Disabili. Inclusione scolastica metà degli alunni rimane fuori classe

«Aquarant’anni dalla fine delle classi differenziali, rischiamo che ciò che è stato fatto uscire dalla porta, rientri dalla finestra. È questo il grande pericolo che sta correndo la scuola italiana». Va subito al cuore della questione Dario Ianes, docente di Pedagogia dell’inclusione all’Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, che da ieri e per tre giorni riunisce più di 4mila insegnanti, formatori e genitori al Palacongressi di Rimini per un confronto a tutto tondo sulla ‘Qualità dell’inclusione scolastica e sociale’. Una realtà certamente all’avanguardia, almeno dal punto di vista legislativo, ma con ancora importanti sacche di arretratezza sul versante dell’applicazione pratica delle norme.

«L’inclusione degli alunni disabili e con disturbi dell’apprendimento – spiega Ianes – è a macchia di leopardo. Accanto a eccellenze in almeno la metà dei casi il disabile è spesso fuori dalla classe, impegnato in attività che lo vedono solo con il proprio insegnante di sostegno. Nel 5% dei casi l’alunno disabile è sempre fuori dal gruppo classe. Si capisce come questo non favorisca certo l’inclusione ma, anzi, alimenti l’esclusione». Insomma, secondo Ianes, «avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione», perché, aggiunge l’esperto, «spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe».

E questo, sostiene sempre Ianes, avviene essenzialmente per due fattori: l’età media avanzata del corpo docente e il «tema enorme» della formazione iniziale degli insegnanti. A cui nemmeno la riforma della Buona scuola è riuscita a imprimere un cambio di rotta, come denuncia Salvatore Nocera, dirigente della Fish (la Federazione italiana per il superamento dell’handicap). «Purtroppo – osserva Nocera – non è stato aggiunto alcun credito formativo a quelli già previsti dalla normativa del 2010: 30 crediti per i docenti di scuola dell’infanzia e primaria, che già hanno una buona formazione di base su fronte dell’inclusione e solo sei crediti per i docenti di medie e superiori. Su questo il Parlamento si è dimostrato sordo alle nostre richieste».

«In Italia – ricorda Ianes – abbiamo 140mila insegnanti di sostegno e la grande scommessa è come gestirli, progettando una didattica più universale e, in definitiva, per tut- ti. Invece il sistema sta diventando sempre più esclusivo, sotto la pressione dei test di valutazione e dei risultati di apprendimento. I deboli tendono ad essere scartati e si rischiano davvero forme di tipo espulsivo. Bisogna, perciò investire sulla didattica ‘normale’, perché si vince la sfida dell’alunno con disabilità se si evolve la didattica per tutti, dove c’è spazio per tutti».

Anche per i 235mila alunni con disabilità iscritti alle scuole statali e i circa 13mila delle paritarie. Una popolazione in crescita continua che, soltanto rispetto all’anno scorso è aumentata di 10mila unità. E a crescere, certifica l’Istat, sono soprattutto i disturbi specifici dell’apprendimento, quadruplicati negli ultimi anni, oltre alle certificazioni di disabilità che sono raddoppiate. Una «vera emergenza » per il pedagogista Daniele Novara, che lancia l’allarme rispetto alla «psichiatrizzazione di una generazione di figli«, le cui difficoltà scolastiche di possono, invece, curare con l’educazione, recuperando la maieutica, cioè «l’arte di tirar fuori il meglio» dai nostri bambini e ragazzi. Un lavoro che gli insegnanti sono chiamati a svolgere in stretta sinergia con i dirigenti scolastici.

Da un sondaggio online effettuato tra gli stessi partecipanti alla kermesse riminese risulta che almeno il 39% dei presidi esercita una ‘leadership inclusiva’. Un dato sorprendente per il professor Ianes. «Mi sarei aspettato il 2% al massimo – chiosa – e invece la realtà è migliore di quanto appaia. Con gli spazi di autonomia concessi oggi ai dirigenti, ci sono buoni margini di miglioramento».

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Inchiesta. L’auto a guida autonoma sicurezza, paure e… affari

Non piace quasi a nessuno, ma promette di diventare un grande affare per qualcuno. È questa la sintesi dell’automobile a guida autonoma, la più grande rivoluzione della mobilità dopo l’invenzione del motore a scoppio. Rivoluzione per ora solo annunciata, perché la guida autonoma – declinata in vari sistemi di assistenza a chi sta al volante – in realtà esiste già, e la sua tecnologia è già disponibile su molti modelli in commercio. Per quanto riguarda invece l’anno di diffusione piena della vettura che viaggia senza alcun intervento umano (e anche senza la presenza di umani a bordo), cioè il livello 5 della classificazione SAE, le previsioni oscillano tra il 2030 e il 2050. Una forbice troppo ampia per renderla del tutto credibile, anche a fronte dei costi proibitivi di queste vetture (non a caso mai pubblicizzati) e dei suoi enormi problemi normativi ancora tutti da risolvere.

Quello che pare certo è che gli italiani sono molto scettici sul tema, e soprattutto sulla fiducia da riporre in un veicolo che si guida da solo. Solo il 48% sarebbe infatti disposto a provare un’automobile senza conducente, mentre 1 su 4 (il 25%) dichiara al momento che non vi salirebbe mai. Eppure, i benefici sociali ed economici sono potenzialmente notevoli, anche in termini di ottimizzazione del tempo e dello spazio, se si pensa che un’auto rimane ferma per il 90% della giornata e che alcuni studi assicurano che la guida senza pilota sarebbe in grado di abbattere i consumi del 10%. Molti marchi – Volvo in particolare, che ha fissato il traguardo per le proprie vetture addirittura al 2020 – già inseguono l’obiettivo a breve della “mortalità zero”. Ed stato calcolato che se tutte le auto circolanti fossero connesse ed autonome, nel mondo si risparmierebbero 200 miliardi di euro in spesa sociale per incidenti stradali e 50 miliardi in minori consumi di carburante. Ogni euro investito nella connessione di veicoli ed infrastrutture inoltre produrrebbe benefici per più di 3 euro.

Questi sono i dati dello studio “Auto-matica”, realizzato dalla Fondazione ACI Filippo Caracciolo e presentati all’ultima Conferenza del Traffico e della Circolazione, organizzata dall’Automobile Club d’Italia. La domanda alla quale lo studio non ha risposto però è un’altra: ne abbiamo davvero bisogno? Danny Shapiro, senior director automotive di Nvidia, azienda produttrice di processori grafici, schede madri e componenti per prodotti multimediali, in una recente intervista al sito wired.it, sostiene di sì. «Lo vediamo già ora con le auto a guida assistita: ne abbiamo bisogno perché saranno molto più sicure e, allo stesso tempo, daranno alle persone la libertà di fare altre cose mentre si spostano, invece che perdere ore bloccati al volante nel traffico», spiega. Ma lo stesso Shapiro delinea – per fortuna – un futuro che non esclude la possibilità di continuare a guidare semplicemente per proprio gusto e passione: «Credo che ci saranno modi diversi di usare l’automobile, e che nel futuro chi ama guidare potrà ancora farlo. Ci saranno strade specificamente dedicate alle macchine autonome, mentre altre saranno aperte alla guida per gli esseri umani, che è più pericolosa. È già successo con i cavalli: un tempo erano un mezzo di trasporto, mentre oggi sono un mezzo di intrattenimento o uno sport. Accadrà lo stesso con le auto».

Il sospetto però è che ci sia ben altro dietro questa svolta tecnologica, che muove indubbiamente interessi molto diversi. Ha addirittura già un nome la nuova frontiera che ruota attorno alla vendita di prodotti e servizi complementari alla guida autonoma. Si chiama “Passenger Economy”, e si basa sulla mutazione di chi oggi da “soggetto autista” della propria vettura si trasformerà in “soggetto trasportato”. Il suo “tempo” diventa a questo punto un’interessante preda di marketing e l’automobile, oltre ai social media e alle decine di servizi con i quali si consente di accedere ai propri dati, potrebbe diventare una nuova occasione per proporci un ristorante piuttosto di un altro lungo il percorso, o una nuova serie di film da guardare durante il viaggio. A questo proposito, uno studio di Business Insider calcola che già entro il 2020 il mercato dei servizi erogati attraverso la connessione Internet dei veicoli varrà circa 152 miliardi di dollari. E che, sempre per il 2020, il 75% degli automezzi nel mondo sarà equipaggiato di hardware e software per connettersi alla rete. Una ricerca condotta da Strategy Analytics afferma che i veicoli autonomi entro il 2045 renderanno disponibili 250 milioni di ore in fatto di tempo libero. Da trascorrere “chattando” con il proprio smartphone, lavorando, leggendo o facendo shopping on-line e ordinando qualunque prodotto durante il tragitto per trovarlo magari già consegnato quando si arriva a destinazione.

Satelliti, radar e telecamere sempre più sofisticate consentono già oggi di mappare ogni angolo della terra, ma la localizzazione e la memorizzazione di tragitti e scelte logistische che un veicolo guidato da intelligenza artificiale necessariamente comportano diventa un’altra chiave per “regalare” preziosi dati sensibili in grado di definire il nostro status socio-economico: dove viviamo , dove e quanto lavoriamo, se andiamo a prendere i bambini a scuola, dove andiamo in vacanza, dove facciamo acquisti e quanto acquistiamo. L’obiettivo rimane quello di costruire un profilo dettagliato del nuovo automobilista, ora non più impegnato al volante, per vendere il più possibile stabilendo quanto un investimento sia o meno a rischio. A questo proposito, le Autorità europee di protezione dei dati nei giorni scorsi hanno espresso preoccupazione sul «rischio di monitoraggio permanente e diffuso» della privacy di chi userà automobili già a partire dal 2019, quando verrà avviato il sistema di vetture e strade “intelligenti” denominato C-ITS, in base al quale le auto potranno comunicare tra loro e con altre infrastrutture di trasporto.

Alcuni analisti hanno già calcolato le implicazioni commerciali legate a questa rivoluzione della mobilità: inserzionisti, assicuratori, rivenditori, banche avranno molti più dati sensibili da utilizzare rispetto a quanto già stanno facendo da diversi anni. «Contenuti e servizi – sostengono – ci saranno proposti in base alle nostre precedenti scelte, attingendo dall’enorme database che noi stessi avremo creato durante i nostri viaggi». Intel prevede che il valore di beni e servizi per questo settore sarà entro il 2050 pari a 7.000 miliardi di dollari, più del doppio di quanto previsto per la cosiddetta “Sharing Economy”. A questo soprattutto potrebbe servire l’automobile con il pilota automatico. O almeno questo è lo scenario primario cui mirano le multinazionali che ci stanno investendo, probabilmente con un occhio diverso da quello più idealistico e puramente tecnico delle Case automobilistiche. I costruttori infatti credono in questa tecnologia e la stanno rapidamente implementando, soprattutto per le implicazioni relative alla sicurezza, che comporterebbe un sistema circolante completamente connesso di sole auto autonome. Per rispondere ai timori della totale perdita della privacy, assicurano che il cliente sarà sempre titolare e gestore dei propri dati sensibili, teoricamente in maniera esclusiva. Ma anche le Case costruttrici si stanno trasformando in produttori di servizi, più che di automobili. E in questo senso, l’affare è anche per loro.

Quando la tecnologia “aiuta” o “sostituisce” davvero l’uomo

Cosa si intende quando si parla di “guida autonoma”? Secondo gli standard della Sae, la Society of Automotive Engineers, i livelli di classificazione sono cinque. Le auto in circolazione attualmente arrivano al massimo al terzo, per il quale è più corretto però parlare di “guida assistita”, che prevede vari strumenti – come la frenata d’emergenza o il controllo della velocità – che migliorano sicurezza e comfort di guida. Il primo stadio dal quale ha senso parlare di guida autonoma corrisponde al terzo, noto come “automazione condizionale”, quello in cui i sofisticati sensori dell’auto sostituiscono pienamente l’autista nel controllo del veicolo. In pratica l’auto riesce da sola ad accelerare, sterzare e frenare in situazioni definite, e avverte il guidatore quando deve essere pronto ad intervenire. Oggi le Tesla (Model S, X e 3) sono a cavallo fra il secondo e il terzo livello, come la nuova Audi A8 e alcune Bmw. Il passaggio veramente rivoluzionario, quello al quale le case automobilistiche e i giganti dell’hi-tech lavorano, avviene con il quarto e il quinto livello, definiti di “alta e piena automazione”. Quelli in cui il veicolo sa “leggere” l’ambiente circostante, fino a non richiedere più l’intervento umano. E nemmeno la presenza di persone a bordo.

Avvenire

La testimone. «Vi racconto come morì papa Luciani»

La verità sulla morte di Giovanni Paolo I il 26 agosto 1978 viene definitivamente raccontata da un libro di Stefania Falasca. Che pubblica questa testimonianza della suora che lo rinvenne esanime.

Alla sua morte il mondo rimase incredulo e seguirono ipotesi complottiste e “noir”. Ora il libro della vaticanista ed editorialista di «Avvenire» Stefania Falsaca, «Papa Luciani. Cronaca di una morte» in uscita da Piemme (pagine 252, euro 17, prefazione del segretario di Stato cardinale Pietro Parolin) fa chiarezza: «È tempo di riavvolgere il nastro della storia. Per ricominciare da lì, dalla fine. Da quegli ultimi stralci di vita in quella sera del 28 settembre 1978». Ecco un brano dell’interrogatorio di suor Margherita Marin, fra le prime a vedere il papa morto, teste ascoltata, su indicazione della Postulazione della Causa di canonizzazione, a Trento il 12 maggio 2009. Il documento integrale, insieme a numerosi altri che fanno definitiva chiarezza sulla morte di papa Luciani, sono pubblicati nel libro di Stefania Falasca.


Può dire a che ora, come e chi rinvenne il decesso del Papa?
«Verso le 5.15 di quel mattino, come ogni mattino, suor Vincenza aveva lasciato una tazzina di caffè per il Santo Padre in sacrestia subito fuori dell’appartamento del papa, davanti alla cappellina. Il Santo Padre uscendo dalla sua stanza era solito prendere il caffè in sacrestia prima di entrare nella cappella a pregare. Quella mattina però il caffè rimase lì. Passati circa dieci minuti, suor Vincenza disse: «Non è ancora uscito? Ma come mai?». Io ero lì in corridoio. Così ho visto che ha bussato una volta, ha bussato di nuovo, non ha risposto… Ancora silenzio, allora ha aperto la porta e poi è entrata. Io ero lì e mentre lei entrava rimasi fuori. Sentii che disse: “Santità, lei non dovrebbe fare di questi scherzi con me”. Poi mi chiamò uscendo scioccata, entrai allora subito anch’io insieme a lei e lo vidi. Il Santo Padre era nel suo letto, la luce per leggere sopra la spalliera accesa. Stava con i suoi due cuscini dietro la schiena che lo tenevano un po’ sollevato, le gambe distese, le braccia sopra le lenzuola, in pigiama, e tra le mani, appoggiate sul petto, stringeva alcuni fogli dattiloscritti, la testa era girata un po’ verso destra con un leggero sorriso, gli occhiali messi sul naso, gli occhi semichiusi… sembrava proprio che dormisse. Toccai le sue mani, erano fredde, vidi e mi colpirono le unghie un po’ scure».
Non notò niente fuori posto?
«No. Niente. Niente. Neppure una piega. Niente di caduto a terra, niente di scomposto che potesse far pensare a un malore di cui si fosse accorto. Sembrava proprio come uno che si addormenta leggendo. Che si addormenta e rimane così».
E poi che cosa avete fatto?
«Subito dopo suor Vincenza andò su a chiamare il padre Magee e io corsi a chiamare don Diego, bussai alla porta, lo chiamai: “Venga giù, il Santo Padre, il Santo Padre…”. Si svegliò di soprassalto e venne giù. Recitammo una preghiera, poi padre Magee andò a chiamare il medico del Vaticano. Il dottor Buzzonetti venne quasi subito; vidi arrivare il cardinale Villot e poi Poletti».
Voi suore eravate presenti al momento del referto del medico?
«No, perché uscimmo dalla camera. Venne dopo di là da noi il padre Magee, ci disse: “Non ha sofferto, non se n’è nemmeno accorto”, riferendo le parole dette dal medico e disse anche che la morte improvvisa era stata la sera verso le undici. Questo ho sentito. Non ho sentito altre cose… c’era poco da dire. Noi non ci occupammo poi di sistemare il corpo, né suor Vincenza né noialtre; ci pensarono loro, arrivò più tardi anche Angelo e altri ad aiutare».
Cosa ricorda ancora di quei momenti?
«Ricordo l’andirivieni dei prelati, ricordo che andavano avanti e indietro nel corridoio e sentii che non sapevano come fare a dare al mondo la notizia che il papa, che in poco tempo aveva conquistato tutti, era morto così, tanto che solo due ore dopo, da quando noi suore l’avevamo rinvenuto, diedero la notizia ufficiale. Ricordo che quando ancora il Santo Padre era nella sua stanza venne anche a vederlo sua nipote, una ragazza giovane, si fermò in disparte e pianse con suor Vincenza. Noi suore, senza i segretari, assistemmo alla messa di suffragio celebrata dal cardinale Poletti. Ci chiamarono più tardi per dare i paramenti e per accompagnarlo nella Sala Clementina, restammo lì a pregare e poi ritornammo su perché dovevamo liberare l’appartamento e sigillare tutto, secondo quanto è stabilito dalla prassi. Ricordo che il padre Magee ci disse di prendere alcuni effetti personali del Santo Padre. A suor Vincenza diede gli occhiali, le pianelle e altri oggetti, io tenni con me la sua radiolina che conservo ancora come una reliquia».
Ricorda se qualcuno le ha intimato di dire questo o quello in merito alla morte del papa?
«Il padre Magee ci disse di non dire che eravamo state noi suore, io e suor Vincenza, a trovarlo morto nella camera, perché avevano deciso di dire che erano stati i segretari a trovarlo per primi».
Lei sa chi prese e cosa ne è stato dei fogli che aveva in mano?
«No. Non saprei dire chi se ne occupò. Né lo chiesi. Noi lo lasciammo che li aveva in mano, non toccammo niente. Erano fogli dattiloscritti, anzi mezzi fogli, due o tre. Non scritti a mano, sono certissima, ma non so dire il contenuto perché non mi sono messa a leggere in quei momenti lì. Qualcuno lì in corridoio ci ha detto che erano i fogli per l’udienza del mercoledì. Lo studio con le sue carte e la camera sono stati poi sigillati e riaperti dal suo successore, Giovanni Paolo II. Io ero presente quando il nuovo papa tagliò i sigilli ed entrò nell’appartamento».
Dopo la morte del papa ebbe modo di incontrare suor Vincenza o le altre consorelle e di ricordare qualche particolare di quel mese?
«Sì, ci siamo incontrate, poco con suor Vincenza, di più con suor Elena, che intanto si era ammalata di tumore. Ma più che ricordi particolari di quei giorni, ci invitavamo a vicenda a pregarlo perché lui intercedesse per noi».
Qualcuno in seguito le chiese informazioni o le espresse sospetti riguardo alla circostanza della morte di Giovanni Paolo I?
«Dopo che ritornai nella comunità di Vittorio Veneto, ricordo che mi chiamò al telefono il vescovo di Belluno, mons. Ducoli. Era molto addolorato e mi chiese di dirgli come veramente il papa fosse stato trovato, se era a terra, caduto in qualche modo. “No, eccellenza”, gli dissi, “guardi che il Santo Padre era nel suo letto, l’abbiamo visto noi, e non aveva neanche una piega”»
Ha qualche cosa ancora da dire in merito alle versioni contrastanti sulle ultime ore del papa?
«Come siano venute fuori tutte quelle dicerie proprio non lo so. Noialtre eravamo lì. Posso dire, e ho detto, tutto quello che so e che ho visto».

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