L’uomo è ancora al centro dell’universo?

in Settimana News

Nel contesto della presentazione degli Atti del 21° Seminario nazionale di gnomonica, raccolti in un ricco volume di 200 pagine, il 15 dicembre scorso all’Auditorium di Valdobbiadene è intervenuto come ospite il prof. Piero Benvenuti. Professore emerito di astrofisica all’università di Padova, Benvenuti è stato responsabile scientifico per l’Agenzia spaziale europea, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica e membro dell’Agenzia spaziale italiana. Nel 2015 è stato nominato segretario generale dell’Unione astronomica internazionale, carica che ricopre tuttora. Si interessa attivamente del dialogo tra scienza e teologia: è docente del corso su creazione ed evoluzione presso la Facoltà teologica del Triveneto di Padova e, nel 2011, è stato nominato da Benedetto XVI consultore del Pontificio consiglio della cultura.

– Prof. Benvenuti, viviamo un’epoca di grandi scoperte astronomiche che vede – ad esempio – i telescopi astronomici portati nello spazio. Non è vero?

Oggi il progresso dell’astronomia è legato soprattutto ad una strumentazione sempre più sofisticata. Da quando, negli anni ’60, si è cominciato ad utilizzare la tecnologia spaziale per portare i nostri strumenti osservativi al di fuori dell’atmosfera, è iniziata una vera rivoluzione: abbiamo visto fenomeni di cui non avevamo ipotizzato nemmeno l’esistenza.

Recentemente abbiamo assistito ad un grande evento: la recezione di segnali come le onde gravitazionali. Le aveva previste Einstein nella sua teoria della relatività generale ma non erano mai state viste perché talmente deboli da richiedere uno sviluppo tecnologico straordinario.

Il progresso della tecnologia ha permesso di capire qual è la storia del nostro universo e di pensare un modello cosmologico nuovo che mette l’uomo al centro dell’evoluzione: non più in senso geometrico, come nel modello aristotelico-tolemaico, ma come punto di arrivo di un percorso di 14 miliardi di anni.

– Oggi allora ha ancora senso occuparsi di “meridiane” solari?

In questo tempo ha ancora valore il sistema dello gnomone (l’asticella al centro della meridiana,ndr), che nella sua formulazione più semplice è un bastone piantato per terra che permette di seguire cosa fa l’ombra, a seconda del movimento del sole e delle stagioni. Questo strumento è legato alla cultura e alla tradizione di tutti i popoli del mondo: non c’è cultura e non c’è civiltà che non abbia sviluppato delle conoscenza di astronomia, a partire da quelle più semplici relative al sole. Il suo movimento, solo apparentemente è regolare, ma – come sa bene chi si occupa di meridiane – non è esattamente così: da qui si origina l’avventura dell’astronomia che nasce nell’antichità.

Guardare avanti attraverso i nuovi strumenti è fondamentale per capire sempre meglio il nostro universo; ma è necessario anche guardare indietro per recuperare la storia e affondare le radici nella nostra tradizione. Per questo è molto importante che ci siano anche oggi dei gruppi di appassionati che continuano a coltivare interesse scientifico per le meridiane.

scoperte astronomiche

– Lei ha menzionato le “onde gravitazionali”: perché questo risultato è così importante per la scienza?

Questa scoperta ha creato una grande emozione tra gli scienziati. Le onde erano state previste da Einstein, che aveva intuito che lo spazio – quello che noi intuitivamente conosciamo – non è inerte né assoluto o estraneo alla nostra presenza; ma si modifica per effetto della presenza della massa. Il sole, ad esempio, modifica lo spazio attorno a sé.

Questo fenomeno è stato provato per la prima volta durante un’eclissi di sole nel 1919. Allora gli astronomi fecero delle fotografie durante l’eclisse totale – il cielo si oscura e le stelle diventano visibili – alle stelle vicine al bordo del sole. La posizione delle stelle durante l’eclissi venne confrontata con la loro posizione quando il sole non c’era: notarono che la posizione era diversa, perché la luce proveniente dalla stelle, passando vicino al bordo del sole, veniva deviata. Scoprirono così che lo spazio si curva vicino alle grandi masse.

Una volta verificato questo fatto – incredibile all’epoca –, Einstein pensò che, se fosse stata spostata la massa, la perturbazione provocata si sarebbe propagata nello spazio, dando origine alle cosiddette onde gravitazionali. In sostanza, lo spazio vibra per effetto dello spostamento delle masse (che devono essere però masse molto concentrate).

– Una volta ammessa l’esistenza delle onde gravitazionali, si trattava di misurarle. Come?

Il problema era effettivamente rilevarle. Siccome queste onde sono delle vibrazioni, bisogna isolare il rilevatore da qualsiasi altra vibrazione. C’è stato un lavoro di quasi 70 anni di raffinamento della tecnologia per poter sentire queste onde e due anni fa è successo.

Per essere sicuri che si trattasse di onde gravitazionali e non di altre vibrazioni, i rilevatori sono stati collocati a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro: uno a Cascina (Pisa) e due negli Stati Uniti. Se il segnale viene visto esattamente nello stesso istante con le stesse caratteristiche dai tre rivelatori, c’è da aspettarsi che sia un segnale che viene dal cielo.

La grande novità di due mesi fa è che questa rilevazione è stata fatta non solo da strumenti che rivelano le onde gravitazionali, ma anche da strumenti spaziali che vedono i lampi gamma (i raggi gamma si emettono nelle esplosioni delle bombe atomiche, che sprigionano energie enormi, ndr): si son visti contemporaneamente un lampo gamma e un’onda gravitazionale. Così si è avuta la conferma di ciò che sta all’origine di questi fenomeni. In questo caso si tratta di due stelle compatte – stelle di neutroni – che diventano una sola: ruotando una attorno all’altra, alla fine “coalescono” cioè diventano una sola stella (probabilmente un buco nero). Da questo evento catastrofico c’è una grande emissione di energia e anche di onde gravitazionali.

– L’importanza è limitata all’interesse degli scienziati oppure anche i non esperti dovrebbero esserne interessati?

Sono cose difficili da comprendere. Cosa voglia dire che lo spazio si curva, si stenta a capirlo concretamente, ma questa è la natura del mondo reale. C’è una grande emozione nel mondo scientifico per queste scoperte, perché ci stiamo avvicinando sempre più ad un modello credibile e ricco di elementi in grado di descrivere la nostra realtà.

– Il modo di vedere il cosmo, secondo lei, ha un influsso nella cultura?

Con la rivoluzione copernicana, l’uomo ha scoperto di non essere al centro dell’universo ma in periferia e si è persa una visione unitaria del cosmo. Una vera cosmologia è riemersa solo negli ultimi 50 anni. Adesso sappiamo quali siano le caratteristiche del cosmo e tutto questo ha un’influenza sul nostro essere e sul nostro destino.

Una delle caratteristiche di questo nuovo modello è, prima di tutto, che il cosmo ha una storia: una storia che siamo stati capaci di ripercorrere per 14 miliardi di anni.

Noi uomini siamo all’estremità di questa storia ed emergiamo solo alla fine. Tutto questo fa pensare che non possiamo immaginarci come gli unici esseri pensanti dell’universo, ma diventa sempre più plausibile ipotizzare che la vita si sia sviluppata anche su altri pianeti. Sappiamo per certo che, attorno a tutte le stelle, ci sono dei sistemi planetari. Nei prossimi 20 anni potremo analizzare l’atmosfera dei pianeti delle stelle più vicine e quindi capire se ci sono delle tracce di vita biologica.

Credo che dovremo essere preparati a pensare che non siamo soli nell’universo. Anche se va detto subito che non ci sarà la possibilità di comunicare con questi esseri viventi perché le distanze e la velocità di propagazione delle informazioni, che è fissa ed è la velocità della luce, non ci darà la possibilità di un’interazione vera e propria. In ogni caso, pensare di non essere soli modifica e modificherà, ad esempio, il nostro modo di fare filosofia e teologia.

scoperte astronomiche

– Questi progressi scientifici quali sfide pongono alla teologia e alla scienza?

Dal punto di vista della teologia, credo che tutto questo richieda rapidamente un ripensamento e una reinterpetazione dei dogmi della fede, non per cancellarli ma per renderli più compatibili con quello che abbiamo appreso. Dal punto di vista della scienza, il pericolo costante è quello di una sorta di “divisionismo”, cioè vedere i fenomeni solo nel dettaglio e non nella globalità. Tutto questo rende il cosmo una sorta di “grande robot meccanico” dove tutto avviene per leggi necessarie. La teologia invece potrebbe offrire una visione globale.

– Torniamo alle meridiane. Si tratta di temi specialistici che rischiano di interessare una ristretta cerchia di studiosi oppure possono insegnare qualcosa a tutti?

Negli ultimi cento anni è avvenuta una trasformazione nel rapporto tra uomo e astronomia: la perdita della possibilità di osservare il cielo. Perdita nel senso che, se qualcuno ha avuto la possibilità di guardare il cielo da un deserto, sa che quella visione noi qui l’abbiamo persa. Da noi non c’è alcuna zona buia che ci permette di vedere quello spettacolo. Ci sono possibilità di recuperare qualcosa della visibilità del cielo stellato ma non avremo più quella visione.

Credo sia importante per i bambini crescere con una cognizione del cielo e dei fenomeni celesti. Il moto del sole si può seguire con attenzione e facilità. Mi piacerebbe che in tutte le scuole elementari si piantasse uno gnomone per terra e si portasse i bambini a vedere, giorno per giorno, che cosa succede: segnare dove passa l’ombra, a mezzogiorno, giorno dopo giorno…

Bisogna sfruttare queste conoscenze per educare ad osservare i fenomeni celesti, altrimenti guarderemo solo l’orologio o lo smartphone. Mi pare una grande opportunità da valorizzare: c’è davvero bisogno di chi conosce bene le meridiane. E auguro agli appassionati di collaborare soprattutto con le scuole.

– Hanno molto da insegnare anche i motti delle meridiane. Che ne pensa?

Sì, hanno un profondo significato che si radica nella nostra cultura. A questo proposito, come Unione Astronomica Internazionale, abbiamo il compito di dare il nome agli oggetti celesti. Ci siamo dati come criterio quello di dare dei nomi che affondino le radici nella cultura. Alcuni scienziati propongono dei nomi per certi versi banali. Noi insistiamo a non volerli, perché desideriamo che il cielo rifletta la nostra cultura. Recentemente 86 stelle, ben note, sono state nominate: abbiamo voluto dare dei nomi che provengono dalle tradizioni astronomiche cinesi, indiane e africane, per dare il senso del legame tra cielo e cultura dell’intera umanità.

Verità e Fake News: dal contenuto alla relazione

Francesco non sta invitandoci a promuovere solo messaggi buonisti, rassicuranti, consolatori. Ma anche nel nostre dire la verità ci chiede di amare

Il nucleo centrale, terribilmente spiazzante, del Messaggio di Papa Francesco dedicato alle Fake News è che un enunciato è vero solo in quanto non fomenta divisioni ma, al contrario, favorisce un dialogo costruttivo. Tirando il Pontefice per la veste, si potrebbe giungere a fargli affermare che un concetto non è vero in quanto tale, ma in quanto crea una relazione positiva al momento in cui è comunicato.

È un ragionamento paradossale che sposta volutamente l’attenzione dal contenuto dell’atto comunicativo alla relazione che s’instaura fra chi lancia il messaggio e chi lo riceve. Francesco lo spiega chiaramente nello stesso testo, quando afferma che affinché le nostre parole e i nostri gesti siano autentici, occorre ovviamente liberarli dalla falsità (e qui siamo quasi alla tautologia), ma soprattutto ricercare la relazione. Il Papa, ovviamente, sta parlando della verità cristiana, quella con la v maiuscola. Ma estende l’idea a ogni verità umana, così come deve avvenire nella vita incarnata di un credente in Cristo. La verità non si può raggiungere se non sulla base di un rapporto positivo (mi verrebbe da dire ‘d’amore’) con il mio interlocutore. Anche un fatto innegabile – specifica Papa Bergoglio – se è utilizzato per ferire qualcuno o screditarlo non è abitato dalla verità.

Quest’ultima deduzione suona già da sé quasi una contraddizione e sembra scardinare qualsiasi possibilità di un giornalismo d’inchiesta, guardiano appunto della verità, per scoperchiare le nefandezze dei potenti. Ma nella sua lettura cattolica della comunicazione il Papa ci sta dicendo in realtà come un messaggio che non persegua il buono e il bello, oltre che il vero – cioè non serva per fare del bene a qualcuno – non possa mai essere chiamato ‘Verità’. Così anche il giornalismo di denuncia sarà autentico solo se non mira semplicemente a seppellire il singolo nel fango, ma a favorire il bene comune.

Francesco sostiene in definitiva che la verità non può essere brandita come un’arma, ma deve avere un obbiettivo di salvezza. Non può trasformarsi in pietre da lanciare all’adultera. E qui appare chiaro come questa sua riflessione sul piano dei mass-media rimandi al suo magistero in campo pastorale e a un testo come l’Amoris Laetitia. Qualsiasi presunta verità o dottrina, ci dice il Papa, se non è utilizzata allo scopo di salvare un’anima, si svuota immediatamente della sua forza cogente e della sua autorità. Entra in contraddizione con sé stessa. La verità cristiana non può disseminare zizzania, contrasti, separazioni. Se ciò accade, è perché non è comunicata in modo autentico: è ‘veritas‘ priva di ‘caritas‘, verità senza misericordia.

Eppure, il Vangelo parla anche di una verità che divide, provoca, brucia. Una verità che produce persecuzioni e attacchi, nei confronti di chi l’annuncia. Ma Francesco non sta invitandoci a promuovere solo messaggi buonisti, rassicuranti, consolatori. Ci dice che in realtà l’obbiettivo del comunicatore cristiano, come del cristiano ‘tu cur‘, è sempre un bene altro, più alto. E ciò che, a prima vista, sembra provocare odio e contrasti è destinato invece a favorire la comunione. L’unica condizione è che sia una verità che vuole entrare davvero in relazione per salvare. Una verità di fede basata su un incontro con Dio fattosi uomo e non su un’idea morale da imporre a chiunque, pena la dannazione eterna, come vorrebbe qualcuno. Per questo costa fatica e scardina le nostre certezze razionali su che cosa sia vero o no. Perché ci chiede di amare, non solo di capire.

vinonuovo.it

 

Quale senso potrebbe avere per la Chiesa una maggiore presenza nei luoghi laici di aggregazione giovanile (piazze, pub, discoteche…)? E secondo quali modalità? Le risposte di due giovani educatori

Il nostro cammino di avvicinamento al Sinodo incontra il tema della presenza della Chiesa nei luoghi non propriamente ecclesiali: che stile, che modo, che senso ha una presenza della comunità cristiana “fuori dal recinto” propriamente inteso?

Siamo partiti dall’interno: abbiamo rivolto le nostre domande a due ragazzi impegnati attivamente nella vita di fede. Maura Crepaldi, 29 anni, psicologa ed educatrice di un gruppo di 18enni in una parrocchia della periferia milanese, e Andrea Mobiglia, 25 anni, aderente al movimento di Comunione e Liberazione, studente di economia all’Università Cattolica di Milano.

Ecco le risposte di Maura e Andrea, che ringraziamo per la disponibilità

1) Quale senso potrebbe avere per la Chiesa essere presente nei luoghi laici di maggior aggregazione giovanile (piazze, pub, discoteche, etc.)? E secondo quali modalità?

Andrea

Credo che la chiesa, intesa come comunità cristiana, sia già presente nei luoghi di maggiore aggregazione; molti giovani che frequentano tali luoghi sono infatti cristiani, certo non tutti, e magari in alcuni luoghi sono solo una piccola parte, ma ci sono, nelle discoteche, nei pub, nelle piazze. La questione diventa allora di un altro tipo, cioè educare i cristiani (i giovani in questo caso) a verificare la pertinenza della fede in ogni ambito che vivono, infatti solo partendo dall’educazione si genereranno persone “diverse” e per questo testimoni di una vita viva. L’educare alla fede, alla familiarità con Gesù, è l’unico modo per generare cristiani vivi. E se una persona è viva si riconosce dal suo modo di porsi, dai suoi atteggiamenti, dalle parole, dai gesti, dalla sua bellezza e dalla sua sete di vita, testimoniando agli altri un modo più bello di stare davanti alle cose (le stesse che sono sotto gli occhi di tutti). Ai giovani non cristiani frequentatori delle stesse discoteche, dei pub e delle piazze non rimarrà altro da fare che guardare questi testimoni e interrogarsi, non sul perché loro sì e io no, ma sul cosa fare: stare a guardare o conoscerli? Questa risposta, mi preme sottolinearlo, non è dovuta a un problema organizzativo a cui si tenta di dare una soluzione, ma tenta di andare al cuore stesso della ragione per cui c’è la Chiesa: per rispondere alle esigenze ultime del cuore dell’uomo testimoniando l’incontro con Cristo.

Si possono certamente pensare a strutture o catechesi negli stessi luoghi, ma sono convinto che una conversione avvenga attraverso la testimonianza di una vita più bella piuttosto che da soluzioni all’esigenza di una presenza organizzata in strutture. Cosa diversa dalle strutture, infatti è un altro tipo di testimonianza, a mio parere molto bella o quanto meno interessante, è l’esperienza delle sentinelle del mattino (che non ho mai avuto l’opportunità di fare e che cito solo in quanto ho conosciuto dei ragazzi che l’hanno fatta).

Maura

Penso che la Chiesa, in quanto insieme di persone mosse da un desiderio comune di compiersi totalmente come uomini e donne, sia presente anche nei luoghi laici di aggregazione; non credo si possa fare una distinzione netta tra “Qui c’è la Chiesa” e “Qui non c’è la Chiesa”, in quanto questa non è una struttura solida, fissa e replicabile asetticamente, ma un’esperienza attiva e viva di persone che ha a che fare con un modo bello e profondo di vedere e vivere la realtà data interrogandosi sulle circostanze incontrate.

La domanda che possiamo porci è: come posso io cristiano affascinare chi mi sta attorno tanto da chiedersi il perché di tanta letizia? E come questo può essere visibile nel quotidiano, nei gesti che ognuno di noi compie ogni giorno (anche in discoteca) e non solo perché va Messa?

Penso che la difficoltà maggiore ora, soprattutto tra i giovani cristiani, sia proprio quella di affascinare, di attirare, di vivere in modo che gli altri guardando dicano “Anche io voglio essere felice così”. Ma ne siamo capaci? Ne siamo convinti? Solo così l’essere cristiano diventa “conveniente”, se riusciamo a capire che fa bene all’uomo, che investe tutto ciò che egli vive, comprese le piazze, le discoteche e i pub.

2) Dato che questi spazi sono luoghi d’intrattenimento spensierato, privi di grandi problematiche – tantomeno relative alla fede -, la Chiesa non corre il rischio di rendersi ridicola o di intimorire inutilmente?

Maura

Non penso che vivere secondo la Chiesa e seguire Cristo possa mai risultare ridicolo, né tantomeno intimorire. Penso invece possa essere un arricchimento proprio perché questa appartenenza ha a che fare con un modo di vivere la realtà che non si allontana dal reale e che cerca di affrontare ogni cosa che si vive con una coscienza consapevole e maggiore, con un domandarsi continuamente come le circostanze che uno vive abbiano a che fare con la propria crescita. La Chiesa in questo caso può portare un modo diverso di vivere a pieno anche questi momenti di intrattenimento in modo che possano lasciare qualcosa nei ragazzi che altrimenti corrono il rischio di viverli in maniera superficiale

Andrea

Se torniamo al discorso delle strutture più che intimorire o rendersi ricoli, sarà una presenza che non toccherà il cuore di nessuno. Per questo sostengo che l’unico modo per la Chiesa (struttura e comunità) è quello di essere se stessa: testimoniare Gesù Cristo negli ambiti in cui si trova, come si trova. Per fare un esempio concreto, può essere semplicemente un giovane che chiede a un altro di non bestemmiare perché è cristiano, oppure accompagnare a casa un ragazzo ubriaco abbandonato al bar dagli amici (ho un amico che ha fatto questo e da lì, solo da lì, da un incontro, è nato un dialogo).

 

3) A tuo parere, anche i luoghi ecclesiali di maggior aggregazione giovanile (scout, oratori, volontariato, etc.) sono spazi di svago e di divertimento ricreativo, nei quali si corre il rischio di porre la fede in secondo piano o di umanizzarla eccessivamente?

Andrea

Il rischio c’è, mi sembra evidente. Faccio un esempio relativo al volontariato. Qualche mese fa abbiamo fatto lacolletta alimentare con i ragazzi dell’oratorio (13-18 anni); prima di iniziare li abbiamo invitati a guardare quello che succede, a guardare la gratuità con cui la gente dona, a rendersi conto che quella giornata sarebbe stata totalmente un dono. Abbiamo anche sottolineato che loro non avrebbero fatto felice nessuno, dovevano solo raccogliere il dono degli altri e metterlo in alcuni scatoloni. Proprio questa “inutilità”, dicevamo loro, può essere d’aiuto per renderci conto di cosa succede nella mia vita, di cosa succede oggi, qui, ora! Non cito questo per dire che siamo stati bravi, ma perché sia chiaro quello che dico: davanti alla proposta della colletta alimentare uno può tornare a casa pensando solo al fatto che si è divertito e finisce lì. Oppure può tornare a casa con una semplice domanda: cosa è successo oggi? O anche: cosa succede nella mia vita? Cosa dice questa giornata alla mia vita? La proposta è la stessa, il tornare a casa è diverso. Come mai? Credo che per non ridurre tutto a uno sforzo volontaristico (cito questo in quanto ne stiamo parlando ma potremmo dire la stessa cosa per oratori, scout, associazioni, movimenti) serva l’incontro con una persona che abbia vissuto qualcosa di più grande di quello che appare.

Maura

Potrebbe esserci questo rischio, ma penso dipenda molto dal modo in cui le esperienze vengono presentate e vissute. Sabato siamo andati al palaghiaccio con una cinquantina di adolescenti e giovani: vivere questa esperienza con una coscienza di appartenenza e di familiarità bella sicuramente può fare la differenza; riprendere insieme il perché siamo insieme, cosa mi ha colpito della serata, porsi alcune domande, magari aiutati da qualcuno di più grande o da una guida, sicuramente aiuta a rimettere a tema ciò che si è vissuto, anche una semplice pattinata, e fare in modo che questa esperienza lasci il segno e non diventi semplicemente qualcosa di bello il cui ricordo scema in fretta.

 

4) Qual è il giusto equilibrio che deve mantenere la Chiesa tra richiesta e attesa di una vita di fede nei giovani? Tra presenza evidente o soffusa di elementi e simbologie religiose?

Maura

Penso che questa sia una sfida soprattutto tra i giovani: riuscire a far capire attraverso un’esperienza di vita e non in modo puramente teorico che vale la pena un’appartenenza alla Chiesa non è facile. Il salto che la Chiesa dovrebbe aiutare a compiere è il passaggio dall’«aderisco e seguo perché ho preso l’impegno di farlo», che a lungo andare non tiene più e che porta ad un moralismo sterile, al «aderisco e seguo perché capisco che mi fa bene e che mi aiuta». Solo così si può aiutare i giovani a vivere un cristianesimo pieno e vivo.

Andrea

Educare alla fede, rispondere quindi all’attesa del cuore di ogni uomo (in questo caso i giovani) è il compito della Chiesa; certamente l’incontro cristiano è totalizzante, nel senso che non si può chiedere di aderire a certe cose piuttosto che ad altre, o essere cristiani a volte sì a volte no: è un incontro che tocca tutta la vita. È un’esperienza, una vita, che chiede tutto. Più che di equilibrio parlerei quindi di un accompagnamento nella vita dei giovani, perché non stiamo parlando di un testo da imparare e ripetere, ma stiamo parlando di una vita sempre in movimento.

vinonuovo.it

Giornata diocesana della Vita Consacrata

Domenica 28 gennaio – IV Domenica del Tempo Ordinario

Alle 16 in Cattedrale, Celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo Massimo per le consacrazioni nell’Ordo Virginum e per la Giornata diocesana della Vita consacrata. La 22ª Giornata della vita consacrata, istituita da San Giovanni Paolo II per tutta la Chiesa, sarà invece celebrata nelle parrocchie o unità pastorali dove sono presenti le religiose o i consacrati, il venerdì 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore.

NOTE SULLA GIORNATA DIOCESANA DELLA VITA CONSACRATA

La Messa presieduta dal Vescovo Massimo Camisasca, fscb, sarà concelebrata dal Vescovo emerito Adriano Caprioli, dal Vicario episcopale per la vita consacrata, Mons. Francesco Marmiroli, dal direttore del Servizio Diocesano Vocazioni e Rettore del Seminario, Don Alessandro Ravazzini, dal Segretario dei Religiosi, P. Lorenzo Volpe, e dai Padri Cappuccini di Reggio, San Martino in Rio, dai Padri Servi di Maria della Ghiara, dai sacerdoti dei Fratelli della Carità, dell’Istituto Secolare Servi della Chiesa, della Fraternità missionaria di San Carlo Borromeo (Vescovado, San Giacomo città e San Valentino di Castellarano), della Comunità SacerdotaleFamiliaris Consortio, della comunità missionaria Regina Pacis (UP di Prignano).

Saranno presenti anche i giovani dello Studentato dei Cappuccini di Scandiano, come tutte le comunità Religiose femminili (tra cui numerose sorelle provenienti dall’India) con la Segretaria diocesana, Suor Rosanna Marmiroli (delle Piccole Figlie dei Sacri Cuori, comunità di Scandiano), le Carmelitane Minori della Carità (di cui alcune malgasce), le consacrate e i consacrati secolari, le donne consacrate nella vita eremitica, nonché le Sorelle dell’Ordo Virginum di Reggio Emilia-Guastalla, che accoglieranno con l’abbraccio di pace le due nuove consacrate: Chiara Franco, della parrocchia di Sant’Antonio città, docente all’università di Pisa e direttrice dell’Ufficio diocesano della Pastorale sociale e del lavoro, e Francesca Perricone, della parrocchia di San Girolamo di Guastalla e insegnante di religione in Diocesi.

Saranno presenti in comunione i monasteri di Correggio, Montecchio, Sassuolo, che, da tradizione, faranno dono del pane, del vino, dei fiori per la mensa eucaristica della celebrazione.

Tutti i religiosi, le religiose, i consacrati e le consacrate presenti, dopo la benedizione solenne di Chiara e Francesca, saranno invitati dal Vescovo Massimo a rinnovare il loro proposito di consacrazione, davanti al Signore e per questa Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, che li accoglie.

La celebrazione sarà animata dal Coro Diocesano, diretto da Giovanni Mareggini. I cori delle parrocchie di provenienza di Chiara e Francesca, i religiosi e le religiose che desiderano aiutare nel canto, sono invitati ad unirsi al Coro Diocesano, che farà una “prova generale” a partire dalle ore 15 di domenica, direttamente in Cattedrale.

laliberta.info

Gesuiti a REGGIO e formazione sociale

Convegno sabato mattina alla sede Ifoa

In vista del convegno “Dalla formazione sociale all’etica civile. Una storia italiana, un’esperienza emiliana: la Scuola dei Gesuiti al Centro Sacro Cuore di Baragalla a Reggio Emilia”, che si tiene sabato 27 gennaio dalle 9.30 alle 13.30 presso la sede Ifoa di Reggio, in via Giglioli Valle 11, pubblichiamo un contributo di Luigi Bottazzi, autore fra l’altro di uno studio dal titolo “I Gesuiti a Reggio: uno sguardo d’insieme”, contenuto alle pagine dalla 102 alla 124 della Strenna 2016 del “Pio Istituto Artigianelli”.

Una realtà dimenticata o, comunque, poco conosciuta, quella della presenza a Reggio Emilia della Compagnia di Gesù, i cui membri (padri-sacerdoti e fratelli-collaboratori che avevano fatto i voti) provenivano dal Centro “San Fedele” di Milano, noti come editori della rivista “Aggiornamenti Sociali”. I Padri Gesuiti furono accolti provvisoriamente nei locali dell’ex-Seminario Urbano di Albinea, dal 1954 al 1958, per volontà del vescovo Beniamino Socche. Lo stabile era stato lasciato libero dalla Curia locale perché trasferirono, sacerdoti, docenti e seminaristi nel nuovo Seminario in circonvallazione alle porte della città.
Il primo nucleo dei Gesuiti si trasferì poi nella nuova “Casa” denominata Centro del Sacro Cuore, in località Baragalla. Una moderna costruzione edificata sui terreni del beneficio parrocchiale di Rivalta, su progetto dell’architetto Pierluigi Giordani, ad opera dell’impresa reggiana Pierino Benassi.

La missione che era stata affidata ai Gesuiti venuti a Reggio, per volontà dello stesso papa Pacelli ma con felici intuizioni di grandi personalità religiose e laiche del tempo (monsignor Montini, monsignor Pignedoli, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati), consisteva in un ampio spettro di azioni e di iniziative su tutto il territorio emiliano (ritiri ed esercizi spirituali, scuola di formazione sociale per giovani laici e preti, conferenze e incontri di associazioni cattoliche, gruppi di preghiera e di apostolato fin nelle più lontane parrocchie di montagna eccetera). Erano proprio quei territori che vedevano una massiccia presenza del potere comunista e un’insidiosa azione formativa e culturale anti-religiosa che ammaliava la “masse” popolari, a partire dai risultati elettorali fino a dominare ogni angolo della vita sociale.

Ne viene fatta un’analisi puntuale e approfondita in un ampio contributo storico inserito nella tradizionale “Strenna” degli Artigianelli della nostra città. Un saggio che, a parere di studiosi del movimento cattolico italiano, come il professor Giorgio Campanini dell’Università di Parma, come il professor Luciano Corradini dell’Università di Brescia, o come padre Gian Paolo Salvini, direttore emerito de “La Civiltà Cattolica”, ha il pregio di essere una prima ricerca in assoluto sul tema.

In grande sintesi si può tratteggiare così la presenza dei Gesuiti nella nostra realtà locale, tenendo presente che essi avevano lasciato la città nel lontano 1859, a seguito dell’Unità d’Italia e delle prime leggi di confisca dei beni ecclesiastici.
Il 10 maggio 1956 in località Baragalla avviene la posa della prima pietra da parte di monsignor Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, dell’erigenda Casa del Sacro Cuore, a cui diede un forte impulso il primo “superiore” padre Vito Maria Lorenzi s.j. (1914 – 2004). Il 28 ottobre 1956 con una suggestiva cerimonia nella piazza del Duomo a Reggio, papa Pio XII da Roma accende via radio la lampada multicolore posta davanti alla statua del Sacro Cuore di Gesù (opera della nota scultrice Carmela Adani), poi innalzata su apposito traliccio, come simbolo di amore nella fede verso le genti emiliane ancora abbacinate dal verbo materialista e comunista.

laliberta.info

Sei mesi fa moriva Charlie Gard: il bambino che ha scosso il mondo

Debora Donnini-Città del Vaticano

E’ di giovedì scorso la notizia: la Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha stabilito che sospendere i “trattamenti nel caso di un minore in stato vegetativo è conforme alla Convenzione”. Così, contro il parere dei genitori, i medici potranno sospendere i trattamenti vitali a Inès, una ragazza francese di 14 anni. Già affetta da una malattia neuromuscolare autoimmune, lo scorso giugno la giovane è stata colpita da un arresto cardiocircolatorio, che l’ha portata allo stato vegetativo. Ma la respirazione e la nutrizione artificiale le consentono di vivere e i genitori vogliono prendersi cura di lei. Per questo hanno ingaggiato una battaglia legale nei tribunali francesi, che li ha portati fino alla Corte di Strasburgo. Una vicenda che riporta alla memoria quella di Charlie Gard.

Charlie Gard: il bimbo che ha commosso il mondo

Proprio 6 mesi fa, veniva infatti interrotta la respirazione artificiale al bimbo inglese affetto da una rara malattia genetica. Charlie moriva alla vigilia del suo primo compleanno. Per mesi e mesi i genitori si erano battuti perché Charlie potesse accedere ad una cura sperimentale negli Stati Uniti e non gli fossero staccate la macchine come volevano i medici dell’ospedale londinese dove era in cura e dove era seguito dalla tutrice che gli era stata destinata. Anche qui, ne era scaturita una battaglia legale in diverse aule di tribunale.

L’ultima “battaglia”

Nel corso dell’ultimo confronto, davanti all’Alta Corte di Londra, era stato concesso che un’équipe internazionale coordinata dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù con il  neurologo “padre” della terapia sperimentale, visitassero il bambino. Ma il danno muscolare sembrava troppo avanzato, dicono i genitori che a quel punto rinunciano alla battaglia legale non senza denunciare i ritardi e ribadendo che si dovesse intervenire subito per tentare il tutto per tutto per salvare il piccolo. Charlie, che avrebbe compiuto 1 anno il 4 agosto, morirà invece in un hospice, non a casa come avevano chiesto i suoi genitori. “Il nostro splendido bambino se n’è andato. Siamo veramente orgogliosi di Charlie”, erano state le parole dei genitori Connie e Chris.

Gli appelli per Charlie

Dal Papa a Trump, dal cardinale Bassetti, presidente della Cei, a tantissimi cittadini con manifestazioni nelle Piazze reali e virtuali e con petizioni era stato chiesto che fosse data una chance al bimbo. Con lacrime e fiato sospeso il mondo aveva seguito la vicenda. A sei mesi dalla sua morte, ne parliamo con Assuntina Morresi, editorialista di Avvenire e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha recentemente scritto un libro sulla vicenda del piccolo Charlie: “Charlie Gard. Eutanasia di Stato”.

Il miglior interesse

“La storia di Charlie Gard è stato un evento sentinella perché quando uno arriva a dire che il miglior interesse di una persona è morire, vuol dire che non c’è più l’orizzonte del favor vitae, cioè la vita non è più la bussola di riferimento” afferma la Morresi.

Ventilazione e nutrizione artificiale

“Il punto era che questo bambino, pur in condizioni gravi per ammissione dei medici, era comunque attaccato non a chissà quali macchine, ma a un ventilatore artificiale e veniva nutrito artificialmente. Per il resto tutti gli organi funzionavano” spiega, mettendo anche in evidenza che “non c’era prova che soffrisse, alcuni medici dicevano che era probabile, ma era continuamente sedato con la morfina perché i medici non avevano voluto fare la tracheostomia, cioè la ventilazione con il tubo in gola ma avevano lasciato la ventilazione con i tubi infilati nel naso, che è più invasiva: la tracheostomia si fa per malati cronici mentre i medici pensavano che questo bambino doveva essere fatto morire subito”.

C’è una vita non degna di essere vissuta?

Tra l’altro, sperimentare la terapia aveva come effetto collaterale la diarrea. La Morresi, infatti, nota che “se da un punto di vista professionale è legittimo per un’équipe medica rifiutare un trattamento sperimentale, è stupefacente pensare che l’unica possibilità di sperimentazione che dà solo la diarrea sia negata perché non costava niente farla, si poteva fare quasi come cura palliativa, in parallelo”. “Negarla”, quindi, è stato proprio sottolineare il fatto che si ritenesse “talmente bassa questa qualità di vita che non valeva la pena viverla. Il loro problema era la sofferenza del vivere, non il dolore fisico”. “Parliamoci chiaro – prosegue la Morresi –  il dolore fisico fortunatamente ai nostri tempi si può sempre sconfiggere, controllare”.

Atteggiamento eutanasico

Quindi il problema non è la sofferenza fisica, non lo sarebbe stata neanche quella psicologica se fosse stato più grande, il problema era che quel bambino – secondo loro – non aveva una vita degna di essere vissuta, perché non parlava, non si poteva muovere, non piangeva e perché era destinato a morire”. E quindi, “anziché preoccuparsi di accompagnarlo alla morte, anche in queste condizioni sicuramente gravi, il problema è stato come accorciare la sua vita, e questa è eutanasia”, sostiene ancora la Morresi, che si chiede: se ci mettiamo a misurare quando la sofferenza del vivere è tale per cui è meglio morire, chi stabilisce quale sia “il limite per cui una vita non vale la pena che sia vissuta, nel momento in cui riesco a controllare il dolore fisico, a sopportarlo? Questo è l’atteggiamento eutanasico”.

La volontà dei genitori

C’è un’altra questione che ha fatto sollevare l’opinione pubblica, specialmente attraverso i Social, e cioè che in qualche modo ospedale e giudici si sostituissero alla volontà dei genitori. La Morresi esprime preoccupazione su questo aspetto. “È chiaro che se i genitori non fossero stati in grado di prendersi cura del bambino, questo provvedimento sarebbe stato logico, la cosa che ha lasciato esterrefatti è stato che i genitori fino alla fine hanno dovuto dare il consenso per la TAC, per le ultime analisi cliniche, quindi i genitori erano considerati perfettamente in grado di avere cura del bambino ma non in grado di stabilire il suo migliore interesse”, ricorda.

Chi decide della vita di una persona?

“Ora il problema non è solo chi decide, perché ci può stare qualche caso in cui i genitori non sono in grado di prendersi cura del bambino e decide un tribunale al posto dei genitori. Ma il problema è cosa si decide: è possibile decidere della vita o della morte di una persona?”, si chiede. “Quando un giudice o la famiglia, se vogliamo andare fino in fondo, decide della vita o della morte di una persona, questo è ammissibile in una società civile?” prosegue, sottolineando che “in nome dell’auto-determinazione arriviamo all’etero-determinazione più netta, tanto è vero che i genitori di Charlie Gard non sono stati neanche liberi di decidere dove e come morisse il loro figlio, non sono stati neanche liberi di riportarselo a casa”.

da Radio Vaticana

Terra Santa: preghiera per la pace in 10 mila città

Michele Raviart – Città del Vaticano

Oggi, come ogni ultima domenica di gennaio, si celebra la X edizione della Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa: una preghiera mondiale che coinvolgerà chiese in 10 mila città di tutto il mondo. La preghiera, organizzata da varie associazione cattoliche giovanili, arriva alla fine della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani. Un evento particolarmente sentito in Terra Santa, come spiega padre Ibrahim Faltas, francescano e parroco a Betlemme:

R. – Qui in Terra Santa viviamo l’unità dei cristiani giorno dopo giorno, lavorando fianco a fianco e vivendo nel rispetto e nel dialogo con ogni fede religiosa. Viviamo un periodo di forte intesa ecumenica e la preghiera ci aiuta a rafforzare questa unità con tutte le chiese che vivono in Terra Santa.

D. – Ogni anno aumentano le chiese che partecipano a questa giornata. Cosa significa avere tutto il mondo che prega per voi?

R. – La Terra Santa è veramente la madre di tutte le chiese; è il centro di tutte le religioni. Gerusalemme rappresenta per tutti l’inizio di una vita nella fede. Il mondo intensifica la preghiera per noi perché la Terra Santa è un bene per tutta l’umanità. La preghiera di tutti ci rafforza e ci porta la consolazione, per continuare a resistere e per infondere speranza nella gente. Per un cristiano che vive in Terra Santa questa è una sfida; allora la preghiera di tutto il mondo ci aiuta a continuare a vivere questa sfida.

D. – Come vivono i cristiani di Terra Santa questa preghiera dopo gli ultimi mesi di tensione?

R. – I cristiani continuano a pregare perché Gerusalemme deve essere la città di tutte le religioni. Gerusalemme è una citta per tutti, internazionale, aperta a tutti e di tutti. La città non può essere di una parte sola. Salvare Gerusalemme significa mettere le basi per la pace. Come diceva San Giovanni Paolo II, se vogliono la pace in tutto il mondo devono cominciare con la pace a Gerusalemme. Senza la pace a Gerusalemme non ci sarà mai pace nel mondo.

D. – In particolare, qual è la situazione dove si trova lei, a Betlemme?

R. – Purtroppo Betlemme è dimenticata da tutti. La gente vive come in una prigione a cielo aperto. Lo sappiamo, quelli che vengono vedono sempre il muro che segna il confine con Gerusalemme. Nei campi profughi il numero delle persone aumenta e ciò che preoccupa di più è che la nuova generazione, anche quella dei cristiani, cerca di migrare verso l’estero alla ricerca di una dignità e di un futuro migliore. Il grande aiuto che Betlemme riceve è dato dal turismo, dai pellegrini. Questi ultimi in particolar modo devono tornare perché qui non c’è nessun pericolo. Dopo la dichiarazione di Trump negli ultimi tempi tanti pellegrini hanno avuto paura e tanti vogliono cancellare il loro pellegrinaggio qui. Dico a tutti: dovete venire. Non abbiate paura, la situazione è tranquilla. Il grande aiuto per la gente di Betlemme è avere voi come pellegrini. Lancio un appello alla comunità internazionale, affinché si lasci guidare dalle parole di Papa Francesco, metta fine alle guerre e lavori per il bene dell’uomo e del creato. Che la preghiera di questa domenica illumini la mente e il cuore di tutti.

Radio Vaticana