Il video. Marco, ragazzo Down: «Io vittima dei bulli, ora vi spiego come reagire»

Marco, ragazzo Down: «Io vittima dei bulli, ora vi spiego come reagire»

Ci è passato anche lui, ma non aveva avuto il coraggio di parlare. “Ora basta al bullismo. Mando in rete questo messaggio perché vorrei raggiungere più persone possibili, tutti possono imparare a reagire e a difendersi contro il bullismo”. Lo ha spiegato in un video pubblicato su Facebook Marco Baruffaldi, 22enne di Castelfranco Emilia, nel Modenese, con sindrome di Down.

Il ragazzo era già diventato una star del web per aver cantato il suo manifesto rap “Siamo diversi tra noi“, un inno potentissimo contro il bullismo, che aveva raccolto migliaia di visualizzazioni, con tanto di cd prodotto e venduto nelle edicole locali per raccogliere fondi a favore della disabilità.

A raccontare la sua storia, e il recente nuovo appello è stata l’edizione locale del Resto del Carlino.

“Fin da piccolo – spiega Marco nel video su Facebook – a scuola sono stato maltrattato brutalmente. Un ragazzino mi picchiava continuamente, mi minacciava. E ho subito di peggio da un insegnante di sostegno: mi prendeva a sberle, mi pestava i piedi, mi insultava. Mi seguiva con l’auto per minacciarmi, perché non voleva che lo dicessi ai miei genitori. E io non ho mai detto niente”.

Il video si chiude con Marco che decide di lasciare i propri contatti affinché altri coetanei, vittime di bullismo lo possano chiamare per avere il suo sostegno: “Spero così di poter salvare qualcun altro, un bambino o un ragazzo vittima di bullismo e violenza. Mi rivolgo a loro: non arrendetevi mai, parlate con i vostri genitori e professori, non fate il loro gioco. Ancora oggi sono pentito di non avere parlato con i miei quando è successo a me: era quello che avrei voluto e dovuto fare, ma la paura mi aveva bloccato”.

avvenire

Ancona. Neonata trovata morta in un centro di trattamento rifiuti

Il corpicino era sul nastro trasportatore. L’ipotesi più probabile è che la piccola sia stata abbandonata in un cassonetto poco dopo la nascita

(Fotogramma)

(Fotogramma)

Ennesimo caso di abbandono di un neonato, con modalità raccapriccianti. Il caso è avvenuto nelle Marche, aOstra (Ancona), dove il corpicino di una neonata è stato trovato sul nastro trasportatore di una ditta di trattamento rifiuti. L’attività è stata immediatamente bloccata e sul posto sono giunti i carabinieri di Senigallia.

È stata aperta un’inchiesta per infanticidio e disposta l’autopsia sul piccolo corpo. L’ipotesi più probabile è che la bimba sia stata abbandonata poco dopo la nascita in un cassonetto della zona. L’azienda raccoglie infatti rifiuti da vari centri.

Il corpo della neonata, di carnagione chiara, secondo quanto accertato dai carabinieri è stata trovato sul nastro trasportatore senza che vi fossero resti di valigie intorno: la scoperta è stata fatta durante le operazioni di sminuzzamento meccanico dei rifiuti ingombranti. Gli inquirenti hanno inoltre prelevato una busta di plastica macchiata di sangue, che sarà essere analizzata.

I carabinieri stanno esaminando anche le bolle di conferimento dei vari camion che raccolgono i rifiuti per l’azienda di Casine di Ostra per risalire al luogo di provenienza del materiale tra il quale c’era anche il corpicino. Stanno anche compiendo verifiche negli ospedali vicini ai punti di raccolta per rintracciare la madre della neonata.

Avvenire

Lettere. Bambini ingestibili? Può darsi ma la maestra deve educare, mai maltrattare

Caro Avvenire, mi si lasci la libertà di autocollocarmi nella mal sopportata truppa dei brontoloni se mi pongo una domanda inattuale come questa: “È da attribuire solo e sempre alle maestre d’asilo la colpa delle vessazioni contro i capricciosi pargoli loro affidati?”. Ci rendiamo conto che il “vietato vietare” del ’68 è diventato indiscutibile comandamento secondo il quale i genitori dei teneri virgulti esercitano la difficile arte dell’educazione? Sarò forse pessimista se oso prevedere che i detti virgulti conseguentemente diventeranno un giorno robusti tronchi e nodosi manganelli magari contro gli stessi genitori? Le nostre nonne, che esortavano a non praticare una piccola lesione in una calza per non comprometterne il tutto, avevano capito meglio di ogni autorità di qualsiasi società che la norma non è una vendetta del più forte, ma un ausilio a sostegno della tenera pianticella.

Antonio Contri


Di seguito la risposta di Marina Corradi da Avvenire:

Succede, testimoniano le cronache, che l’occhio di una telecamera piazzata di nascosto dagli investigatori registri, in una scuola materna, maestre che usano le mani. E non per benigni, appena accennati sculaccioni, ma menando colpi in testa, e spintoni, o addirittura costringendo un bambino a rimangiarsi ciò che ha rigurgitato. Oppure, si sentono maestre che insultano: “idiota”, “deficiente”, parole che non fanno meno male degli schiaffi. Forse il lettore non ha guardato bene quei video. Non mostrano cose da poco, ma vessazioni e umiliazioni autentiche, tali per cui quei bambini non vogliono più andare all’asilo: fino a che la faccenda non viene fuori. Mi spiego questa lettera immaginando, forse a torto, che chi la scrive abbia una certa età. E quindi abbia memoria delle mamme circondate da una numerosa nidiata di figli piccoli, che per educarli usavano ora una carezza, ora un abbraccio, ora uno schiaffo, dato però da mani sempre materne, e preso al volo, senza che ne rimanesse il segno. I maltrattamenti registrati oggi in alcuni asili sono tutt’altro: raccontano di persone inadatte a quel lavoro, che sfogano la loro frustrazione con rabbia e anche con il compiacimento crudele di chi si crede impunito. Educare non è questo, educare non può essere mai, come dice lo stesso lettore, «la vendetta del più forte». «Sarò forse pessimista se oso prevedere che i detti virgulti diventeranno un giorno robusti tronchi e nodosi manganelli magari contro gli stessi genitori?», si chiede Contri. Io penso che questo rischio ci sia, ma per i bambini maltrattati: la violenza è un virus, e sappiamo come spesso chi è vessato diventa vessatore, chi è umiliato diventa bullo. In una drammatica coazione a ripetere, dura da spezzare. Se non ricominciando a educare, cioè a voler condurre verso il bene quel figlio. La radicale differenza fra gli sculaccioni delle mamme di ieri (e, qualche volta, di oggi) e i comportamenti di certe maestre che finiscono sospese e indagate è questa: quelle maestre non cercano affatto di educare, sono semplicemente esasperate e incattivite. Da bambini particolarmente viziati e irrequieti, ingestibili? È possibile che una generazione di figli unici fatichi di più a socializzare di coloro che crescevano in grandi famiglie. Eppure quella dell’asilo è un’età così tenera, che moltissimo si può fare ancora – almeno, nella mia esperienza di madre di tre figli, ora grandi – con sorrisi, carezze, abbracci, gioco: con tutta la straordinaria, e in molte donne istintiva, gamma dei modi materni. Il signor Contri parla delle nonne, che sapevano che la norma è «ausilio alla tenera pianticella». A tre anni la pianta, infatti, è tenera, la creta è fresca e duttile. Ci vogliono mani capaci di plasmare, di correggere con tenerezza: di certo non botte, non insulti, che possono spezzare quel legno ancora verde, e restare addosso, come marchi indimenticabili.

Lavoro le riforme necessarie. Sulle «politiche attive» ora si attivi la politica

Sulle «politiche attive» ora si attivi la politica

Il dibattito post elettorale è ancora in pieno svolgimento ma le soluzioni all’impasse emersa dai risultati delle urne sembrano lontane. Diverse sono le interpretazioni avanzate per spiegare le cause che hanno condotto a questi risultati. V’è comunque una sostanziale unanimità di vedute sul fatto che gli esiti del voto sono lo specchio di un profondo malessere sociale e anche economico che attraversa larghe fette della popolazione italiana.

Malessere che ha certamente tra le sue origini più profonde il lavoro, in particolare la sua scarsità e, soprattutto, la sua bassa qualità. In campagna elettorale sono state diverse le ricette presentate dai partiti, e in larga parte si sono limitate a promesse generiche non supportate da adeguate coperture finanziarie. La trasformazione del lavoro che tutti stiamo intuendo, e molti vivendo sulla propria pelle, spaventa e alimenta nuove insicurezze e lacerazioni nel tessuto sociale.

La tecnologia se non viene spiegata e soprattutto governata porta a temere per la scomparsa del proprio lavoro. L’invecchiamento della popolazione ci costringe a restare al lavoro più a lungo in imprese che non sono attrezzate per il lavoro dei sessantenni. La globalizzazione dei mercati emerge come un nemico e non come un mondo che ci può essere più vicino. Il tutto in un contesto come quello italiano nel quale i pochi investimenti e la bassa innovazione, insieme ad una crisi che comunque ancora serpeggia, rischiano di spingerci sempre più agli ultimi posti di quelle catene globali del valore lungo le quali ormai si muove l’economia mondiale.

Questa situazione non è certo mutata grazie al voto. Vero è, anzi, che il voto pone tutti gli attori, non solo i partiti, di fronte a enormi responsabilità. E la prima responsabilità è quella di non cadere nell’eterno errore italiano di lasciare incompiute le riforme e le leggi promulgate e avviate negli ultimi anni.

Questo non significa certo che chi sarà chiamato a governare dovrebbe accettare in modo acritico tutto ciò che di incompiuto troverà. Tutto è modificabile. Tutto è adattabile a nuove idee, a nuovi paradigmi e alle visioni della economia e della società abbracciate dai partiti. E vi sono, in ogni caso, capitoli fondamentali delle riforme del passato da completare che sono trasversali, almeno negli obiettivi, a tutti i programmi elettorali. Il primo (sottolineato anche ieri a Roma nel convegno in ricordo di Marco Biagi) è quello delle politiche attive, senza le quali tutte le ricette presentate per correggere le attuali traiettorie del mercato del lavoro (prime tra tutte quelle che vogliono intervenire nuovamente sui contratti) risultano vecchie e ancorate ad un paradigma economico del passato.

Questo tema, sul quale si è respirata una certa vaghezza in campagna elettorale, potrebbe essere il primo elemento sul quale confrontarsi, a partire dal tentare di correggere un processo iniziato nella scorsa legislatura che, per ragioni varie, stenta a decollare. Il secondo capitolo è quello dell’innovazione, che passa inevitabilmente dall’implementazione e dal completamento del piano Impresa 4.0. Siamo di fronte ad un nodo cruciale, perché quello della tecnologia, dell’automazione, degli algoritmi è un tema che in un clima nel quale l’esclusione e il rischio di emarginazione pesano particolarmente nel generare insicurezza, riflettendosi poi sulle scelte elettorale. L’urgenza è quella di completare, dopo gli investimenti che volenti o nolenti sono avvenuti, gli interventi sul fronte del mercato del lavoro e delle competenze, concependoli all’interno del più ampio capitolo delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi.

Questo potrà passare da una seria riflessione sui nuovi modelli organizzativi e soprattutto sulle moderne tutele, a partire dalle sfide di una demografia che cambia e dei salari che, per colpa di una bassa produttività ma non solo, non crescono. Proprio in un contesto come quello attuale, dove la politica pare incerta e senza risposte, è il momento per gli attori sociali di riprendere il loro ruolo di protagonisti nella guida del cambiamento.

Un utile passo in questa direzione, sebbene ancora troppo limitato a molte dichiarazioni d’intento, è certamente il patto della fabbrica siglato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, che conferma il protagonismo dei corsi intermedi dopo la breve ed illusoria stagione della disintermediazione.

Sono i corpi intermedi cui è ora affidato un ruolo di responsabilità, a partire dalle esigenze dei singoli territori, soprattutto i più emarginati. La circostanza di avere un patto unitario sul fronte del lavoro e delle imprese rassicura e mostra un esempio concreto della possibilità che, nonostante tutto, ci si possa concretamente impegnare nel perseguimento del bene comune.

Avvenire

Vite digitali. L’assurda sfida tra «tecno ottimisti» e «tecno scettici»

Sul fatto che gli strumenti digitali siano parte delle nostre vite, c’è poco da discutere. Ciò che invece andrà studiato ancora per molto è il nostro rapporto con le tecnologie. A partire dallo spirito con il quale le guardiamo e le approcciamo.

Secondo la ricerca We Are Social, il 53% degli italiani crede che le nuove tecnologie offrano più opportunità che rischi; il 47% invece nutre da pochi a molti dubbi. Siamo un Paese diviso quasi a metà tra «tecno entusiasti» e «tecno scettici». I primi sono quelli che corrono a comprare ogni novità, che sanno sempre tutto prima di tutti. Sono quelli che credono che tutto ciò che è nuovo è automaticamente bello, che il digitale rende la vita meravigliosa e che senza Internet il mondo sarebbe molto meno divertente, informato e libero.

I «tecno scettici» invece sostengono che il digitale sta modificando in peggio i nostri cervelli, ci rende pigri, ci illude di avere relazioni reali con migliaia di persone quando nella realtà – secondo Dunbar – gli amici veri sono mediamente 4 o 5 per ognuno di noi e il massimo numero degli amici superficiali possibili è di 150. Tutti gli altri sono conoscenti o illusioni. I «tecno scettici» pensano anche che siamo e saremo sempre di più pedine nelle mani di pochi colossi che usano le nostre privacy e ogni nostra traccia digitale per diventare sempre più ricchi. Per non parlare del fatto che essere costantemente connessi e disturbati da notifiche di tutti i tipi aumenta in noi l’ansia e il senso di inadeguatezza. E più si cresce e più ci si sente tagliati fuori dal mondo tecnologico. Cosa che fa molto felici i ragazzi, i quali, per la prima volta dall’inizio del mondo, si trovano a possedere la conoscenza e ad essere gli insegnanti dei propri genitori.

A seconda della nostra posizione, «tra gli entusiasti» o «gli scettici», saremo portati inevitabilmente a dare più ascolto alle informazioni pro o contro il digitale che confermano i nostri pregiudizi. Per cui, solo per stare alle notizie degli ultimi giorni, ci fa piacere leggere che Facebook sia in crisi. «In questi primi 74 giorni del 2018 solo il 30% degli iscritti ai social ha postato nuovi contenuti (fonte WSJ)» hanno scritto alcuni giornalisti ieri su Twitter. Il WSJ è il Wall Street Journal, uno dei giornali economici più importanti del mondo. Solo che sul WSJ non c’è traccia di questa notizia. Da dove arriva? Da un comunicato stampa di ieri che citava non precisati articoli e studi sui social per lanciare un sito di incontri online. Valore zero. Anzi, meno di zero. Ma siccome fa colpo, via con i tweet e con le citazioni che non esistono. E ancora: viva la Gran Bretagna che vuole limitare l’uso dei social a poche ore al giorno per evitare che i ragazzi perdano il loro tempo lì. Peccato che se un divieto simile fosse applicato (facciamo volutamente un esempio un po’ folle) all’uso dei motorini, che ogni anno mietono purtroppo decine di vite anche tra i ragazzi, reagiremmo con forza o almeno ci verrebbe da sorridere per l’assurdità.

Ma allora perché questi annunci e questi studi improbabili ci fanno piacere e ci crediamo? Uno dei motivi più banali è che molti adulti hanno paura del digitale. Perché lo conoscono poco. E quello che conoscono spesso si basa su articoli che citano studi universitari di strane università, basati su campioni statistici magari ridicoli. Cerchiamo risposte ai nostri dubbi e alle nostre paure e le vogliamo subito. Odiate i social? Sul web troverete decine di ragioni e di «studi» per farlo sempre di più. Credete ciecamente nella tecnologia e troverete altrettanto materiale a favore.

Come diceva lo scienziato Hawking, celebrato anche sui social in questi giorni, «il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza». E in questo sì che la Rete è davvero pericolosa. Perché ci dà l’illusione di sapere senza studiare. E di poterci schierare tra i «tecno ottimisti» o i «tecno scettici» senza nemmeno fare troppa fatica ma con una superficialità che porta solo danno.

avvenire

Carceri. Via libera del governo alla riforma dell’ordinamento penitenziario

Il ministro Orlando davanti a Palazzo Chigi al termine del consiglio dei ministri

Il ministro Orlando davanti a Palazzo Chigi al termine del consiglio dei ministri

Via libera del Consiglio dei ministri alla riforma dell’ordinamento penitenziario che allargherà la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere per i detenuti. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il testo ora dovrà tornare alle commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio. A fine febbraio il governo aveva varato in via preliminare i primi tre decreti attuativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, quelli su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa. Proprio per il completamento della riforma dieci giorni fa giuristi e associazioni avevano sottoscritto un appello al governo.

La riforma dell’ordinamento penitenziario, ha spiegato il ministro Orlando, «serve ad abbattere la recidiva.Attualmente vengono spesi ogni anno quasi 3 miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa». Dalle statistiche, infatti, di cui il ministero della Giustizia ha tenuto conto nell’elaborazione della riforma, emerge che per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’1% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo.

Rafforzare le misure alternative al carcere, ponendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto – tranne per chi si è macchiato di delitti di mafia e terrorismo – con il vaglio, caso per caso, della magistratura di sorveglianza, con l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva. È il punto centrale della riforma dell’ordinamento penitenziario, basata sui lavori degli Stati generali per l’esecuzione penale voluti dal Guardasigilli Andrea Orlando e conclusi nell’aprile 2016.

«Questo non è un provvedimento salva-ladri, uno svuota-carceri: da domani non ci sarà nessun ladro in più in giro»., ha ribadito il ministro della Giustizia dopo il Consiglio dei ministri che ha dato il via libera alla riforma dell’ordinamento penitenziario. «Qualcuno – ha aggiunto – tenterà di cavalcare queste paure. Ma da domani non uscirà nessuno dal carcere, da domani un giudice potrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società».

Il testo sull’ordinamento penitenziario «potrebbe passare ora alla commissione speciale», ha spiegatoAndrea Orlando, specificando che «questa è una valutazione che sarà fatta dai Rapporti con il Parlamento». In attesa che si costituisca una maggioranza in grado di dare vita alle commissioni parlamentari di merito una delle ipotesi, per avviare rapidamente i lavori delle Camere, è quella infatti di istituire due commissioni speciali, una per ciascun ramo del Parlamento, con il compito di esaminare i provvedimenti urgenti. Già in avvio della precedente Legislatura, nel 2013, è stata questa la strada individuata per l’esame del Documento di economia e Finanza. E l’ipotesi è tornata in auge proprio in vista dell’esame del Def, che il governo dovrebbe presentare entro il 10 aprile.

Il nuovo via libera del Consiglio dei ministri alla riforma dell’ordinamento penitenziario «è sicuramente una buona notizia, ma c’è
ancora da fare pressione
e da non allentare la tensione poichè, in questa fase post-elettorale, i tempi potrebbero dilatarsi e la delega decadere. C’è infatti tempo fino ad inizio luglio per approvarla», ha dichiarato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. La pensa diversamente il segretario della Lega Matteo Salvini: «Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!». «Ancora una volta l’arroganza del Pd produce l’ennesimo atto scellerato – tuona il senatore forzista Maurizio Gasparri – contro gli agenti che lavorano nelle carceri e a favore di chi invece ha commesso reati ed è in carcere per scontare la propria pena».

Avvenire

CALCIO, ANCELOTTI: NAZIONALE? NE PARLIAMO A GIUGNO SERIE A: JUVE TENTA DI CONSOLIDARE IL VANTAGGIO SUL NAPOLI

Carlo Ancelotti prende tempo per decidere sul ruolo di ct della Nazionale. “Aspetteremo giugno”. Oggi gli anticipi di Serie A, la Juventus tenta di consolidare il vantaggio sul Napoli in vetta alla classifica. In campo anche Udinese-Sassuolo. Champions League, urne amare per le italiane ai quarti: la Juventus pesca il Real Madrid, la Roma il Barcellona. Meglio in Europa League per la Lazio, che trova il Salisburgo.(ANSA).