Missouri e Nebraska), così come le corti federali, sono tornati a emettere condanne a morte facendo salire a 15 (rispetto alle 13 del 2016) le giurisdizioni che hanno imposto la pena capitale. Carolina del Nord, Kansas e Oregon non hanno emesso condanne a morte, a differenza del 2016.

Nel 2017 a far fare grandi passi avanti alla lotta globale per abolire la pena capitale è stata l’Africa subsahariana, dove si è registrato un significativo decremento delle condanne a morte. Sempre in questa regione, la Guinea è diventata il 20° stato abolizionista per tutti i reati, il Kenya ha cancellato l’obbligo di imporre la pena di morte per omicidio e Burkina Faso e Ciad si stanno avviando a introdurre nuove leggi o a modificare quelle in vigore per abrogare la pena capitale.

“I progressi dell’Africa subsahariana rafforzano la posizione della regione come faro di speranza e fanno auspicare che l’abolizione di questa estrema sanzione, crudele, inumana e degradante sia in vista”, ha detto Salil Shetty, segretario
generale di Amnesty International. “Mentre i governi di questa regione continuano a fare passi avanti verso il ripudio, o quanto meno la riduzione dell’uso della pena di morte già nel corso del 2018, l’isolamento degli stati che ancora la mantengono in vigore non potrebbe risultare più profondo”, ha aggiunto Shetty: “Ora che 20 Stati dell’Africa subsahariana hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, è davvero il momento che il resto del mondo segua la loro direzione e consegni questa abominevole punizione ai libri di storia”.

Nel 2016 Amnesty International aveva registrato esecuzioni in cinque stati della regione, mentre nel 2017 solo in due, Sud Sudan e Somalia. La ripresa delle esecuzioni in Botswana e Sudan, nel 2018, non deve oscurare i positivi passi avanti intrapresi da altri stati. Il Gambia ha firmato un trattato internazionale che l’impegna a non eseguire condanne a morte in vista dell’abolizione della pena capitale e nel febbraio 2018 il presidente ha istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni.