La PA invecchia, in 10 anni in pensione un terzo dei dipendenti

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Avvenire

La pubblica amministrazione italiana invecchia sempre di più.

Dopo anni di blocco del turnover, scarsa attrattività e difficoltà nel reclutare personale giovane, quasi l’80% dei dipendenti pubblici conta oggi oltre 40 anni e la classe d’età più frequente nella scuola, nella sanità, negli enti locali e negli uffici è ormai quella tra i 55 e 59 anni. Con il risultato che al massimo tra dieci anni un terzo dei lavoratori della p.a andrà in pensione.

Il quadro emerge dall’ultimo Osservatorio dell’Inps, che calcola nel 2024 oltre 3,7 milioni di lavoratori pubblici, in aumento dell’1,5% sul 2023, anche grazie alla tornata di assunzioni portata avanti dal governo. Il gruppo contrattuale più numeroso è quello della scuola con quasi il 40% dei dipendenti pubblici, seguito dal servizio sanitario con il 20%, dalle amministrazioni locali, ovvero Regioni, Province e Comuni, con poco meno del 15% e dalle forze armate, corpi di polizia e vigili del fuoco con circa il 14%. La retribuzione media è pari a 35.350 euro, ma tra i lavoratori a tempo indeterminato, l’oscillazione è ampia e va dai 55.000 euro dei dipendenti di Università ed enti di ricerca ai 30.000 euro del personale scolastico, il più numeroso ma anche il meno pagato.

Nel complesso, le lavoratrici superano i lavoratori con un’incidenza del 61% in gran parte delle classi di età, con l’eccezione dei più giovani fino a 19 anni e tra 20 e 24 anni. In queste due fasce l’incidenza è pari, rispettivamente, a 67% e 58% i maschi, e a 33% e 42% le femmine. Anche la retribuzione risulta molto differenziata sia per età che per genere. In particolare, aumenta al crescere dell’età fino a stabilizzarsi dai 50 anni in poi ed è costantemente più alta per il genere maschile: oltre 41.000 euro contro quasi 31.700 euro per le femmine. A pesare sulle donne è infatti il maggior ricorso al part time, mentre sui più giovani incidono contratti spesso a tempo determinato. L’oscillazione degli stipendi si riscontra anche a livello geografico. I valori più bassi si riscontrano al Nord, 34.000 euro nel Nord-ovest e 34.500 euro nel Nord-est. Al Centro, dove lavora quasi un dipendente pubblico su 4, si registra invece il valore più alto di retribuzione, ovvero 37.000 euro.

La fotografia dell’Inps arriva nel giorno della firma di Aran e sindacati del rinnovo del contratto dell’area dirigenziale delle funzioni locali per il triennio 2022-2024. Il contratto interessa complessivamente circa 13mila dirigenti e prevede incrementi medi mensili pari a 444 euro per tredici mensilità, ma anche questa volta però si registra l’astensione della Cgil, che – come nel caso della scuola e degli enti locali – non ha apposto la sua firma.

Il rinnovo è stato chiuso “in tempi molto contenuti, in sole tre riunioni”, fa notare il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, già pronto ad avviare il confronto per la tornata 2025-2027. Soddisfatta anche la segretaria generale della Cisl, Daniela Fumarola, che rivendica il “senso di responsabilità” del sindacato al tavolo di trattativa.

Mattarella visita la mostra dell’ANSA su Falcone e Borsellino

Mattarella visita la mostra fotografica - RIPRODUZIONE RISERVATA

Ansa

Un omaggio ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e al loro lavoro innovativo di lotta al crimine transnazionale: oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha visitato a Vienna, nel polo Onu della capitale austriaca, la mostra dell’ANSA ‘L’eredità di Falcone e Borsellino’ che ripercorre le vite dei due magistrati uccisi dalla mafia nelle stragi del 1992 a Capaci il 23 maggio e a Via D’Amelio a Palermo il 19 luglio.

Accompagnato dal presidente austriaco Alexander Van der Bellen e dal direttore generale delle Nazioni Unite di Vienna Ghada Waly, il capo dello Stato si è soffermato sui 15 pannelli e le 75 foto che compongono l’esposizione.

A guidarli nel percorso l’amministratore delegato dell’agenzia Stefano De Alessandri.

Mattarella si è anche soffermato su una foto che lo ritrae, allora giovane, accanto a Giovanni Falcone. Con un pizzico di emozione, poco dopo nel suo intervento in aula, il capo dello Stato ha pubblicamente sottolineato di aver avuto “il privilegio di conoscerli e sovente frequentarli”.

“La mostra è stata realizzata ed esposta a Palermo nel 2012 per ricordare le stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha detto De Alessandri – dove per mano della mafia persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, il giudice Paolo Borsellino e le loro scorte. Da allora è la più vista delle mostre da noi realizzate in Italia dove è stata presentata nelle scuole e nei palazzi di giustizia di tutte le principali città. Ma anche all’estero, al Consiglio d’Europa, al Parlamento europeo e all’Osce”.

La mostra, inaugurata nel 2012 a Palermo dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, negli anni è stata continuamente aggiornata e ospitata in diverse sedi istituzionali, ma soprattutto è stata visitata da migliaia di ragazzi delle scuole. Racconta la storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dall’adolescenza a Palermo all’ingresso in magistratura, fino alla nascita del Pool antimafia, al maxiprocesso e alle stragi del ’92. Il percorso guidato dalle immagini è integrato da riproduzioni delle notizie dell’ANSA.

Dal tocco mancato della Sistina alla crisi dell’io contemporaneo, solo il ritorno all’Amore come relazione che trascende il sé può ridare verità, dignità e futuro all’Umanità

Finché un cuore batterà il battito dell’Amore vero

Sulla volta della Sistina, le dita di Dio e di Adamo non si toccano. Restano sospese, separate da un appena. Quell’intervallo è lo spazio dell’Amore. Dal non essere all’essere. Lì si compie il mistero dell’Umanità. La nostalgia di un’unione necessaria che nessuna civiltà ha mai saputo colmare. Dall’Amore è la vita. È amando che l’incompiuto conquista la sua forma perfetta. Perché l’Amore – come racconta Platone, nel Simposio – nacque da due opposti: Penìa (la privazione) e Pòros (la risorsa). Eterno dinamismo tra consapevolezza della mancanza e desiderio della pienezza. Amare è riconoscere la propria incompiutezza. «L’amore esprime in generale la coscienza della mia unità con l’altro, per cui io, per me, non sono un isolato, ma la mia autocoscienza si afferma solo come rinuncia al mio essere per sé e come unità di me con l’altro» scriveva Hegel in “Filosofia del diritto”.

In verità, con sfumature e prospettive diverse, tutta la tradizione filosofica occidentale – da Platone in poi, passando per Aristotele, Agostino, Tommaso, Leibnitz, Maritain e molti altri – concepisce l’Amore come un cammino verso ciò che ci trascende. Movimento dall’imperfetto al perfetto, dall’io al noi. Tensione verso l’altro da sé. Che è parte di sé. E di cui il sé è parte. È questa la missione più difficile per un Uomo: dare verità piena, perfetta alla propria verità incompleta, inadeguata e spesso falsa. Continua ricerca di un’unità perduta. Tra Creatura e Creatura. Tra Creatura e Creatore. Tra Creatura, Creato e Creatore. «Amor est Laetitia concomitante idea causae externae» ci ricorda Spinoza nell’”Ethica”.
La modernità ha spezzato questo orizzonte. Nel mondo contemporaneo, l’Amore non è più “proiezione verso” ma “specchio di sé”. Tutte le “conquiste” della civiltà recente sembrano inscriversi nella cornice di questo mutamento antropologico. È il trionfo dell’individuo e dell’individualismo. Dell’avere sull’essere. Del solipsismo sul personalismo. Dell’idealismo soggettivo sull’intersoggettivismo relazionale. L’approccio corrente – alla politica, all’economia, alla tecnologia, alla socialità, ai diritti civili – testimonia la crisi dell’Amore come fondamento del vivere. L’egoismo è il nuovo linguaggio. L’autoreferenzialità la sua sintassi. Ogni desiderio è divenuto principio di verità. Ogni fantasia, diritto giuridico e morale. Ogni ambizione particolare, misura cui piegare l’universale. Abbiamo confuso libertà con indipendenza, relazione con dominio. Molti pensatori del Novecento – da Fromm a Bauman, da Arendt a Morin – hanno descritto questa condizione come una crisi dell’amore sociale. E non solo.
Quando si chiude in sé, la persona si isola dal suo stesso significato. La vita stessa perde la sua sacralità. Quella di ogni specie vivente, quella di ogni nuova creatura nel grembo di una mamma, quella di un malato chiamato a vivere il mistero della propria sofferenza, quella dei fratelli che muoiono di fame nell’indifferenza degli empi, quella di ogni persona che ci vive accanto, quella di noi stessi chiamati a compierci secondo verità. Senza l’Amore, tutto è considerato come impedimento all’affermazione smisurata del proprio ego. La libertà diventa monologo. L’identità dogma.

Non è azzardato affermare che i grandi mali che affliggono la nostra società derivano dall’incapacità di amare. Senza Amore tutto muore. I Padri della Chiesa, i Santi ed i Martiri, ci insegnano che la vita è offerta di sé. Che non cè offerta senza Amore. Che non si può amare l’Uomo senza amare Dio. E che non si può amare Dio senza amare l’Uomo. Le due dimensioni procedono insieme. E sono dono (e frutto) dello Spirito Santo. Senza il Suo soffio vitale, siamo destinati ad amare di un amore illusorio, ingannevole ed escludente. Incapace di durare, incapace di donare, incapace di creare. È l’amore senza Amore. Che genera l’uomo senza l’Uomo. E attesta l’idea di un dio senza Dio.
Quando il vero Amore finisce, tutto finisce. Non si tratta di sentimentalismo o di moralismo. In ogni esasperato individualismo (reale o apparente) si nasconde una questione antropologica, decisiva e strutturale. Senza la capacità di riconoscere l’altro come parte del proprio destino, muore l’Umano. «Io divento Io nel Tu», diceva Lévinas. La società contemporanea sembra procedere in direzione ostinata e contraria. L’evoluzione legislativa è chiamata a confrontarsi con questioni cruciali: aborto, eutanasia, identità di genere, famiglia, bioetica, accelerazione tecnologica, umanità aumentata, sostenibilità ambientale, demografica e sociale, pluralismo. Ognuno di questi argomenti ha a che fare con la nostra disponibilità di amare. Facendoci dono. Accogliendo tutto come dono. Anche il dolore. All’intersezione tra diritti non negoziabili, diritti sociali, diritti ambientali, diritti civili e diritti individuali, si intravede una sola soluzione possibile: riscoprirci capaci di amare di un Amore vero. Senza Amore, l’Umanità si inaridisce. Senza Amore non c’è Verità. Senza Verità non c’è Amore. Quando una civiltà perde la grammatica dell’Amore, anche la sua razionalità vacilla. Nasce l’uomo artificiale. Tecnicamente perfetto, moralmente indifferente. Tecnologicamente onnipotente, esistenzialmente solo. Un essere che misura la felicità in utilità, non in legami; in guadagno, non in coscienza. Un uomo che parla di diritti ma dimentica i doveri, che proclama la libertà ma teme la reciprocità. Un uomo che dimentica di essere Creatura. Un Uomo che non sa più riconoscere la propria verità costitutiva. Un uomo disincarnato, sradicato, autarchico. Un uomo in-creato. È come se il progresso avesse moltiplicato le sue possibilità e, allo stesso tempo, annullato la sua capacità di riconoscersi. Le rivoluzioni – politiche, etiche, linguistiche – di cui si è reso protagonista, rischiano di sancire non la sua emancipazione, ma la sua autodistruzione. È la fabbrica dell’uomo senza l’Uomo, dell’uomo contro l’Uomo. È il laboratorio della società senza socialità. È la perdita del principio relazionale che tiene insieme l’Essere Umano ed ogni suo Simile, l’Uomo e la Natura, la Creatura e il Mistero.
È questa, forse, la grande stoltezza dell’Uomo contemporaneo: pensarsi da se stesso. Pensarsi fine a se stesso. Pensarsi sufficiente a se stesso. Credersi autore di se stesso. Negando così il principio primo ed il fine ultimo della sua vita. Che non è in se stesso. È in ciò che lo trascende. E solo in esso può realizzarsi.

Viviamo in un tempo che ha fatto dell’autosufficienza una religione. Ma la Storia ci insegna che l’Umanità non è fatta degli autosufficienti. La maggioranza dell’Umanità è fatta di persone considerate non umanità dagli autosufficienti. Sono i fragili, gli emarginati, gli ultimi, i dimenticati. Sono loro i custodi della vera Umanità. I non amati che non smettono mai di amare. Per ricordarci che la vera Umanità è sopra e prima di ogni condizione sociale, politica, religiosa. È prima e dopo tutti gli autosufficienti della Storia. Muoiono le socialità, resta l’Umanità. Muoiono le politiche, resta l’Umanità. Muoiono le forme religiose, resta l’Umanità. Muoiono le ideologie, resta l’Umanità. Muoiono gli imperi e le civiltà, resta l’Umanità. Tutto muore, l’Umanità attraversa i secoli. In filigrana. In silenzio. Perché la vera Umanità sempre è custodita e conservata vera Umanità dal suo Creatore e Signore. La vera Umanità mai è morta e mai morirà: sempre sarà risuscitata dalle sue macerie.
Fino a quando? Fino alla fine dei tempi. Finché sulla terra ci sarà anche un solo cuore capace di battere il battito dell’Amore vero. Un cuore di Armonauta.
Avvenire

La fragilità dei registri elettronici preoccupa molte scuole italiane

La fragilità dei registri elettronici preoccupa molte scuole italiane

Da quando il registro elettronico ha mandato in pensione i faldoni cartacei nel 2012, le famiglie sono sempre a conoscenza di tutto quel che succede a scuola. Sui software a disposizione di ogni classe, i docenti possono annotare voti, assenze, compiti e note disciplinari informando genitori e studenti in tempo reale. Ma la rivoluzione digitale non ha portato ovunque i frutti sperati. A partire da quest’anno scolastico, alcuni istituti hanno deciso di fare un passo indietro, oscurando i voti sulle piattaforme online per «stimolare gli studenti a prendersi la responsabilità di comunicare i propri risultati di persona alle famiglie». Altre scuole, invece, sono dovute correre ai ripari per arginare gli attacchi informatici ai fascicoli digitali, i cui autori sono per la maggior parte alunni. Nel frattempo, cresce anche la pressione sui genitori, che confessano ai dirigenti scolastici «di vivere in modo ansiogeno quei pallini rossi che arrivano sul cellulare e fanno subito preoccupare tutti per quello che succede a scuola». Tradotto: le notifiche dei voti sulle app degli smartphone.
A segnalare il disagio è Rossana Vircgilio, preside del liceo classico “Ugo Foscolo” di Canicattì, in provincia di Agrigento, che per primo ha introdotto limitazioni all’accesso al registro elettronico. A partire da quest’anno, il collegio dei docenti dell’istituto ha proibito ai genitori la visualizzazione online dei voti scolastici, ma – come tiene a precisare la dirigente scolastica – non si tratta di una punizione per le famiglie: «Abbiamo deciso, assieme a tutti gli insegnanti, di attuare questa sospensione temporanea per portare i ragazzi a parlare più spesso, e meglio, con le famiglie». In pratica, il software a disposizione di docenti e studenti, ormai da settimane, non informa più in tempo reale i genitori degli alunni, per i quali le valutazioni scolastiche tornano visibili solo a qualche giorno dai colloqui – individuali o collegiali – con gli insegnanti. «L’accelerazione tecnologica – commenta Vircgilio – ha molti aspetti positivi, ma talvolta ostacola il confronto in famiglia. Quando i genitori vengono a conoscenza della valutazione nell’arco di un minuto, anche gli studenti perdono le motivazioni per affrontare in casa i turbamenti di un “quattro” o la gratificazione di un “nove”». D’altro canto, l’oscuramento del registro elettronico dovrebbe alleggerire anche il lavoro dei docenti: «Ad alcuni insegnanti – contesta la dirigente scolastica – i genitori vengono a bussare alla porta appena vengono a sapere del voto, per fare precisazioni o rivendicazioni. L’oscuramento dei voti è uno stimolo alla relazione vera, e non mediata dagli algoritmi, anche per le famiglie». Ai genitori, in ogni caso, sarà sempre garantito l’accesso alle valutazioni durante i colloqui con i docenti, che possono essere richiesti ogni settimana.
Gli studenti del liceo “Ugo Foscolo” di Canicattì – assicura la dirigente scolastica – «vivono in modo molto sereno, senza nessuna protesta, il rapporto con il nuovo registro elettronico». Ma non è ovunque così. Ogni anno, dal 2012, si registrano attacchi hacker o violazioni ai registri elettronici di tutta Italia per “ritoccare”, nella maggior parte dei casi al rialzo, i voti scolastici. L’ultimo, in ordine di tempo, ha coinvolto due alunni delle medie in provincia di Mantova che, secondo una indagine condotta a fine ottobre dalla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Brescia, avrebbero violato i software della scuola e alzato i voti di «numerosi altri studenti». «Non parliamo di sciocchezze: in questi casi siamo di fronte a ipotesi di reato con pene da uno a tre anni di reclusione», avverte l’avvocato Dino Caudullo, presidente della Società italiana di diritto e legislazione scolastica (Sidels). Le violazioni degli studenti sono sempre di due tipi: o “rubano” le credenziali dei docenti o praticano veri e propri attacchi hacker ai sistemi informatici della scuola. «Nel caso in cui ottengano indebitamente le password – commenta Caudullo – l’ipotesi principale di reato è l’accesso abusivo ai sistemi informatici. Quando invece si decide di alterare le valutazioni scolastiche o di cancellare alcuni dati presenti nel sistema, le ipotesi di reato diventano più di una: danneggiamento dei dati o, addirittura, diffusione illecita di informazioni. Le pene variano in base alla condotta, ma tutti gli studenti sono imputabili nel momento in cui raggiungono i 14 anni di età». In altre parole, dalla secondaria di secondo grado in poi. Secondo il presidente Sidels, però, la soluzione non è il ritorno ai documenti cartacei ma la formazione all’uso delle tecnologie: «Nella maggior parte dei casi – conclude l’avvocato – gli studenti violano i registri elettronici entrando in possesso delle credenziali dei docenti. È opportuno che gli insegnanti siano educati a non commettere l’imprudenza di lasciarle a disposizione di chi non è autorizzato. È una condotta che potrebbe avere conseguenze disciplinari anche per loro».
Avvenire

Raddoppiate in 8 anni le prescrizioni di psicofarmaci ai giovanissimi

Raddoppiate in 8 anni le prescrizioni di psicofarmaci ai giovanissimi

In meno di dieci anni è più che raddoppiato in Italia il numero di bambini e ragazzi che assumono psicofarmaci. Un minorenne su 175 (lo 0,57% della popolazione under 18), ne ha fatto uso nel 2024, appena otto anni fa erano la percentuale era dello 0,26%. Di pari passo è cresciuto il consumo che è passato da 20,6 a 59,3 confezioni per mille minorenni. Il dato è contenuto nel Rapporto OsMed 2024 sull’uso dei medicinali in Italia, realizzato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) e presentato a Roma.
I farmaci per la salute mentale più prescritti ai giovanissimi sono soprattutto antipsicotici, antidepressivi e farmaci per l’Adhd. Le prescrizioni crescono all’aumentare dell’età, con la fascia 12‐17 anni a registrare il livello di consumo più alto (129,1 confezioni per 1.000 e un livello di prescrizione dell’1,17% dei ragazzi). Il trend è in linea con i risultati di altri studi epidemiologici internazionali, che evidenziano una generale tendenza all’aumento dei tassi di prescrizione di questi medicinali in tutti i Paesi del mondo, soprattutto in seguito alla pandemia.
“In Italia, nonostante l’aumento osservato negli ultimi anni, in parte legato alle conseguenze dell’emergenza pandemica sulla salute mentale di bambini e adolescenti, l’uso dei farmaci psicotropi rimane sensibilmente più basso rispetto ad altri Paesi”, precisa l’Aifa. In Francia ad esempio li utilizza l’ 1,61% dei minori, negli Usa circa un quarto. Per quanto riguarda gli altri farmaci prescritti ai minori in cima alla lista ci sono gli anti-infettivi per uso sistemico, seguiti dai farmaci dell’apparato respiratorio e dai preparati ormonali sistemici, esclusi quelli sessuali e insuline.
L’aumento delle prescrizioni è legata direttamente all’aumento esponenziale del disagio. “Questo aumento non ci sorprende, perché è parallelo all’incremento della prevalenza dei disturbi mentali nei giovanissimi che stiamo rilevando in questi ultimi anni” sottolineano i presidenti della Società Italiana di Psichiatria Antonio Vita e Guido Di Sciascio. Gli esperti esprimono anche una preoccupazione rispetto ad un uso autoprescrittivo. “Si tratta di un trend in crescita segnalato da più parti, dalla psichiatria alla neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, e riguarda diverse condizioni patologiche”. C’è il rischio che questi farmaci inoltre vengano prescritti da servizi non specialistici o non sufficientemente competenti e senza un adeguato monitoraggio, anche in fase di sospensione. Attenzione massima infine, sottolineano gli esperti, da parte dei genitori a custodire i propri psicofarmaci per evitare che vengano assunti dai figli senza controllo.
Nel 2024 la spesa farmaceutica ha fatto registrare un aumento del 2,8% rispetto all’anno precedente, legato non a un incremento dei consumi (che sono rimasti stabili) ma a un un numero crescente di terapie innovative e ad alto costo rimborsate dal servizio sanitario razionale.
Nel complesso, la spesa farmaceutica totale è stata pari a 37,2 miliardi di euro: il 72% (26,8 miliardi) a carico del pubblico, con un aumento del 7,7% rispetto all’anno precedente, il rimanente (10,2 miliardi) a carico dei cittadini, in flessione del 4,6% rispetto allo scorso anno. Stabili i consumi, che si sono attestati a 1.895 dosi di medicinali ogni 1.000 abitanti al giorno. I farmaci per il sistema cardiovascolare sono i più consumati; il primato per la spesa spetta invece ai farmaci antitumorali (8,2 miliardi di euro). Ancora elevato, nonostante un calo dell’1,3% il ricorso agli antibiotici, soprattutto da parte degli anziani. In forte aumento la spesa a carico dei privati per i farmaci contro l’obesità a carico dei cittadini, i cui consumi sono cresciuti del 78,7% in un anno con una spesa di 98,2 milioni di euro.
Tra i trend l’aumento delle terapie avanzate (12 rimborsate nel 2024), dei farmaci orfani (assorbono l’8,3% della spesa pubblica), dei farmaci innovativi (46 tra il 2022-2024).Dal Rapporto “si colgono segnali positivi, come l’aumento del numero di terapie avanzate e farmaci per le malattie rare rimborsati dal Ssn e i risparmi generati in seguito all’ingresso degli equivalenti nelle liste di trasparenza Aifa. Ma c’è ancora da migliorare”, afferma il presidente Aifa, Robert Nisticò. “È fondamentale continuare a promuovere il consumo dei generici, l’aderenza alle terapie, l’appropriatezza prescrittiva e l’uso ottimale delle risorse disponibili, per garantire l’innovazione e le migliori opportunità di cura ai pazienti nel rispetto della sostenibilità del servizio sanitario nazionale”.
Il rapporto dell’Aifa evidenzia come i prezzi dei farmaci in Europa siano in media del 62,5% più alti rispetto a quelli italiani. In particolare, Belgio, Germania, Austria e Svezia sono quelli con i prezzi più elevati. Nel complesso, la spesa farmaceutica con un valore di 672 euro pro capite è in linea con la spesa media europea.
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Comunità, non istituti: nelle case famiglia bimbi e genitori guariscono insieme

Una mamma col suo bambino in una casa famiglia / Ansa

Comunità di tipo familiare, case-famiglia, strutture d’accoglienza per minori, comunità alloggio. Sono denominazioni, alcune corrette altre meno, che in questi anni, soprattutto dopo il caso Bibbiano, hanno assunto a livello mediatico un suono quasi sinistro. Come se l’obiettivo di queste realtà fosse soltanto quello di “portare via i bambini dalle famiglie”. Naturalmente non è così, ma complice una certa narrazione tutta a tinte fosche sostenuta anche da certa politica – con inchieste parlamentari brandite come clave che poi non hanno portato a nulla – e anche qualche criticità del sistema, è stato facile far passare le comunità come il buco nero del nostro apparato di protezione dei minori fuori famiglia. Il convegno del Coordinamento nazionale comunità di tipo familiare (Cncm) che nei giorni scorsi a Venezia ha festeggiato i primi 35 anni di vita aveva quindi tra i suoi obiettivi – oltre a fare il punto sullo stato dell’arte delle comunità di accoglienza per minori, ad analizzare i bisogni di supporto, formazione e supervisione degli educatori nella gestione delle complesse dinamiche relazionali ed emotive proprie del loro incarico, ad approfondire il tema della collaborazione e del dialogo tra educatori delle comunità e gli altri adulti di riferimento per i minorenni accolti – quello di girare pagine rispetto agli anni della gogna mediatica. Impegno doveroso per le stesse comunità ma, soprattutto, per i circa 20mila minori che vi sono accolti e per le loro famiglie.
«Da diversi anni – spiega Gianni Fulvi, presidente del Cncm – si assiste da un lato a continue critiche al sistema di accoglienza dei minorenni nelle comunità da parte di rappresentanti delle istituzioni, dell’opinione pubblica e del panorama mediatico, dall’altro si registra un costante aumento del numero di minorenni accolti in comunità. Tra questi, sono sempre di più quelli che presentano complessità dal punto di vista psicologico mentre sembra aumentare la difficoltà del sistema sanitario a farsi carico di tali problematiche». Fanno capo al Coordinamento nazionale delle comunità di tipo familiare oltre 300 realtà. Una fetta importante delle oltre tremila comunità esistenti in Italia inserite in altre reti. Tra le più importanti, Uneba, Lega Coop, Cnca, Comunità Papa Giovanni XXIII. Ma, al di là delle sigle, la linea emersa a Venezia dal confronto con tanti esperti – presenti anche delegazioni di altri Paesi, tra cui rappresentanze della Federazione internazionale delle comunità educative – segna un punto fermo rispetto all’esigenza di mettere al centro non solo il “superiore interesse del minore”, ma anche quello di tutelare e accompagnare bambini e ragazzi insieme alle loro famiglie. Se i genitori, come spesso capita, mostrano difficoltà e inadeguatezze, non vanno messi da parte ma inseriti in un progetto che preveda la possibilità di incrementare le loro competenze educative e relazionali. «In questi giorni l’abbiamo ripetuto in tanti modi – continua Fulvi – mai tagliare i rapporti tra i minori e le famiglie d’origine, tranne in situazioni limite, casi di abusi e maltrattamenti pesanti valutati dall’autorità giudiziaria».
Un’attenzione che, come emerso durante il convegno, si estende ormai anche ai minori stranieri non accompagnati, sia con le prime esperienze pilota di centri d’accoglienza che ospitano padri e minori insieme – succede a Catania e in Friuli – sia con una comprensione nuova rispetto alla sofferenza delle madri rimaste nei Paesi d’origine quando i loro figli partono per l’Europa. Due giornalisti che da anni studiano il fenomeno, Luca Attanasio e Ibrahim Lou, hanno raccontato nell’ambito del progetto Mum’s come le mamme del Gambia e del Mali vivano uno strappo affettivo che segna tutta la storia familiare. Un risvolto umano che troppo spesso viene messo da parte. L’idea che ha attraversato tutto il dibattito va invece nel segno opposto, sostenere e curare l’intera famiglia per prevenire e – quando è possibile – porre riparo a tutte le separazioni. In questa prospettiva si pone, tra gli altri, l’intervento della filosofa Maura Gancitano, che ha spiegato come le relazioni genitoriali non siano mai semplici legami biologici, ma spazi simbolici, affettivi e sociali in cui si forma l’identità dei bambini e dei ragazzi. «La filosofia – ha sottolineato – può offrire strumenti per comprendere come queste relazioni vadano intese come pratiche di cura reciproca, capaci di sostenere la crescita nella vulnerabilità». Ma esistono progetti già rodati per prevenire gli allontanamenti e favorire la riunificazione familiare? Certo, Paola Milani, docente di pedagogia sociale e pedagogia delle famiglie all’Università di Padova, ha raccontato il “progetto Pippi” (Programma di Intervento per prevenire l’Istituzionalizzazione) di cui è responsabile nazionale che è il più ampio programma finanziato nella storia delle politiche sociali in Italia per la prevenzione della vulnerabilità familiare. Le parole chiave di Pippi sono sufficienti a definirne gli obiettivi: genitorialità; riunificazione familiare; bisogni di sviluppo; partecipazione. «La prospettiva nella quale queste nozioni vengono situate – ha sottolineato Milani – è quella di un welfare integrato nel quale siano ugualmente presenti interventi di promozione, prevenzione e protezione che vedano la piena partecipazione di bambini e figure genitoriali e il riconoscimento di un ampio range di azioni di parenting support come intervento di elezione».
Quando il proposito di far viaggiare insieme interventi sui minori e interventi sui genitori si realizza concretamente, allora – come ha fatto notare Stefania Bon, presidente degli assistenti sociali del Veneto – il modello delle comunità di tipo familiare si conferma come un presidio essenziale nel sistema di tutela. Non soltanto una risorsa di prossimità, ma un luogo di relazioni autentiche, capace di offrire ai minori accolti un ambiente in cui ritrovare fiducia, stabilità affettiva e opportunità di crescita». Concetto messo in luce anche da Giorgio Tamburlini, pediatra, presidente del Centro per la Salute dei bambini e delle bambine, secondo cui le carenze delle famiglie d’origine vanno curate con lo stessa competenze e la stessa solerzia di quelle dei minori, in caso contrario ogni proposito di integrazione è destinato a fallire. Il riferimento è anche al problema dei “rientri” dei minori nella famiglia d’origine dopo un periodo più o meno lungo trascorso nelle comunità. Non tutti i “rientri”, purtroppo, si concludono in modo positivo e, per i minori, si devono riaprire le porte delle strutture d’accoglienza. «Ogni rientro fallimentare – ha ripreso Gianni Fulvi – è un evento devastante e ogni comunità deve porre la massima cura per evitare queste ipotesi». Un rischio che si può prevenire, è stato spiegato, anche con una formazione più accurata e più specifica degli educatori. Ma oggi, nel nostro Paese, nelle facoltà di pedagogia e di scienze educative, la figura dell’educatore per comunità d’accoglienza di tipo familiare è quasi sconosciuta. Non esiste alcun percorso universitario specifico per fornire alle comunità professionisti dell’accoglienza che, nelle maggior parte delle situazioni, devono rivestire i panni impegnativi dei “genitori pro tempore”.
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Il bello di portare l’amore a chi non ha conosciuto l’amore

Il bello di portare l'amore a chi non ha conosciuto l'amore

Il mondo che guardiamo è incerto e l’ansia sta diffondendosi a dismisura tra guerre, ingiustizie, normalizzazione del dolore, crisi economiche, violenze e paure interiori… E proprio in questo tempo, dominato da attacchi di panico e da una fatica nascosta al cuore, la speranza si fa urgente e necessaria. Nel contesto del Giubileo del 2025, proclamato da Papa Francesco come Giubileo della Speranza, risuona forte l’invito a camminare insieme, pellegrini verso luoghi antichi e interiori di grazia. Il vero giubileo, la vera Porta Santa, è imparare a superare e attraversare la crisi, vincendo il muro dell’indifferenza e facendoci solidali. Se penso al mio primo incontro in strada con Angelo, un ragazzo che ho salvato da un’overdose, circa oramai 30 anni fa, ricordo che mi mostrò un murales dove — prima di tentare il suicidio appena sventato — aveva scritto: «Nonostante la vostra indifferenza noi esistiamo». Nella Bolla Spes non confundit leggiamo: «Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza», poiché solo la Parola può riaccendere nel cuore la fiducia che salva.
Papa Leone XIV, fin dal suo primo saluto, ha voluto seminare speranza attraverso le parole di Gesù Risorto: «Pace a voi», invitando tutti noi a fare la nostra parte disarmando i nostri cuori e le nostre parole. Perché la pace e la speranza si costruiscono un mattoncino alla volta, iniziando dall’amare concretamente chi abbiamo accanto e vivendo la «carità della porta accanto», tanto cara a Papa Francesco e spesso citata da Papa Leone. Nel messaggio per la IX Giornata Mondiale dei Poveri (13 giugno 2025), il Santo Padre afferma: «In mezzo alle prove della vita, la speranza è animata dalla certezza, ferma e incoraggiante, dell’amore di Dio, riversato nei cuori dallo Spirito Santo … la speranza cristiana è come un’àncora, che fissa il nostro cuore sulla promessa del Signore Gesù». Questa speranza, non evanescente, germoglia dalla fedeltà gioiosa di Dio.
«Sono tempi cattivi, tempi penosi!» si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. «I tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi» (Agostino, Discorsi, 80,8). Papa Leone ha citato questa frase incontrando gli operatori dei mezzi di comunicazione. Il Pontefice ci ha ricordato che «la più grave povertà è non conoscere Dio» e che nei momenti in cui la carità viene meno, il rischio più grande è togliere speranza al prossimo, rimarcando la responsabilità reale che abbiamo l’uno verso l’altro. Se da una parte siamo chiamati a un agire libero, consapevole e responsabile, ad essere noi costruttori di speranza abbattendo i muri dell’indifferenza, dall’altra dobbiamo avere chiaro che cosa sia la speranza cristiana. Nella sua enciclica Spe Salvi (30 novembre 2007), Papa Benedetto XVI ci invita a una comprensione più profonda della speranza: non è un semplice «sperare di cavarsela», ma è un dono della fede che agisce già nel presente. La speranza cristiana è definita come «sostanza delle realtà che si sperano» e «prova delle cose che non si vedono» — un’ancora verso un futuro che entra ora nella vita. Aver fatto esperienza di Dio che è Amore significa avere speranza di ciò che sarà grazie a ciò che già abbiamo sperimentato: Lui è l’Emmanuele, il Dio con noi, che non ci lascia mai soli e che ha già vinto!
Papa Benedetto ci spiega che la speranza terrestre — una volta realizzata — si rivela spesso vuota, perché non può saziare il cuore. Solo la speranza infinita che ha radici nell’amore di Dio può gioire veramente ed essere trasformativa. Tutti abbiamo un bisogno fondamentale di amare ed essere amati realmente e per ciò che siamo, e solo Dio può rispondere a questo bisogno! Ma non è sufficiente guardare in alto: la speranza deve scendere dove viviamo davvero, nelle relazioni, nella cura, nello sguardo che riconosce l’altro — soprattutto il povero — come fratello e sorella, come chi custodisce una speranza più grande. Il Giubileo 2025 ci richiama a incontrare le Porte Sante e a unirci a Cristo in cammino nei nostri cuori, famiglie, città: pellegrini che portano speranza. Non ho mai pensato di fondare qualcosa… Eppure, se ci si mette in cammino, seguendo il Signore, non si può restare sordi dinnanzi al grido dell’umanità che ci sta accanto. È così che è nata Nuovi Orizzonti. Una realtà che ha proprio come mission portare la gioia a chi ha perso la speranza e dischiudere nuovi orizzonti a chi vive situazioni di profondo disagio. Da una semplice esperienza di ascolto in strada a una prima sede un po’ accampati, oggi Nuovi Orizzonti è una Comunità Internazionale, che raggiunge 40.000 persone in 80 Paesi con il percorso di conoscenza di sé e guarigione del cuore chiamato Spiritherapy e con più di 231 centri di accoglienza, orientamento e formazione e 1.020 equipe di servizio impegnate in diversi ambiti, ponendosi l’obiettivo di intervenire in tutti gli ambiti del disagio sociale realizzando azioni di solidarietà a sostegno di chi è in grave difficoltà, con una particolare attenzione alle tante problematiche che caratterizzano i ragazzi di strada e il mondo giovanile.
Nuovi Orizzonti è un nome che già di per sé offre speranza e una via di uscita alle tante situazioni di disagio sociale. L’orizzonte è il punto di incontro tra la terra e il cielo. Dai primi anni ’90 quando andavo da sola di notte alla Stazione Termini di allora, per ascoltare il grido di tanti giovani vittime di dipendenze, prostituzione, violenza, si è sviluppata nel tempo una realtà molto articolata che opera ad ampio raggio nella prevenzione, nell’accoglienza, nell’evangelizzazione di strada, nella cooperazione internazionale e in tanti altri ambiti come la comunicazione o l’arte e lo spettacolo, custodendo la scintilla iniziale: «Portare l’amore a chi non ha conosciuto l’amore, la luce a chi vive nelle tenebre, la vita a chi è nella morte, la pace e l’unità là dove c’è angoscia e divisione, il paradiso della comunione con Dio a chi vive nell’inferno del peccato» (Statuti Generali Art. 4). Non a caso il carisma specifico è portare la gioia di Cristo ponendo una particolare attenzione al mistero della discesa agli inferi di Gesù e alla sua Risurrezione.
Oggi le problematiche più palesi sono solo la punta dell’iceberg di un disagio molto più profondo e diffuso. Si può chiamare anoressia, alcolismo, tossicodipendenza, sesso dipendenza, ludopatia, internet addiction, social dipendenza, shopping compulsivo… ma sotto c’è sempre un bisogno più profondo inascoltato o mal soddisfatto: il bisogno di amare ed essere amati. Tutti cerchiamo la felicità. Il problema è quali risposte troviamo o ci diamo per essere felici. Spesso si ricorre a palliativi che ci rendono più infelici e creano dipendenze mortali. Inoltre non diamo ascolto alla parte più profonda di noi, a quella parte spirituale che ci caratterizza e ci rende unici. Non a caso il percorso di Spiritherapy che dalla Pandemia si è diffuso in 80 Paesi del Mondo raggiugendo 40.000 persone, è un percorso basato sul Vangelo per imparare l’Arte di Amare attraverso un cammino di conoscenza di sé e guarigione del cuore, perché solo Colui che è l’Amore può insegnarci ad amare veramente e in modo pieno e perché solo Colui che fascia le «piaghe dei cuori spezzati» può guarire le ferite profonde del cuore.
E allora, proprio per la mia esperienza sul campo in più di 30 anni contemplando tanti giovani passare dalla morte alla vita, posso dire che la speranza che abbiamo è fondata. E alla domanda: «In cosa speriamo?» rispondo così:
Speriamo in una Speranza che ha un nome, quello di Gesù, luce vera che illumina le tenebre.
Speriamo in una Speranza che scava, rompe le croste dell’indifferenza e della disperazione, e trova il cuore di ciascuno.
Speriamo in una Speranza che ci chiama all’azione e ci rende semi, capaci di germogliare gesti di pace, bellezza, gratuità — là dove tutto sembra chiuso.
Speriamo in una Speranza non fragile, anzi — forte e affidabile — perché si fonda sull’amore fedele di Dio, su una fede viva e su un futuro che già abita il presente.
Quando disperi, quando ti senti abbattuto, ricordati che non sei solo/a, non c’è buio senza fondo, ma anzi, come diceva santa Teresina, più in basso sei caduto più in alto potrai tornare se ti metti nelle mani di Dio! In questa nostra storia personale e collettiva, la Speranza — quella vera — invita a restare, ad alzare lo sguardo, a tendere la mano. Camminiamo insieme, pellegrini di un tempo santo, verso cuori aperti e cieli nuovi. Sii luce — luce fragile ma vera —: con un sorriso, un ascolto, una carezza silenziosa. Anche il seme più piccolo può fiorire quando esposto alla tenerezza di chi crede. E allora: «In cosa speriamo?». Nell’amore che salverà, che rinnova, che non delude. In un mondo assetato di consolazione, sii sorgente — con il tuo amore, il tuo tempo, il tuo impegno. Lasciati toccare dalla gioia che non passa, dal soffio che rinnova, dalla promessa che vince la morte. Insieme, rendiamo il nostro tempo più umano, più vero, più bello. Speriamo: non come chi non ha altra via, ma come chi ha trovato la Via, la Verità, la Vita — e vive già, dentro di sé, la novità dell’eternità.
avvenire