Libro. Itinerario geografico-teologico di Mosè

di: Roberto Mela

mose11

L’autore, Michelangelo Priotto, è presbitero della diocesi di Saluzzo (CN). Dopo il conseguimento della laurea in Teologia Biblica presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, ha conseguito, nel 1985, il dottorato in Scienze Bibliche al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Ha insegnato alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e all’ISSR di Torino, ed è stato direttore della rivista Parole di Vita dal 1996 al 2007. Attualmente è professore ordinario allo Studio Teologico Interdiocesano di Fossano (CN) e professore invitato allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.

Dopo aver illustrato il cammino geografico-teologico dei patriarchi della Genesi, in questo nuovo studio Michelangelo Priotto offre il profilo del cammino geografico–teologico di Mosè, l’ultimo grande patriarca del Pentateuco.

Nella premessa del libro egli riassume felicemente il contenuto e la finalità dello studio compiuto. Si fa notare che l’attenzione primaria si fissa sulla sua persona e, in particolare, sul suo dialogo con YHWH. Vengono perciò selezionati e commentati i passi più̀ significativi che delineano il cammino interiore dell’incontro di Mosè con Dio, a cominciare dai prodromi connessi con la sua nascita miracolosa sulle rive del Nilo fino alla sua morte ai piedi del monte Nebo.

L’oggetto di questo studio è il Mosè letterario, quello cioè che appare dalle pagine del racconto biblico. Non si tratta però di una semplice figura creata dal narratore, bensì̀ del ritratto teologico delineato dalla generazione dell’esilio, che, sulla scia di una lunga tradizione, voleva non solo celebrare il personaggio, ma proporlo come modello della rinnovata fede in YHWH.

Quello che ci descrive la pagina biblica è un Mosè vivo, profondamente legato al suo popolo e, allo stesso tempo, testimone di un’intensa ricerca e comunione con l’Altissimo.

In concreto, verranno descritti i tratti essenziali del rapporto di Mosè con Dio che emergono dalla narrazione dei libri dell’Esodo, dei Numeri e del Deuteronomio; non si tratta di tre personaggi diversi, ma di un’unica figura plasmata dall’articolazione di una storia ricca e appassionante.

Dopo le Sigle e le Abbreviazioni (pp. 5-6), l’autore espone una premessa generale al suo lavoro (pp. 7-10).

«Il principio ispiratore della precedente ricerca – ricorda Priotto – si basava sull’assunto che la descrizione degli spostamenti geografici dei patriarchi significasse anche e soprattutto un itinerario esistenziale alla ricerca di quel Dio che li chiamava ad attuare il suo progetto salvifico. Anche nel caso di Mosè l’itinerario geografico è molto significativo e ampio, perché include ben quattro libri biblici: l’Esodo, il Levitico, il libro dei Numeri e, infine, il libro del Deuteronomio» (p. 7).

«Quello che ci descrive la pagina biblica – prosegue l’autore – è un Mosè vivo, profondamente legato al suo popolo e, allo stesso tempo, testimo­ne di un’appassionata ricerca e comunione con Dio. Non era sufficiente una tradizione storica autentica ma scarna di particolari biografici; la memoria scritturistica, guidata dallo Spirito, ha riempito, per così dire, lo spazio esistenziale mostrando come l’uomo Mosè abbia incontrato Dio e si sia abbandonato a lui in profonda comunione» (ivi).

Senza indulgere a commenti meramente psicologici, il volume intende dimostrare «come sia proprio questa comunione dialogica con Dio a costituire la ragione interiore degli avvenimenti narrati e la trama spirituale della biografia mosaica» (p. 8).

Nello studio di Priotto viene privilegiato «lo studio dei passi in cui questo dialogo si fa esplicito e costitu­isce di fatto la fonte degli avvenimenti narrati. Se, nella premessa narrativa del libro dell’Esodo, è Dio che interviene gratuitamente nella storia di Mosè, dopo l’esperienza teofanica al roveto l’incontro con lui diventa dialogo vocazionale, contemplazione te­ofanica, preghiera di intercessione, dialogo liturgico nella Tenda del convegno.

Se, in una prospettiva soltanto critica e umana, questo dialogo fra Mosè e Yhwh rischia di essere relegato soltanto nell’ambito dell’autocoscienza, senza alcuna fon­dazione reale – ammonisce Priotto –, lo studio accurato dei passi biblici inerenti ad esso mostrerà la realtà di questa presenza divina nella vita di Mosè. La vicenda esistenziale di Mosè con i suoi tratti positivi e negativi, entusiasmanti e problematici, di abbandono fiducioso e di contestazione, mostrano quanto l’incontro con Yhwh incida concretamente nelle scelte dell’azione del patriarca» (p. 8).

Il volume dello studioso si articola in tre parti: Il Mosè dell’Esodo: alla ricerca di Dio; Il Mosè dei Numeri: fedeltà e innovazione; Il Mosè del Deuteronomio: verso la vera Terra promessa.

Il primo aspetto di Mosè analizzato è quello presente nel libro dell’Esodo. È un Mosè alla ricerca di Dio. Priotto presenta il libro, il secondo del Pentateuco, con la sua struttura e la sua collocazione nel Pentateuco, di cui ricorda il problema critico. L’autore affronta la figura storica di Mosè: il nome, il retroterra storico della tradizione dell’esodo, la parentela madianita di Mosè, gli inizi del culto di YHWH e si chiede se esista un Mosè dimenticato.

L’autore segue e analizza i principali passi del libro.

Priotto presenta l’Egitto, il paese di Mosè: contesto, una casa di schiavitù (Es 1,8-22), dalla casa materna alla corte. Illustra quindi il paese di Madian, la fuga di Mosè in quel paese e varie figure incontrate: Ietro, Reuel, Obab, con la domanda circa l’esistenza di un culto yahwista qenita ed edomita.

Dopo la descrizione dei qeniti e degli edomiti, Priotto si sofferma sul dialogo vocazionale presente in Es 3–4, analizzando le fonti, la struttura e il contenuto della pericope. Sono presenti dialoghi vocazionali, l’autoproclamazione di YHWH, un primo invio con l’identità di Dio e quella di Mosè.

A un confronto serrato tra Mosè e YHWH seguono un secondo invio, con azioni e segni e un terzo invio con l’ultima obiezione di Mosè e risposta divina, la risposta positiva di Mosè e di Aronne, la partenza, l’attentato alla vita di Mosè (Es 4,24–26), l’incontro con Aronne e l’arrivo in Egitto.

In Es 5,22–7,7 c’è un nuovo dialogo vocazionale, con la crisi e la riconferma, la critica di Mosè e una doppia risposta di YHWH. All’oracolo di YHWH, seguono la riconferma e la genealogia di Mosè e di Aronne, con la missione di Mosè al faraone.

Un altro blocco narrativo analizzato da Priotto è Es 24,12-18; 32-34. Esso concerne la teofania, con il dialogo e la preghiera. Mosè sale sul monte e, al peccato di Israele, fa seguito la doppia intercessione di Mosè e il perdono. Mosè chiede di vedere la gloria di YHWH e, quando scende dal monte, il suo volto brilla di splendore.

Il complesso letterario di Es 40,1-38 riporta l’erezione della Dimora, luogo di presenza che offre l’occasione di un profondo dialogo tra Mosè e YHWH.

Nel trarre le conclusioni circa la presentazione della figura di Mosè nei vari libri biblici, citeremo espressamente le parole dello studioso, altrimenti difficilmente sintetizzabili.

«Nonostante lo scetticismo moderno, è tuttavia evidente – annota Priotto – che non si tratta di una figura inventata dal clero giudaico durante l’esilio di Babilonia nell’intento di ricostruire un’identità ebraica minacciata dalla scomparsa dell’Israele precedente. La tradizione orale e soprattutto cultuale – si pensi alla celebrazione della Pasqua o all’incipit del Decalogo – aveva conservato la memoria storica di una figura fondatrice della fede in Yhwh, liberatore dalla schiavitù egiziana e portatore di una fede e di una regola di vita in un nuovo paese. La grandezza e la novità di questa memoria mosaica consisteva nel fondare l’esistenza di Israele non su una monarchia, come d’abitudine nel Vicino Oriente Antico, bensì sulla profezia, sulla parola di un Dio rivelatore, grazie alla testimonianza di un uomo di fede, Mosè appunto. La tradizione seguente conserva, arricchisce e attualizza l’esperienza di questo profeta fondatore; di qui la ricchezza e anche la pluralità delle tradizioni raccolte in quel libro delle memorie che è il libro dell’Esodo» (p. 130).

Mosè arriva all’esperienza di YHWH come un Dio che lo ama e lo invia in missione. L’uomo è capax Dei. L’esperienza che Mosè gode nella teofania al roveto ardente è la vera meta dell’esodo: la comunione con Dio.

Mosè riceve, però, il dono di un’esperienza divina ancora più forte e importante di quella ricevuta al roveto ardente; è quella della teofania sinaitica. «[È] l’esperienza di una presenza personale – è a lui che Yhwh anzitutto appare – e di una presenza assolutamente gratuita. I fenomeni, pur nella loro eccezionalità, permangono nell’ordine della natura, ma servono come segno e invito all’uomo a guardare in alto, oltre sé stesso. La presenza di Dio si manifesta però nella Parola. È evidente che non si tratta semplicemente di un’esperienza uditiva, perché i locutori del Decalogo sono due» (p. 131).

Nella seconda teofania si accresce il dialogo tra YHWH e Mosè. Mosè riceve la Parola, dialoga, chiede di vedere la Gloria di YHWH.

«Il dono della presenza teofanica – annota Priotto – diventa strutturale grazie all’erezione della Dimora e, in particolare, alla Tenda del convegno che ne costituisce il cuore (c. 40). I due simboli che rappresentano la presenza di Yhwh, la nube e la gloria, ne definiscono pure la qualità: si tratta della presenza di un Dio trascendente, ma anche immanente e aperto alla comunione con l’uomo. I due simboli sono significativi, perché la nube, con la sua opacità, impedisce l’accesso diretto alla divinità, proteggendola da sguardi indiscreti o manipolatori; la gloria, da parte sua, dice invece lo “spessore”, cioè la visibilità di questa presenza che si fa vicina all’uomo. Ora è in questa presenza trascendente e immanente che Mosè viene invitato ad entrare, non più eccezionalmente, come al Sinai e in alcuni altri futuri momenti, ma abitualmente tramite il ministero della profezia e l’esercizio del ministero liturgico» (p. 132).

Il Mosè del libro dei Numeri presenta degli aspetti di fedeltà ma anche di innovazione. Priotto offre una premessa al libro, con cenni sulla sua origine e formazione. Si sofferma poi sulla struttura letteraria e geografico-teologica, sottolineando unità e coerenza letterarie nelle tre parti: Nm 1,1–10,10; 10,22–21,35; 22, –36,13.

Viene descritto un viaggio che è teologico (9,15-23).

Priotto si sofferma dapprima sul tragitto dal Sinai a Qades Barnea (Nm 10,11–12,16), in cui emerge la guida di YHWH e una doppia contestazione: a Taberà e a Kibrot-Taavà, con due dialoghi tra Mosè e YHWH. Il commento di Priotto si conclude sulla contestazione di Aronne e di Maria.

Nm 16 riporta la rivolta di Core, Datan e Abiràm.

Il peccato di Mosè (Nm 20,1-13) consiste nel percuotere la roccia due volte col bastone, invece di parlare ad essa pur col bastone in mano.

Nm 21 descrive il viaggio verso la terra di Moab, con la vittoria di Corma e l’episodio del serpente di bronzo. Da Obot si giunge all’Arnon, con la vittoria su Sicon, re di Chesbon. Descritta la situazione storico-geografica della regione di Chesbon e commentato il canto di Chesbon, viene presentata la figura di Mosè, il conquistatore (Nm 21,32-35).

Priotto offre a questo punto un excursus sulla tradizione del Mosè guerriero (pp. 218-224). Dalle tracce delle guerre di Mosè nella tradizione biblica, si passa alla conquista della terra e le guerre di Mosè secondo Ecateo di Abdera. Si illustrano le campagne etiopiche di Mosè in Artapano e in Flavio Giuseppe, per concludere con una storia delle guerre etiopiche di Mosè all’epoca persiana.

Nm 27,12-23 riporta il racconto della successione di Giosuè. Priotto ne illustra il contenuto e la struttura, per poi passare al commento. Si ricorda la redazione post-sacerdotale di Nm 27,12-23 e l’evidenza della figura di Eleazaro.

Nm 31 ricorda la guerra contro Madian e, dopo il commento, lo studioso descrive la popolazione dei madianiti.

Nm 32 riporta la spartizione della terra transgiordanica. L’autore commenta le problematiche letterarie e l’articolazione dell’unità, con una riflessione conclusiva.

Secondo Priotto, la peculiarità della figura di Mosè appare soprattutto in Nm 21–36.

A primo acchito, sembra che il tema principale sia il fatto che, a causa del peccato, sia Maria, che Aronne e Mosè devono morire. «Questa sezione del libro – annota lo studioso – si distacca dalle due precedenti, perché ha di mira soprattutto le prospettive dell’imminente sedentarizzazione. Inoltre, ed è molto significativo, questi capitoli finali affrontano il problema di una sedentarizzazione fuori dei confini della Terra promessa, come attestano vari testi» (p. 249).

«Al c. 32 Mosè, nonostante la perplessità iniziale, acconsente all’installazione di alcuni gruppi israelitici in Transgiordania, legittimando così – ricorda Priotto – la possibilità della diaspora. Certo, si difende il principio dell’unità e della solidarietà con gli altri gruppi israelitici, e questo deve avvenire prima, ma è importante l’affermazione che l’unità del popolo di Dio non è legata ad una unità geografica.

I cc. 27 e 36, che inquadrano l’ultima parte del libro affrontano il problema dell’eredità delle figlie di Selofcad, che appartengono al gruppo di Machir, della tribù di Manasse parzialmente stanziata in Transgiordania. Esse ottengono di poter ereditare la terra del proprio padre, nonostante la tradizione insegnasse che solo i figli maschi potevano ereditarla (27,5-8); possono, inoltre, ereditare anche se sposate con un uomo di un’altra tribù. Questa legiferazione apre dunque la possibilità di una pluralità di modi di appartenenza alla comunità di Israele, sia all’interno della Terra promessa che all’estero, qui in Transgiordania, dove risiede appunto parte della tribù di Manasse» (p. 249).

La Dimora non appare più al centro dell’organizzazione della comunità, come avveniva nei precedenti capitoli del libro.

«I membri dei gruppi israelitici autorizzati a installarsi in Transgiordania appartengono alla seconda generazione di coloro che sono usciti dall’Egitto – annota Priotto –; per essi, come per gli altri, gli avvenimenti del deserto sono paradigmatici (cf. 32,6–7). La loro installazione fuori della Terra promessa avviene sotto l’autorità di Mosè, accompagnata da Giosuè ed Eleazaro (32,28). Non si tratta, dunque, di una trasgressione, ma si inscrive nel quadro delle possibilità legali offerte agli Israeliti. Se la presenza del sommo sacerdote Eleazaro conferma la dimensione teocratica e ierocratica dell’organizzazione della comunità israelitica, legittima comunque delle modalità pluralistiche di appartenenza alla comunità. La fede giudaica può essere vissuta all’ombra del Tempio, ma anche nella diaspora. Pur riconoscendo la dimensione ierocratica della comunità, questi ultimi capitoli sottolineano ugualmente il ruolo e il valore dei responsabili non-sacerdotali» (pp. 249-250).

In questa terza parte del libro la figura di Mosè non solo non scompare, ma è attiva e autorevole.

«Certo – annota Priotto – c’è il riconoscimento della sua colpa, con la conseguenza della non entrata nella Terra promessa; ma questa potrebbe essere anche il segno di una concezione della terra meno legata alla territorialità fisica e più connessa all’unità di fede tra i membri del popolo di Dio. Al tempo della redazione del libro dei Numeri, verso la fine dell’epoca persiana e l’inizio dell’epoca ellenistica, l’autorità di Mosè significa soprattutto l’autorità di una Torà capace di rispondere alle nuove esigenze della comunità, pur nella fedeltà di fondo alla rivelazione che essa incarna. Si apre così la prospettiva di un giudaismo vissuto alle frontiere di Canaan e con ciò in rapporto diverso rispetto agli ambienti sacerdotali. Questa finale di Numeri – prosegue lo studioso – potrebbe avere la stessa funzione della finale del libro della Genesi con la storia di Giuseppe: la legittimazione di un giudaismo vissuto in diaspora. L’unità letteraria del libro rimane, ma si tratta di una unità dinamica e teologica; non serve soltanto a raccogliere in un contenitore le tradizioni e le disposizioni non recepite precedentemente nella Torà, ma a rispettare anche le diversità di un giudaismo che, nell’ultima parte del libro, si presenta con tratti particolari rispetto alla descrizione delle prime due parti (p. 250).

mose2

Priotto si sofferma infine a lungo sul Mosè del Deuteronomio verso la vera Terra promessa. Egli introduce dapprima al contenuto e all’importanza del libro, alla sua formazione, alla sua caratteristica quale proposta di un ideale, alla sua struttura. L’autore commenta il ruolo del Deuteronomio in quanto chiusura del Pentateuco.

Come nei capitoli precedenti, lo studioso illustra e commenta i passi principali del libro.

Egli presenta e commenta il primo discorso di Mosè (Dt 1,1–4,43), presentando di seguito la struttura, il commento e il messaggio. Si commentano gli episodi di Esodo-Numeri (1,16–3,29): dall’Oreb a Qades Barnea, da Seir a Bet Peor, da Seir attraverso Edom, il passaggio nel territorio moabita e ammonita. Seguono le vittorie su Sicon e su Og, i preparativi per la conquista, con la preghiera di Mosè (3,8-29) e l’esortazione finale (4,1-40) che, dopo un prologo, presenta una parenesi e un epilogo.

Dt 4,44–5,33 riporta la mediazione di Mosè allOreb. Sono riportate la teofania, la mediazione di Mosè, il fatto di una parola parlata e ascoltata.

Una seconda supplica di Mosè è riportata in Dt 9,26-29.

Dt 18,9-22 presenta Mosè come il profeta.

In Dt 27–28 viene riportata la risposta al dono della Torah. Priotto espone, dapprima, il contesto e, in seguito, la struttura e la teologia di Dt 27,1-26 e quella di Dt 28,1-69. Quest’ultima pericope viene studiata nelle sue suddivisioni: 28,1-14.15-46.47-68.69.

Dt 31,1-30 riporta la scrittura della Torah. Lo studioso ne esamina la struttura e l’articolazione teologica, per proporre in seguito un commento sintetico.

Dt 32,1-47 contiene il cantico di Mosè. Il cantico vero e proprio è riportato nei vv. 1-43, di cui Priotto offre una presentazione letteraria e gli elementi teologici essenziali. All’introduzione (Dt 31,30), seguono il proemio (32,1-3), il Cantico di Mosè (Dt 32,4-43) e la sua conclusione narrativa (Dt 32,44-47).

Il drammatico annuncio della morte di Mosè è raccontato in Dt 32,48-52. Priotto ne presenta il contesto letterario e teologico, a cui fa seguire il commento vero e proprio.

Dt 33 presenta il canto di benedizione. Dopo l’introduzione narrativa (33,1), seguono la teofania (33,2-5) e le benedizioni (33,6-25). Dopo una breve premessa, Priotto propone il suo commento. Dt 33,26-29 chiude il capitolo con la conclusione salmica, anch’essa debitamente commentata dallo studioso.

Dt 34,1-12 riporta la morte di Mosè, la conclusione del Deuteronomio e del Pentateuco. Alla presentazione del testo segue il consueto commento.

Il lavoro di Priotto si avvia al suo compimento con una sintetica conclusione (pp. 401-402) e una riflessione sul dono di Mosè (pp. 403-404).

La pagina conclusiva del libro del Deuteronomio presenta l’esito della vita di Mosè. Il suo itinerario esistenziale non è scontato, «perché, se per tre volte risuona il divieto di Yhwh a Mosè di attraversare il Giordano (Dt 1,34–37; 3,26–27; 4,21–221), non si parla mai della sua morte; certo, egli riconosce di avere centovent’anni e di non essere più in grado di entrare e di uscire (Dt 31,2), cioè di guidare militarmente gli Israeliti, ma non di essere incapace di attraversare il Giordano. Il tema è quello dell’entrare nella Terra promessa, non della morte; come conferma, d’altronde, il commento del narratore, che riconosce a Mosè appena morto un’eccezionale vigoria fisica (Dt 34,7).

Pur riconoscendo la difficoltà interpretativa dell’argomento e silentio – commenta Priotto – sta di fatto che il Mosè deuteronomico, giunto al termine dell’esposizione della Torà e della successiva ultima benedizione agli Israeliti, non ha mai chiesto a Yhwh di prolungare la sua vita terrena, ma semplicemente di poter entrare nella Terra promessa. È Yhwh che parlando per la prima volta nel Deuteronomio della morte di Mosè ne prospetta a lui l’imminenza (Dt 31,14-16)! Dunque, è solo a que­sto punto che Mosè prende coscienza direttamente da Dio dell’imminenza della morte; per cui è su questa parola di Yhwh che si chiude significativamente col c. 34 il libro del Deuteronomio, e anche, di conseguenza, la “biografia mosaica” iniziata in Es 2: un punto di vista eccezionale per abbracciare l’intera figura di Mosè» (p. 401).

Della lunga esistenza di Mosè, Priotto ha studiato «quello che ne costituisce il dato centrale, cioè l’incontro e il rapporto di Mosè con Yhwh. Certo, gli elementi più appariscenti sono la liberazione dalla schiavitù egiziana e il dono della Legge, uniti all’imminente entrata nella Terra promessa; però la realtà che costituisce l’anima stessa della vita di Mosè è l’incontro con Yhwh e la comunione indissolubile con lui, in conformità al disegno esodale divi­no: “wāʼābī ʼetkem (vi ho fatto entrare in me)” (Es 19,4).

La contemplazione della Terra fisica di Canaan, se, da un lato, testimonia il compi­mento della promessa di Yhwh, dall’altro, ne evidenzia anche i limiti – ricorda Priotto –.

Al termine della vita, davanti a Mosè si apre quella che è la vera Terra promessa, cioè la comunione con Yhwh. Egli muore ʽalpî Yhwh (lett. «sulla bocca di Yhwh»: Dt 34,5), espressione che la tradizione ebraica interpreta alla lettera, come un gesto di particolare intimità di quel Dio che parlava con Mosè pānîm ʼel pānîm («faccia a faccia»: Dt 34,10). Il profeta può entrare così definitivamente nella pienezza della comunione con Dio.

Se la tradizione non conserva il ricordo del luogo della sepoltura, anzi lo esclude, perché opera di Dio (Dt 34,6) – osserva ancora lo studioso –, Mosè però sopravvive nella Torà. La parola, ricevuta al Sinai e proclamata agli Israeliti, viene posta a fianco dell’arca dell’alleanza (Dt 31,26), che già custodisce le dieci parole (Dt 10,5), e affidata ai leviti che, in tal modo, diventano i responsabili dell’eredità mosaica; grazie ad essi, la Torà verrà letta, interpretata e attualizzata nel corso delle generazioni dei credenti Israeliti, fino all’avvento di colui che, in quanto Parola del Padre, è il vero e ultimo Mosè, piena realizzazione del pro­getto esodico: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17)» (p. 403).

Il volume si chiude con la bibliografa citata (pp. 405-414) e l’indice degli autori citati (pp. 415-418).

Il lavoro appassionato e molto ricco compiuto da Michelangelo Priotto, frutto della frequentazione dei testi biblici lunga tutta una vita, si propone come una presentazione completa della figura di Mosè liberatore, profeta e amico di Dio. Il linguaggio scientifico impiegato rimane sempre abbordabile. Mosè costituisce una figura fondamentale nel panorama biblico e spirituale di ogni appassionato del testo biblico. Il suo itinerario geografico-teologico è decisivo anche per quello di ciascuno che si sente interpellato dalla parola viva del Dio liberatore e vivificante.

  • Settimana News

Sulle sofferenze in Terra Santa. Non chiamatela guerra

Palestinian women gather at a hot meal distribution point in Nuseirat in the central Gaza Strip, ...

di Ibrahim Faltas

Oggi più che mai la Terra Santa ha bisogno di gesti concreti di verità e di parole che si possano tradurre in atti di giustizia.

La parola “guerra” fa pensare ad eserciti che si affrontano, non sempre ad armi pari, e fa pensare a vincitori e vinti. La parola “pace” fa pensare a diritti e doveri reciprocamente riconosciuti dai popoli, non solo all’assenza di guerra.

La Terra Santa soffre e il dolore non si può pesare, misurare, calcolare, non ha nazionalità, religione, colore della pelle. Soffre chi perde un figlio, spesso più di uno, soffre chi ha fame, soffre chi è malato e ferito, soffre chi aspetta da più di 600 giorni persone care, ostaggi di cui non si conoscono le condizioni di vita o di morte.

Venerdì 6 giugno i musulmani ricorderanno la Festa del sacrificio, festa che fa memoria del sacrificio di Abramo a cui Dio chiese di sacrificare il suo unico figlio. L’anno scorso, negli stessi giorni, trascorsi otto mesi dal tragico 7 ottobre 2023, ricordavamo la fede profonda di Abramo che crede fermamente in Dio e, anche con il cuore straziato, si affida alla Sua volontà.

Abramo doveva scegliere! L’amore senza confine per il figlio unico e amato o l’amore senza costrizione per Dio che mai avrebbe tradito il suo amore?

A Gaza non si può scegliere. Si subisce il male senza poter scegliere il bene. A Gaza la morte arriva dal cielo e dalla terra: non si possono evitare le bombe e non si può evitare la morte se ti avvicini al cibo, mortificato e umiliato dalla fame e senza il diritto umano e riconosciuto di essere sfamato. Per questi e per tanti altri motivi, non chiamatela guerra.

Sono lontani i giorni e il ricordo della festa del Sacrificio: giorni di gioia, di riunioni familiari, di regali e di vestiti nuovi. La tradizione di mangiare carne di agnello, animale mite come Abramo, non è solo segno di condivisione familiare perché il cibo viene offerto anche ai poveri, a chi non può gioire. Anche quest’anno non ci saranno agnelli da mangiare e da offrire. A Gaza tutti sono poveri e bisognosi di tutto. Manca il cibo, l’acqua, la possibilità di curarsi e di continuare a vivere, manca persino la possibilità di coprire i morti perché mancano i sudari.

Nei giorni della Festa del sacrificio, come l’anno precedente, la gente di Gaza soffre e muore. Non ha scelta. Mentre una mano offre sopravvivenza con il cibo, l’altra mano impugna strumenti di morte. Si allargano confini per conquistare terre e si disegnano nuove strade per dividere. Si impone di lasciare case distrutte e rifugi improvvisati, cercando di togliere il «focolare» ad un popolo. La parola «focolare», scelta non a caso, rivela la profonda onestà intellettuale e civile del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, un uomo saggio, un uomo di pace.

Le parole non sono solo suoni. Le morti dei bambini a Gaza e nel mondo hanno il suono lacerante della disumanità. Non chiamatela guerra, i bambini di Gaza non l’hanno voluta, non hanno avuto scelta.

Osservatore Romano

L’allarme sul pianeta rilanciato nell’odierna Giornata mondiale dell’ambiente con l’appello ad intraprendere azioni concrete per combattere l’inquinamento

TOPSHOT - A worker sorts recyclable plastic waste at a warehouse in Jalandhar on June 4, 2025, on ...

Laghi, fiumi e mari invasi dalla plastica: quella che anni fa sembrava solo una previsione catastrofica, è ormai una realtà. Stando ai dati forniti dalle Nazioni Unite, infatti, ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica si riversano negli oceani. La Giornata mondiale dell’ambiente — che ricorre oggi, giovedì 5 giugno — si unisce, dunque, all’iniziativa #BeatPlasticPollution, (“Sconfiggi l’inquinamento da plastica”), guidata dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), per invitare le comunità di tutto il mondo a implementare soluzioni per combattere l’inquinamento. Le celebrazioni per la Giornata, istuita dal 1973, sono state ospitate quest’anno dalla Repubblica di Corea.

La ricorrenza si colloca a due mesi dall’incontro i cui i Paesi saranno chiamati a elaborare un nuovo trattato globale per porre fine all’inquinamento da plastica, come ha ricordato il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel suo Messaggio per la Giornata 2025: «Abbiamo bisogno di un accordo ambizioso, credibile e giusto», «che copra il ciclo di vita della plastica, attraverso la prospettiva delle economie circolari». «Esorto i negoziatori — ha concluso Guterres — a tornare ai colloqui ad agosto determinati a costruire un percorso comune nonostante le loro differenze e a realizzare il trattato di cui il nostro mondo ha bisogno. Insieme, poniamo fine al flagello dell’inquinamento da plastica e costruiamo un futuro migliore per tutti noi».

Psservatore Romano

Rinnovamento, speranza, perdono: in Vaticano l’incontro dei movimenti ecclesiali

Dal 4 al 6 giugno il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita si riunisce con i moderatori delle associazioni internazionali di fedeli e delle nuove comunità, in vista anche del Giubileo a loro dedicato che si svolgerà il 7 e l’8 giugno. L’incontro è iniziato ieri con una liturgia penitenziale in cui i movimenti e i pastori della Chiesa hanno avuto modo di chiedere perdono per le mancanze e gli errori commessi

Isabella H. de Carvalho e Lorena Leonardi – Città del Vaticano – Vatican News

L'incontro annuale del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita con le associazioni internazionali di fedeli, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità

Rinnovare la missione e l’evangelizzazione in una “speranza vissuta e annunciata” per portare Cristo “agli uomini e alle donne di questa epoca” nelle varie situazioni in cui vivono. Così il cardinale Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita (DLFV), ha aperto ieri pomeriggio l’incontro annuale con i moderatori delle associazioni internazionali di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, che si svolge nell’Aula nuova del Sinodo dal 4 al 6 giugno. In occasione anche dell’evento giubilare a loro dedicato che si terrà dal 7 all’8 giugno, sono circa 250 i partecipanti, da 115 realtà riconosciute dal Dicastero, che si sono riuniti per riflettere sul tema “La speranza vissuta e annunciata. Il dono del Giubileo per le aggregazioni ecclesiali”. Nel suo intervento il porporato ha sottolineato l’obiettivo di “sintonizzarsi” con il percorso della Chiesa nella “rinnovata consapevolezza” di essere chiamati a camminare non solo con essa ma “insieme a Pietro e a tutto il popolo di Dio, come Chiesa di Cristo”.

L’inizio dell’incontro è stato anche segnato da una liturgia penitenziale e l’invocazione dello Spirito Santo, svoltasi ieri sera nella Basilica di San Pietro. I moderatori delle associazioni e dei movimenti hanno chiesto “perdono” per la non accoglienza del Vangelo e le incoerenze, per le infedeltà, per la mancanza di rispetto verso le persone e di zelo nel mettere a frutto i carismi, per tutte le chiusure e per le ferite alla comunione ecclesiale. Un’invocazione è stata poi levata a nome dei pastori della Chiesa per le mancanze nei confronti di tutte le associazioni, i movimenti e le nuove comunità. Nella sua omelia il prefetto ha rimarcato come, seguendo l’esempio di Pietro, sia possibile riconoscere le proprie colpe e predisporsi a una “seconda chiamata”: in tale solco, il momento penitenziale “non è autocommiserazione”, né “amarezza sterile”, “scoraggiamento” o “accuse” bensì “dolore sincero per le infedeltà”, “lucida consapevolezza della fragilità” che predispone a una nuova “chiamata del Signore”.

Vangelo 6 Giugno 2025

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 21,15-19

In quel tempo, quando [si fu manifestato ai discepoli ed] essi ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore».
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse “Mi vuoi bene?”, e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».
Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Gregoriana, il dialogo interreligioso per ravvivare la fiamma della speranza

L’avvio dei lavori alla Gregoriana dopo l’accensione della lampada tradizionale indiana
Alla Pontificia Università un convegno ha riunito buddhisti, cristiani, induisti, giainisti e sikh. Ad aprire i lavori è stato il cardinale George Jacob Koovakad, Prefetto del Dicastero per il Dialogo interreligioso. Di fronte alla “perdita di speranza delle masse”, il ruolo dei credenti è quello di “rinnovare e riaccendere la speranza nelle menti e nei cuori delle persone”, secondo una “responsabilità collettiva”
Giada Aquilino – Città del Vaticano – Vatican News

Un urgente bisogno di riaccendere la speranza, in un mondo dilaniato da guerre, chiusure, individualismi. È l’appello dei partecipanti alla conferenza internazionale “Buddhisti, cristiani, induisti, giainisti e sikh. In dialogo e collaborazione per rinnovare e riaccendere la speranza nei nostri tempi”, organizzata oggi a Roma dal Dicastero per il Dialogo interreligioso e dal Centro studi interreligiosi della Pontificia Università Gregoriana, presso la sede dell’ateneo affidato alla Compagnia di Gesù. L’evento, realizzato in collaborazione con l’Unione induista italiana, l’Unione buddhista italiana, l’Istituto di Jainologia e la Sikhi Sewa society, è una nuova tappa di quel cammino intrapreso in Italia nel 2018 tra le cinque realtà, nello spirito della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, di cui quest’anno ricorre il 60° anniversario.

I cristiani e la Nostra Aetate
Dopo l’accensione della lampada tradizionale indiana, i saluti di padre Giuseppe Di Luccio, presidente del Collegium Maximum della Gregoriana, un momento di silenzio in memoria di Papa Francesco e un ringraziamento a Leone XIV, in apertura dei lavori, il cardinale George Jacob Koovakad, Prefetto del Dicastero per il Dialogo interreligioso ha fatto riferimento al documento del Vaticano II. Il porporato ha ricordato come dalla sua promulgazione nel 1965 la Nostra Aetate abbia «ispirato e guidato i cristiani e gli altri a costruire ponti di amicizia e a promuovere la collaborazione e la comunione con le persone di tutte le religioni, per il vero bene di ogni persona e della società nel suo insieme». Una delle maggiori preoccupazioni del nostro tempo, ha constatato il cardinale Koovakad, «è la perdita di speranza delle masse» causata da povertà, disoccupazione, malattie, disastri, conflitti, ma anche devastazione dell’ambiente, discriminazioni, ingiustizie, divisioni e violenze «in nome dell’appartenenza etnica, della religione e della nazionalità», mentre si diffonde un senso crescente «di indifferenza nei confronti dei legittimi bisogni, dei diritti e delle aspirazioni di altre persone e nazioni» e «l’annessa disumanità nei confronti delle sofferenze dei loro simili». Di fronte a «un senso di disperazione accompagnato da pessimismo e cinismo» il ruolo dei credenti, ha aggiunto, è appunto quello di «rinnovare e riaccendere la speranza nelle menti e nei cuori delle persone», secondo una «responsabilità collettiva».

Induisti, buddhisti, giainisti e sikh
Per Franco di Maria Jayendranatha, presidente dell’Unione induista italiana, il dialogo è «una necessità comune a tutti»: il «più produttivo» è proprio quello degli incontri «tra persone di fedi diverse, che si scambiano opinioni» secondo un’esperienza «che non può che unire». Per «costruire» la pace, ha affermato, bisogna però «partire dai problemi», da «un’analisi lucida» di essi: ha citato gli antagonismi di oggi, quelli tra Stati Uniti, Russia, Cina, Europa, proiettati in un quadro più ampio di questioni che «minano le fondamenta del nostro mondo», dal capitalismo alla tecnica «che non ha più un’etica ma solo scopi». Della medesima comunità anche la monaca induista Svamini Shuddhananda Ghiri, che ha esortato a quella speranza vista come «un invito ad agire consapevolmente verso il bene comune» e a «ricuperare i valori di umanità che sono trasversali a tutte le fedi».

Colloquio telefonico tra Leone XIV e Vladimir Putin

Il direttore della Sala Stampa della Santa Sede ha confermato la telefonata avvenuta nel pomeriggio. Il Papa ha fatto un appello affinché la Russia faccia un gesto che favorisca la pace e ha sottolineato l’importanza del dialogo tra le parti per cercare soluzioni al conflitto

Vatican News

Un'immagine della guerra in corso

Oggi pomeriggio “c’è stata una conversazione telefonica tra Papa Leone XIV e il Presidente Putin”. Lo ha confermato in serata il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. “Nel corso della telefonata, oltre alle questioni di mutuo interesse – ha riferito Bruni – è stata prestata particolare attenzione alla situazione in Ucraina e alla pace. Il Papa ha fatto un appello affinché la Russia faccia un gesto che favorisca la pace, ha sottolineato l’importanza del dialogo per la realizzazione di contatti positivi tra le parti e cercare soluzioni al conflitto”.

Si è parlato, inoltre, “della situazione umanitaria, della necessità di favorire gli aiuti dove necessario, degli sforzi continui per lo scambio dei prigionieri e del valore del lavoro che in questo senso svolge il Cardinale Zuppi”.

“Papa Leone – ha concluso Bruni – ha fatto riferimento al Patriarca Kirill, ringraziando per gli auguri ricevuti all’inizio del suo pontificato e ha sottolineato come i comuni valori cristiani possano essere una luce che aiuti a cercare la pace, difendere la vita e cercare un’autentica libertà religiosa”.

Vangelo 5 Giugno 2025

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 17,20-26

In quel tempo, [Gesù, alzàti gli occhi al cielo, pregò dicendo:]
«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.
Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».