Schizofrenia. Viaggio nel pianeta oscuro, dove le famiglie sono lasciate sole

I malati in Italia sono 245mila. A curarli, h24, genitori fratelli e partner. Che lasciano il lavoro, sono a rischi povertà e si isolano per la vergogna. Il rapporto del Censis

Viaggio nel pianeta oscuro, dove le famiglie sono lasciate sole

Le voci, la confusione, la rabbia. Inizia piano, il male oscuro, e poi diventa padrone, finisce per spaccare il cervello. Significa proprio questo, schizofrenia. E succede a 245mila italiani. Curarsi si può, esistono farmaci efficaci e innovativi, come quelli “a lunga durata d’azione”: iniezioni che hanno la durata di 3 mesi, e prevedono solo 4 somministrazioni all’anno, risolvendo il problema di doversi ricordare quotidianamente di assumerli. Per questi pazienti, una vera svolta offerta dalla medicina negli ultimi anni.

Tutto il resto, però, è e resta complicatissimo. Per loro, e per chi se ne prende cura. Come per tutte le altre disabilità in Italia, soprattutto per quella mentale l’assistenza ai malati di schizofrenia pesa quasi per intero sulle spalle dei familiari. I dati sono allarmanti e a raccoglierli ha pensato il Censis, con un’indagine intitolata «Vivere con la schizofrenia: il punto di vista dei pazienti e dei loro caregiver» e realizzata su un campione di 160 pazienti con diagnosi di schizofrenia e 164 loro familiari. A occuparsi degli schizofrenici principalmente sono i genitori (54,8%), un fratello o una sorella (19,1%), il partner (11,5%) e il ricorso a personale esterno è limitato – complice la vergogna per la malattia – a poco meno dell’8% dei casi. L’impegno richiesto è tuttavia particolarmente gravoso e si divide tra ore dedicate all’assistenza (in media i caregiver dedicano a queste funzioni 12,3 ore della giornata) e alla sorveglianza (12,8 ore in media).

Ma c’è di più. Ci sono le sollecitazioni emotive e la fatica fisica legata all’attività di assistenza del malato, che determinano ricadute di diverso tipo. Così il 63% dei caregiver si sente fisicamente stanco, il 43,5% non dorme a sufficienza, il 23,2% è dovuto ricorrere a supporto psicologico.

E ancora, il 37,8% (quasi 4 caregiver su 10) ha modificato alcuni aspetti della propria vita lavorativa, con un impatto che per molti si è tradotto concretamente nell’abbassamento del proprio livello reddituale. In particolare: il 24,5% è andato in pensione anticipata, il 15,1% ha rinunciato alla ricerca di un lavoro e si è dedicato interamente all’assistenza del familiare. E ancora, la malattia infetta anche la coesione familiare: per il 57,6% dei caregiver le necessità di assistenza del malato hanno determinato malcontento tra i componenti del nucleo familiare, il 32,6% segnala frustrazione per non riuscire ad adempiere appieno ai propri doveri familiari e il 17,4% segnala un impatto anche sulla propria relazione di coppia.

A una situazione così drammatica si affianca l’isolamento sociale dei malati, su cui i dati sono altrettanto spietati. La schizofrenia si presenta in giovane età, tra i 15 e i 35 anni, e divora tutto: l’attività lavorativa (il 47,2% di chi lo aveva lo perde), la scuola (il 33,8% la lascia), gli affetti (l’80% dei pazienti non ha partner). Le conseguenze in termini personali sono poi drammatiche: a fronte del 59,7% che indica di aver ricevuto attestati di solidarietà da parte dei propri conoscenti, sono prevalenti le esperienze di frustrazione, disagio ed emarginazione (il 75,2% nasconde o non parla a nessuno della sua malattia, il 70,5% si sente discriminato, il 63,8% teme che i sintomi diventino evidenti in certe circostanze).

«Non è dunque un caso che le aspettative nei confronti del sistema dei servizi – spiega Ketty Vaccaro, responsabile dell’area Welfare e salute del Censis – si focalizzino proprio sullo sviluppo dell’inserimento lavorativo e delle attività di socializzazione, per rendere possibile una convivenza con la patologia sempre più accettabile e meno penalizzante». Sconfortante anche il dato sul ritardo nelle diagnosi: poco più di un paziente su quattro ha ricevuto la diagnosi di schizofrenia alla prima visita (il 27,2%), mentre il 15,2% dopo oltre cinque controlli, il 12,6% dopo tre o quattro consulti medici, il 7,9% dopo il secondo incontro. Un percorso a ostacoli – da compiere senza risposte e soprattutto senza cure – che mediamente dura 3 anni.

«Noi, infermieri di nostro figlio a 80 anni»

Li ha vissuti tutti, i numeri del Censis sulla schizofrenia, Luciano Prando. Che da oltre trent’anni si occupa di malattie mentali perché da oltre trent’anni suo figlio è malato. «Il male è arrivato che ne aveva 15. In due mesi l’ha inghiottito con tutto il suo furore. E per noi la diagnosi non è stata certo il problema, il problema è stata la cura». I farmaci giusti, quelli che alla famiglia Prando hanno permesso di tornare a una pseudonormalità, «sono arrivati soltanto negli anni Novanta. Con quelli abbiamo ricominciato a ragionarci, con nostro figlio». Ragionare con tutto il resto invece «è quasi impossibile. Viviamo come su un lago ghiacciato, da una parte cede, dall’altra ti tiene, poi dove ti teneva cede».

Una foto di Franco Basaglia, lo psichiatra a cui si deve la famosa legge 180 del 1978 che ha imposto la chiusura dei manicomi e regolato il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo servizi di igiene mentale pubblici. L’intenzione della legge era quella di favorire terapie che non ledessero la dignità e la qualità di vita dei pazienti, che nei vecchi manicomi venivano spesso trattati con elettroshock e terapie farmacologiche decisamente invasive

Una foto di Franco Basaglia, lo psichiatra a cui si deve la famosa legge 180 del 1978 che ha imposto la chiusura dei manicomi e regolato il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo servizi di igiene mentale pubblici. L’intenzione della legge era quella di favorire terapie che non ledessero la dignità e la qualità di vita dei pazienti, che nei vecchi manicomi venivano spesso trattati con elettroshock e terapie farmacologiche decisamente invasive

Luciano Prando è nel direttivo dell’Arap, l’Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica fondata nel 1981 da un gruppo di famiglie dei malati di mente: «Non forniamo servizi – racconta –, ma rappresentiamo nei diversi organismi istituzionali il punto di vista e i diritti dei nostri figli. Io lo faccio in Emilia Romagna». E la situazione di queste famiglie va sì rappresentata, «forse urlata, perché siamo soli. Perché nessuno si è ancora posto il problema di come due genitori ottantenni possano prendersi cura di un figlio 50enne, come il nostro, e coi problemi del nostro». Niente lavoro, ovviamente. Niente rapporti. Senza contare che le famiglie come quella di Luciano, della schizofrenia, non parlano.

L’Arap lo sa bene: in occasione di un sondaggio tra gli iscritti per la legge sul Dopo di noi «non ci ha risposto quasi nessuno. Non vogliono sapere nulla, non vogliono far sapere». Questa vergogna spesso porta anche alla scelta di non rivolgersi alla sanità pubblica per la cura e l’assistenza: «Quelli che lo fanno d’altronde si scontrano con le lacune del Sistema sanitario: pochi psichiatri, pochissime visite, percorsi di cura troppo brevi e spesso superficiali». Niente da stupirsi se è vero, come ricorda Prando, che in spese psichiatriche l’Italia investe il 3,5% del suo budget sanitario, contro il 12 e il 15% di Francia e Germania. Soli e dimenticati: «Questo fa più male della malattia dei nostri figli».

da Avvenire

Lettere. «Quarant’anni e ancora precaria. E ciò che è perso lo è per sempre»

Lettera ad Avvenire

Caro Avvenire,
troppe volte mi viene da pensare a cosa proverei se avessi un lavoro dignitoso che mi consentisse di guardare al futuro senza paure. Ho sempre provato ad immaginare il sentimento che mi avrebbe animato se ciò fosse successo, ma questo purtroppo non è mai successo. E gli anni sono passati… . Ne sono passati troppi. Oggi mi ritrovo a 40 anni ad essere ancora precaria, con quella sensazione terribile di pensare che ormai ciò che di buono poteva esserci non c’è stato, quella sensazione terribile che, se sei stata precaria fino a quel momento, non avrai nessuna possibilità di non esserlo nei prossimi anni, quella sensazione terribile che a tutto ciò cui hai rinunciato – compreso un altro figlio – ci hai rinunciato per sempre. Se prima potevi almeno sognare, sperare… ora ti tocca raccogliere soltanto i cocci di quello che rimane. Governo e Parlamento continuano a concedere agevolazioni alle aziende che assumono giovani fino ai 35 anni. Io comprendo tutto, ma non comprendo il futuro che il Governo ha pensato per chi 35 anni non ce li ha più, e magari un lavoro lo ha perso, per chi ha dei figli da crescere, da far studiare, un mutuo o un affitto da pagare, una casa da mantenere, per chi ogni giorno deve fare i conti con il poco lavoro, i pochi soldi, e le tante rinunce per sé e per i propri figli. Chi si candida a governare il Paese che progetto ha per noi? Per noi che abbiamo deciso di far nascere e crescere i nostri figli in Italia? Per noi che abbiamo creduto in un Paese capace di creare condizioni di vita dignitosa per i propri cittadini? Per tutti i cittadini. Davvero si può pensare che un genitore possa tornare a fare il figlio? A chiedere aiuto ai propri genitori? Davvero si può pensare che una mamma non si senta umiliata nel vedere che i tuoi genitori ti danno un aiuto economico spacciandolo come regalo di Natale? Davvero si può pensare che tutto questo non abbia ripercussioni psicologiche sui nostri figli, che vivono quotidianamente un disagio economico che si traduce anche in un disagio familiare e affettivo? Non ci si può meravigliare se poi i nostri figli decideranno di scappare da qui, avendo vissuto magari un’infanzia e un’adolescenza intrisa di quel senso di ingiustizia sociale che hanno respirato attraverso l’amarezza dei propri genitori. Io non chiedo di avere dei canali preferenziali. Chiedo solo di giocare ad armi pari. Non limitateci ulteriormente. A limitarci ci pensa già la nostra età che viene annotata nei curriculum vitae. È talmente limitante che il resto del curriculum non viene neanche preso in considerazione. Penso che a 40 anni abbiamo ancora il diritto di lavorare e di dare ai nostri figli una vita dignitosa. In altre parole, abbiamo diritto alla dignità, perché chi è precario nel lavoro, è precario anche nella vita. In fondo pretendo solo quello che la Costituzione mi ha promesso da 70 anni: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Carmela Di Carlo Potenza

Era il 1995 e Jeremy Rifkin aveva appena pubblicato il suo famoso “La fine del lavoro”, dove teorizzava una rivoluzione nel mondo industriale e nel terziario e nuovi tempi e modi di accesso al lavoro. “Avvenire” mi mandò a intervistare un sociologo, docente universitario, per capire in concreto quali cambiamenti ci si dovesse aspettare. Il professore mi spiegò del lavoro interinale, a termine, insomma della fine del posto fisso e dell’avvento del precariato, di cui allora ancora non si parlava. Rimasi perplessa: ma senza un contratto fisso, gli chiesi, chi si avventurerà a avere una famiglia, dei figli, o semplicemente a fare un mutuo per la casa? Ci si abituerà, replicò ottimista il professore, per i giovani sarà normale passare da un posto all’altro, senza garanzie. Sono passati più di vent’anni e la signora Di Carlo fa parte della generazione che ha affrontato il precariato. Ora ha quarant’anni ed è ancora precaria: e essere precari nel lavoro, scrive, significa esserlo nella vita. Questa lettera è la testimonianza di un dramma generazionale. Un secondo figlio cui si è rinunciato, nell’ansia di non poterlo mantenere – è anche questa, l’Italia delle culle vuote. E chissà quali altri progetti mancati. Da ragazzi, scrive la signora, si può ancora sognare; a una certa età, restano i cocci. La malinconia di dover accettare un aiuto dai genitori, ancora; l’ansia continua di non farcela. È giusto che la legge incoraggi le assunzioni degli under 35 – nella speranza che almeno questa generazione possa costruirsi una famiglia e un futuro, prima di essere costretta, come già fanno in tanti, a emigrare. Ma, e i ragazzi che avevano vent’anni nel 2000, quelli rimasti precari ad oltranza? Ora la loro data di nascita nei curriculum è già un elemento per scartarli. Occorre, per equità, pensare anche a loro, rimasti a metà fra i padri, supergarantiti, e i fratelli minori cui oggi, resisi conto di quale problema è il precariato, si cerca, con fatica, di dare aiuto. Nel dramma del lavoro che manca, un’ulteriore urgenza: quelli che a 40 anni per il mercato sono “vecchi”, ma il tempo di progettare e di costruire non lo hanno avuto, in questa Repubblica, recita la Costituzione, «fondata sul lavoro». Questa del creare lavoro dovrebbe essere l’urgenza che preme tutti i candidati alle prossime elezioni. Lavoro, e quindi progetti, famiglia, figli, futuro. Per questo abbiamo messo a tema la questione sulle nostre pagine. E lo faremo ancora. Perché sentiamo soprattutto tante promesse di tasse abolite, di “sconti” e altri gadget propagandistici. L’urgenza che brucia, con la famiglia, è il lavoro.

Monsignor Ganapini compie 90 anni: festa in Madagascar

Originario di Pantano di Carpineti, don Pietro vive e opera come missionario nella Casa della Carità di Tongarivo

CARPINETI (Reggio Emilia) – In Madagascar, nella Casa della Carità di Tongarivo (nella periferia della capitale, Antananarivo) sono stati festeggiati i 90 anni di monsignor Pietro Ganapini. Con lui le carmelitane minori e i fratelli della carità, i missionari diocesani, i volontari e gli ospiti della struttura Tongarino è stata la prima casa aperta in Madagascar l’11 febbraio 1969.

Da quasi 57 anni mons. Pietro Ganapini, nato a Pantano di Carpineti il 19 gennaio 1928, sacerdote dal 1950, è missionario diocesano “fidei donum” in Madagascar. Partì dalla nostra diocesi per la grande isola rossa dell’Oceano Indiano il 20 novembre 1961 durante l’episcopato di Beniamino Socche, che lo aveva ordinato presbitero.

La sua ultima visita in Italia risale all’estate del 2016; il 6 settembre, quasi ottantanovenne, ripartì nuovamente per il Madagascar: nella vasta diocesi di Antananarivo – la capitale – sta continuando la sua preziosa e instancabile opera in campo educativo. In oltre undici lustri ha costruito per i poveri nelle campagne ben 80 scuole soprattutto primarie, ma nella parrocchia di Ambinidia, dove ha lavorato per 32 anni, ha anche realizzato una scuola media e un liceo. Migliaia sono ormai le bambine e i ragazzi che tramite queste preziose istituzioni hanno vinto l’analfabetismo.

In occasione del genetliaco, il vescovo Massimo ha fatto pervenire al missionario un messaggio augurale in cui sottolinea che il suo 90° compleanno non poteva rimanere una circostanza strettamente privata: infatti riguarda e riempie di gioia tutta la Chiesa reggiano-guastallese. “Con i tuoi 90 anni di vita, di cui quasi sessanta in Madagascar, primo “fidei donum” della Diocesi, per noi sei il patriarca della missione. E alzando gli occhi al cielo, come il padre Abramo, puoi contemplare una moltitudine numerosa come le stelle: penso al popolo dei Malgasci che, diventando uno di loro, hai aiutato a conoscere e credere in Gesù, hai aiutato a celebrare e cantare la fede, a vivere la gioia della comunità cristiana, hai sfamato e aiutato a ritrovare la dignità e la speranza nel futuro con le scuole che portano il tuo nome, disseminate nella Diocesi della Capitale”. 

da reggionline.com

Scuola: al via terza edizione concorso ‘Fotografi di classe’

(ANSA) – ROMA, 31 GEN – E’ arrivato alla terza edizione ‘Fotografi di classe”, il concorso fotografico annuale promosso dall’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, con il sostegno di De Agostini Scuola e Fondazione Italia Patria della Bellezza per la diffusione dell’educazione e della cultura geografica e ambientale, ma anche dell’educazione al confronto e all’incontro. Luoghi, scuola, dialogo, socialità, inclusione sono le parole chiave del concorso, quest’anno dedicato a “I luoghi dell’incontro. Gli spazi della socialità e del dialogo nell’Italia di oggi”. L’obiettivo, spiegano in una nota gli organizzatori, è “di sollecitare gli studenti e le studentesse ad andare oltre la pura percezione visiva, osservando criticamente il paesaggio dei luoghi in cui vivono e che conoscono, attraverso la scuola e l’impegno dei propri docenti, per accrescere la consapevolezza del valore del paesaggio come bene comune”. Al concorso possono partecipare classi delle scuole di ogni ordine e grado. Sono istituite, tre categorie di partecipanti: classi quarte e quinte della Scuola primaria; classi di suola secondaria di primo grado; classi di scuola secondaria di secondo grado. Una giuria tecnica e una giuria popolare social selezioneranno i migliori scatti (tre vincitori per ogni categoria) a cui saranno assegnati premi e menzioni (pubblicazione a carattere geografico della Casa Editrice De Agostini; una fotocamera digitale offerta da Italia Patria della Bellezza; un abbonamento annuale alla Rivista dell’AIIG per i docenti referenti; medaglia o coppa dell’AIIG). Le immagini fotografiche dovranno pervenire tramite email all’indirizzo: concorsofotoaiig@gmail.com, entro e non oltre il 20 aprile 2018.(ANSA).

Medicina. Tumori del fegato, si testa vaccino terapeutico sull’uomo

L’Istituto Pascale di Napoli

L’Istituto Pascale di Napoli

Da ieri è pienamente operativo all’Istituto nazionale dei Tumori ‘Pascale’ di Napoli e all’Ospedale ‘Sacro Cuore Don Calabria’ di Negrar ( Verona), lo studio clinico di fase 1 e 2 che valuta un vaccino terapeutico contro il tumore del fegato. È l’unica sperimentazione del genere in atto nel mondo. Il prodotto si chiama Ima970A, è specifico contro l’epatocarcinoma ed è il frutto di un investimento dell’Unione Europea che, con 6 milioni di euro, ha finanziato lo studio ‘Hepavac-101’, di cui è capofila il Pascale. Gli obiettivi: indurre nei malati una risposta immunitaria che favorisca un’ulteriore regressione della malattia dopo le terapie tradizionali; ritardare il ripresentarsi del cancro dopo le stesse; o determinare – è l’auspicio più grande dei ricercatori – l’abbattimento delle recidive.

L’Italia è affiancata, in questa prima parte del progetto, da ospedali britannici, tedeschi, francesi, spagnoli e belgi. L’arruolamento dei primi pazienti, con malattia in fase iniziale, è partito. «Lo stiamo preparando dal 2013 – spiega il coordinatore scientifico del progetto, Luigi Buonaguro, responsabile della Struttura dipartimentale di Immunoregolazione dei tumori del Pascale di Napoli –. Siamo fiduciosi e contiamo di poter avere le prime risposte entro giugno 2019». Le fasi 1 e 2 dell’iter riguardano la tollerabilità del vaccino e la sua capacità di indurre una risposta immunitaria dopo che la malattia ha mostrato una regressione grazie alle terapie tradizionali (intervento chirurgico, termoablazione o ablazione mediante radiofrequenza e microonde, chemioembolizzazione, radioembolizzazione).

«Le prime due fasi sono molto delicate – riprende Buonaguro –, ecco perché, tra tutti gli ospedali coinvolti, pensiamo di verificarle con una quarantina di pazienti. Non vogliamo indurre facili entusiasmi ma se, come speriamo, al termine di questi 18 mesi, tutto dovesse procedere come da previsioni, ci inoltreremo con vivo ottimismo nella fase 3 della sperimentazione, e cioè quella che serve a verificare l’efficacia del trattamento e per la quale i pazienti saranno molti di più. Del resto – aggiunge il ricercatore –, per il tumore del fegato, terza causa di morte per cancro nel mondo, le opzioni terapeutiche dopo il primo trattamento sono molto limitate e la sopravvivenza, a 5 anni dalla diagnosi, stante il ripresentarsi della malattia, è limitata al 20%. Ecco perché occorre insistere con la ricerca».

È quanto si sta facendo, in collaborazione con l’Università dell’Insubria, anche nell’Ospedale di Negrar (struttura della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, fondata nel 1933 da san Giovanni Calabria), dove l’Oncologia medica è diretta da Stefania Gori, neopresidente dell’Associazione italiana di oncologia medica: «Ima970A – dice – è un vaccino a base multipeptidica. I peptidi contenuti nel vaccino sono selezionati dal tessuto tumorale di epatocarcinomi provenienti da centinaia di malati. I pazienti vengono sottoposti ad esami di screening per verificare l’idoneità a partecipare allo studio, prima di ricevere il trattamento locale standard. I soggetti che, dopo il trattamento locale, non presentano evidenza di tumore, riceveranno il trattamento sperimentale. Questo è un campo affascinante della ricerca – conclude Gori –, confidiamo possa offrire risposte importanti».

avvenire

Corridoi umanitari. Italia, Francia, Belgio, Andorra: l’Europa che accoglie i siriani

Italia, Francia, Belgio, Andorra: l'Europa che accoglie i siriani

Ieri a Parigi, oggi a Roma, la prossima settimana a Bruxelles. E prossimamente anche ad Andorra nei Pirenei. Il modello di accoglienza dei corridoi umanitari inventato e gestito ecumenicamente da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e Tavola Valdese sta diffondendosi in Europa, dimostrando che è possibile, per chi viaggia e per chi accoglie, un’alternativa sicura ai viaggi della disperazione.

Stamattina all’aeroporto di Fiumicino sono atterrati con un volo Alitalia da Beirut 31 profughi siriani, selezionati tra i casi più vulnerabili dai volontari dell’operazione Colomba dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Arrivano dai campi profughi libanesi dove sono fuggiti da Homs, Damasco, Aleppo. Hanno lasciato baracche di fortuna in cui hhanno vissuto molti mesi, spesso diversi anni . Un gruppo che si va ad aggiungere ai mille arrivati in due anni, dal 4 febbraio 2016, e inaugura l’accordo rinnovato dai promotori con i ministeri dell’Interno e degli Esteri per far arrivare altrettante persone. A farsi carico, anche economicamente, dell’accoglienza e dell’integrazione saranno anche stavolta parrocchie, famiglie, associazioni. Questi 31 sono stati smistati tra Roma, Trento, la provincia di Arezzo, l’Umbria e le Marche.

Accolti anche da Francia, Belgio e Andorra

Ieri ne erano arrivati 40 all’aeroporto Charles De Gaulle, grazie ad un accordo con Parigi sempre di Sant’Egidio e delle chiese evangeliche francesi. In Francia è il terzo gruppo. In Belgio ne è atteso un secondo, dopo il primo arrivo del 23 dicembre. E anche Andorra, il minuscolo stato tra Francia e Spagna, sta per concludere un progetto analogo che ne porterà una trentina.

Giro: «I corridoi sono un modello che funziona bene»

A dare il benvenuto ai 31, di cui 16 minorenni, sono il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, il presidente della Fcei, pastore Luca Maria Negro, il viceministro degli Esteri Mario Giro, il sottosegretario Vincenzo Amendola. Il gruppo dei bambini entra sventolando bandierine, al grido «Viva l’Italia».

«I corridoi umanitari sono un modello che funziona bene, nato da un’idea e dalla volontà di rispondere, in maniera ragionevole ed efficace, al dramma della guerra», dice all’aeroporto di Fiumicino, il viceministro MarioGiro. «I corridoi – aggiunge – sono un brand ricopiato da altri. E anche il nostro Governo lo ha adottato per la Libia. È una risposta che ci dimostra che, tra esseri umani, non c’è differenza. Molti, per fuggire dalla sofferenza e dalla guerra, sono morti in mare o nel deserto: chi oggi è qui lo è anche nel nome di chi non c’è più». Giro poi sottolinea che «chi è arrivato oggi raggiungerà già le loro famiglie che sono integrate: se accompagnata e spiegata, l’integrazione funziona molto bene e gli italiani reagiscono positivamente, nella piena sicurezza di chi accoglie e di chi arriva».

«Questa è la bella politica che si occupa dei problemi e del bene comune delle persone – dice Marco Impagliazzo– in questo caso, della protezione umanitaria e di persone che fuggono dal freddo delle baracche e dalla guerra che, dobbiamo ricordare, in Siria ancora c’è, non è finita anche se ne parla molto di meno». Parlando dei precedenti arrivi, Impagliazzo sottolinea come «l’integrazione nella società italiana, distribuita su tutto il territorio tra famiglie, parrocchie, associazioni, è stata piena e funziona bene: i bambini sono iscritti a scuola, hanno imparato l’italiano e sono i primi mediatori. Queste persone ci fanno sentire migliori, fotografia di un’Italia bella che non chiude le porte e dà una risposta concreta. È un messaggio che diamo anche all’Europa, affinché si apra alle vie legali».

Un bambino subito ricoverato, una bimba operata

Tra i 31 c’è una famiglia con 5 figli, uno dei quali in barella perché affetto da una malattia rara. È stato portato subito all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Una volta stabilizzato, andrà con fratelli e genitori a Trento, accolto dal Centro Astalli. Il capoluogo trentino ospita già molti siriani arrivati all’inizio del progetto, grazie alla collaborazione tra la Diocesi e la Provincia autonoma. Un’altra bambina, arrivata con la mamma e un fratello, dovrà essere presto operata al cuore per una malformazione genetica.

«Vorrei incontrare chi mi ha salvato in mare»

Poi c’è Wesam Jahjah, druso, 35 anni, a Fiumicino per accogliere il fratello Nawras, la sorella Kefah e la mamma Salwa. Wesam è stato salvato dalla Guardia Costiera due anni fa: «L’ultimo timbro sul mio passaporto è del Sudan, poi sono passato in Egitto, quindi in Libia e poi dieci giorni in mare», racconta sorridendo l’ex profugo, in un ottimo italiano. Ora lavora come programmatore informatico per la gestione dall’Italia di grandi marchi italiani nei duty free shop. Vive a Montevarchi, in una casa famiglia della Caritas di Fiesole. Ora che è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, deve realizzare un altro sogno: «Voglio incontrare gli uomini della Guardia Costiera che mi hanno salvato. Mi ricordo tutto di quei momenti: era il 10 settembre 2014 e la nave era il pattugliatore Fiorillo 904». Non tutti qui però sono così accoglienti: «L’Italia vera non è fatta da quei partiti – dice – ma dai militari di Mare Nostrum, operazione santa come i corridoi umanitari, dalla gente che ci aiuta, dal parroco don Mauro Frasi che sta insegnando a me, druso, l’alfabeto della vita e dell’amore».

da Avvenire

Coppa Italia: Atalanta Juventus 0-1, decide Higuain

Basta un guizzo di Higuain in un buon primo tempo contro un’Atalanta poco brillante alla Juventus per fare sua di misura la semifinale di andata di Coppa Italia, ma i bianconeri di Allegri devono erigere un monumento a Buffon che abbassa la saracinesca su tiro dal dischetto e su azione risultando decisivo da neo quarantenne in vena di prolungamento di una straordinaria carriera. Bastano un paio di minuti al Pipita per prendere le misure a una difesa di casa un po’ statica impegnando Berisha defilato a sinistra e tre per insaccare bevendosi gli aspiranti marcatori – Masiello in primis – come birilli nella nebbia dopo aver recuperato palla sulla trequarti grazie al contrasto Khedira-de Roon.

All’ottavo Hateboer prende la linea di fondo per l’incornata stracca a campanile di Freuler, appena due giri di lancetta dopo la chiusura dell’olandese su Khedira servito da Douglas Costa in orizzontale. I bianconeri in kit giallo sembrano in pieno controllo, ma qualche break i nerazzurri se lo sanno concedere: al 18′ la sovrapposizione lungo la catena di destra consente a Toloi di pescare in area Cornelius, murato nel suo tentativo da Pjanic. Una cinquina di cronometro ed ecco la svolta che non concretizza: Benatia controlla di braccio la palla in mezzo di de Roon dai trenta metri, il Var dice rigore ma Buffon intuisce la mossa di Gomez e glielo para in due tempi distendendosi alla sua sinistra. È il terzo penalty sbagliato dal Papu dopo quelli di Firenze e Liverpool. Al 29′ Higuain riceve da De Sciglio e gira alto dal limite, un altro settebello e il terzino trova la sponda di Mandzukic per il sinistro di Matuidi di poco oltre il sette. Al 39′ Toloi chiude il francese sull’ennesima apertura dalla destra, stavolta del tedesco, rifinita dall’assist di Alex Sandro.

La ripresa propone Ilicic falso nueve al posto di Cornelius. Gomez telefona subito a giro rientrando dal vertice sinistro, ma i nerazzurri non riescono mai a pungere davvero. Al ventesimo, dopo la staffetta Costa-Bernardeschi, un angolo di Pjanic regalato da Castagne e respinto di testa da Masiello innesca Alex Sandro, sul cui cross Berisha si esibisce in un tuffo in presa per le telecamere. Al 28′ De Sciglio crossa per la testa di Mandzukic con la palla che si spegne a lato; scollinata la mezz’ora Gasperini fa uscire Cristante per l’esordiente Barrow (’98). Ilicic ci mette una girata stanca su cui Chiellini smorza facilmente, poi dentro anche Petagna per Gomez e Barzagli per Benatia. A due dal novantesimo l’ultima fiammata atalantina: il gambiano pesca Hateboer che si fa sbarrare la strada da Buffon, Alex Sandro respinge il tap-in di Freuler.

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