La Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla si unisce nella preghiera al grave lutto della Diocesi albanese di Sapë per l’improvvisa morte – a soli 52 anni – del vescovo Simon Kulli, avvenuta a causa di un infarto la mattina di sabato 29 novembre 2025. Con monsignor Kulli la nostra Diocesi manteneva rapporti di stretta collaborazione sin dai tempi in cui il presbitero era direttore della Caritas diocesana di Sapë, nell’ambito del consolidato legame missionario tra le due Chiese che data dal 1992 e che oggi viene portato avanti da diverse unità pastorali; una delegazione di Castelnovo ne’ Monti ha visitato Sapë in questo mese di novembre.
Simon Kulli è nato il 14 febbraio 1973 nel villaggio di Pistull; dopo aver frequentato le scuole primaria e secondaria, è entrato nel Seminario interdiocesano albanese “Madre del Buon Consiglio” a Shkodër. Il 29 giugno 2000 è stato ordinato presbitero nella cattedrale di Shkodër, assieme ad altri quattro diaconi albanesi: si è trattato delle prime ordinazioni sacerdotali in Albania dopo la fine del regime comunista.
Successivamente, don Kulli è stato nominato vicario parrocchiale a Dajç di Zadrima e segretario del vescovo di Sapë. Nel 2002 è stato nominato cancelliere della Curia. Nel 2006 è diventato parroco della cattedrale “Santa Teresa di Calcutta” a Vau Dejës. Dal 2009 fino al 2012 è stato direttore della Caritas diocesana di Sapë. Dal 2010 è stato delegato della Caritas, vicario generale ed economo diocesano. Nel 2016 il presbitero ha raccolto l’eredità di monsignor Lucjan Avgustini – anch’egli prematuramente scomparso in seguito a dolorosa malattia – quale direttore della Caritas, fino a diventarne il successore nell’episcopato e a continuare un proficuo rapporto con la nostra Diocesi.
Monsignor Simon Kulli con un ospite della Case della Carità di Laç Vau-Dejës
Monsignor Kulli era un vescovo “col grembiule”, sempre pronto a servire le persone in ogni occasione e a svolgere anche i lavori più umili. Le sue predicazioni in cattedrale erano particolarmente vive e intense, sempre ispirate al modello di servizio incarnato da Cristo.
Vanno ricordati il suo impegno alla Casa della Carità – situata sopra la sede della Caritas – e la cura che rivolgeva a Pashk, un bambino in carrozzina di cui si è occupato come un padre.
Il funerale di monsignor Simon Kulli sarà celebrato martedì 2 dicembre alle ore 10 nella cattedrale “Santa Teresa di Calcutta” a Vau Dejës, diocesi di Sapë. Chi fosse interessato a partecipare può rivolgersi al Centro Missionario Diocesano scrivendo all’indirizzo e-mail missioni@cmdre.it.
Il viaggio del Papa in Turchia è denso di significati primariamente religiosi, ma non privi di ricadute socio-politiche.
Quello di Leone XIV nel Vicino Oriente è certamente un viaggio storico. Storico poiché parte dalla storia: dai 1700 anni del primo concilio ecumenico in cui, contro visioni teologiche fuorvianti, è confermo il dogma della divinità di Cristo e quindi il mistero della incarnazione di Dio.
Storico per il tempo in cui si compie, un tempo in cui l’interesse per la sopraffazione di un popolo su un altro pare avere la meglio sulla prioritaria esigenza di ricerca di scelte a servizio dell’umanità intera.
Ma per i reggiani, anche per chi non si riconosce nella fede cristiana, c’è un interesse ulteriore in questo viaggio papale. Infatti, è made in Reggio il calice che Leone XIV ha utilizzato durante la celebrazione della Messa nella Volkswagen Arena di Istanbul il pomeriggio di sabato 29 novembre e donato ai cattolici di Turchia al termine della liturgia.
Giuliano Tincani e Fernando Miele omaggiano il Papa con il calice made in Reggio
Come evidenziato dal Vicario Apostolico di Istanbul mons. Massimiliano Palinuro «L’altro segno di speranza che il Papa ha portato a Nicea è il dono del “Calice del Concilio”, opera in argento dell’artista Giuliano Tincani, ideata da Fernando Miele su proposta di fra Agnello Stoia, parroco della Basilica Vaticana»
Commissionato dalla Parrocchia della Basilica Papale di S. Pietro con il supporto del Capitolo Vaticano, l’oggetto liturgico è stato pensato, infatti, come dono del Pontefice alla comunità cattolica di Turchia in memoria del XVII centenario del Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino a seguito della predicazione perniciosa di Ario, presbitero di Alessandria d’Egitto.
A realizzare il calice è stato l’orafo reggiano Giuliano Tincani che ha tradotto le intuizioni di Fernando Miele dell’ufficio beni culturali della Diocesi di Reggio Emilia.
L’oggetto, accompagnato dalla sua patena, ovvero dal piatto in cui si pone il pane eucaristico, è in oro, argento e cristallo di rocca. Artigianalmente lavorato in ogni sua componente, il vaso liturgico si impone per la densa simbologia che ne accresce il valore nel contesto celebrativo e ne fa un monumentum a ricordo del Concilio cristologico di Nicea.
Simbolici sono i materiali utilizzati. Così l’argento è il metallo “pasquale”: riferimento, al contempo, alla passione (per le 30 monete prezzo del tradimento di Cristo) e all’annuncio della resurrezione che risuona argentino dalle voci angeliche sulla tomba vuota.
La calda luce dell’oro è riflesso della gloria di Dio che si manifesta nella storia dell’uomo facendosi conoscere come un “Dio di relazioni”. Il cristallo di rocca, in cui è inserita una croce cosmica in oro, dice dell’Amore del Creatore che si fa creatura in Cristo per essere vicino a ciascun uomo.
Punto di forza dell’opera di Tincani è il testo del Simbolo di Fede stabilito a Nicea le cui le circa 520 lettere in greco minuscolo sono state tagliate singolarmente da una lastra in oro e poi saldate, una ad una, in andamento cocleariforme sulla superficie d’argento del calice, in una spirale che partendo dal basso si eleva fino al bordo della coppa.
Così il testo del Simbolo Niceno è trasformato in “motivo iconografico” che eleva l’oggetto a preghiera. Sul piede del calice sono analogamente saldate le lettere auree, sempre in greco, che celebrano Cristo, agnello immolato, ma vincitore della morte.
Cinque croci all’interno della patena ricordano le cinque trafitture del corpo di Cristo crocifisso.
Gli oggetti sono contrassegnati dallo stemma papale inciso da Giuliano Tincani che nella minuziosa fattura degli oggetti ha recuperato antiche tecniche le cui radici risalgono alla grande tradizione orafa etrusca e greca.
Non nuovo a realizzazioni per il contesto liturgico, oltre che al ripristino delle opere antiche, l’artista reggiano per la creazione dell’opera di commissione vaticana ha applicato al meglio le sue capacità tecniche e la sua poetica, offrendo un prodotto che ha ampiamente convinto quanti lo hanno potuto ammirare, e soprattutto ha suscitato l’ammirazione del Papa che ha voluto incontrare personalmente l’artista a Roma prima del suo viaggio in Turchia.
Le nuove generazioni tendono a considerare le funzioni come noiose e distanti. Servono linguaggi, simboli e percorsi che aiutino a scoprire il senso del rito
Avvenire
Una delle domande che inquietano quanti si occupano di animazione parrocchiale e di educazione delle nuove generazioni è perché, nonostante tutti gli sforzi, la partecipazione dei giovani alla Messa della domenica è sempre più scarsa, quasi irrilevante. La non partecipazione all’eucaristia domenicale, dopo la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, di solito è il primo segnale di una presa di distanza che a poco a poco diventa allontanamento definitivo. Vorrei allora dare inizio a questa riflessione dando la parola a una giovane, Chiara, 30 anni, educatrice professionale e animatrice parrocchiale. Riflette sulla sua esperienza della liturgia e su quella dei suoi coetanei, facendo presente in primo luogo che oggi i giovani sono abituati ad abitare tanti luoghi. La loro mobilità rende debole il rapporto con la parrocchia; il loro sguardo che si allarga rende difficile legarsi ad un luogo, perché tutto il mondo diventa spazio da abitare e vivere. Con questa premessa, riflette sul suo rapporto con la liturgia: «Sin da piccoli abbiamo partecipato alle varie funzioni perché qualcuno ci accompagnava, perché era occasione di condividere un momento con i propri coetanei. È arrivato però un momento in cui è stato necessario decidere di partecipare, in modo libero. Dopo questa fase, ne è arrivata un’altra, difficile da definire con una parola. Sembra che non sia necessario partecipare alla liturgia per potersi sentire appartenenti alla Chiesa. Mi chiedo come mai la liturgia finisca facilmente in fondo alla scala di priorità per un giovane…. Provo a pensarlo mentre scrivo. Quanto il linguaggio raggiunge chi partecipa? Nella teoria è tutto chiaro, ma poi, quando ci si ritrova, spesso le parole si subiscono, non hanno efficacia. Forse perché non c’è la giusta attenzione, forse perché sembra una cosa estremamente distante rispetto alla propria vita, o forse proprio perché, a livello comunicativo, qualcosa manca. O forse tutte queste cose insieme».
Già da queste prime battute si può capire che oggi in genere quando si parla di liturgia si fa riferimento alla Messa della domenica. È ben difficile che vi sia, in una comunità parrocchiale comune, altra esperienza liturgica che quella della Messa della domenica. È quella, soprattutto per i giovani che hanno preso le distanze dalla Chiesa, un ricordo che evoca sentimenti negativi: noia, costrizione, non senso, vecchiezza. Dice un giovane ventiduenne: «Mi annoiavano, mi ricordo che mi annoiavo, che a volte smettevo anche di ascoltare perché mi annoiavo. Associato alla noia vi è un senso di costrizione, di obbligo che urta particolarmente contro la sensibilità degli adolescenti e che ha varie declinazioni: è costrizione da parte di una famiglia che è religiosa o che ci tiene a mostrare di essere praticante, come dice questo giovane: «Ti sentivi obbligato, anche da mia madre e mio padre che mi dicevano «Devi andare, è domenica. È brutto se non vai, perché ci vanno tutti»; è senso di imposizione per far fronte ad un ambiente che tende a giudicare, soprattutto in quei contesti in cui è ancora forte la pressione sociale. Per qualche ragazzo, la costrizione è data dal fatto che la Messa è un precetto, dunque strutturalmente un obbligo. Il peso di questo elemento si fa sentire soprattutto quando la Messa viene collegata alla catechesi: se vuoi ricevere la prima comunione devi mostrare che hai capito il valore della Messa e che hai imparato a frequentarla. I ragazzi ricordano così il legame tra catechesi e Messa.
Difficili poi da dimenticare certi incredibili errori educativi, come quello di una specie di “raccolta a punti” su quante presenze a Messa un ragazzo o una ragazza hanno totalizzato nel corso del loro percorso catechistico: una forma di controllo che con l’andar del tempo diventa motivo di rabbia, o di ironia. Nel percorso formativo i giovani non sono stati introdotti al senso del rito. Vengono in mente certi passaggi del Piccolo Principe, che è iniziato dalla volpe al rito e che glielo spiega così: ««È ciò che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore» e cita ad esempio il ballo dei cacciatori con le ragazze del villaggio: di giovedì! Ma se «i cacciatori ballassero un giorno qualunque, tutti i giorni si somiglierebbero». C’è una ripetizione che rende un evento uguale e diverso da tutti gli altri. Ma per questo occorre essere ‘addomesticati’, per dirla con il linguaggio di Saint Exupéry. Senza un accompagnamento che aiuti ad entrare nel significato simbolico del rito che si celebra, ogni momento diventa una noiosa ripetizione con poco senso. I giovani fanno notare il peso della ripetizione. La prima parte della Messa propone letture che variano, che possono riscuotere un certo interesse, ma la ripetitività delle preghiere eucaristiche è difficile da tollerare. E poi vi è la questione dei linguaggi. Il lessico della liturgia, per certi versi pregnante e per altri fortemente debitore di una cultura antica, contribuisce a rendere incomprensibile un rito che i giovani non percepiscono come tale. Colpisce ascoltare giovani -anche coloro che frequentano la Messa della domenica con una certa regolarità- che non citano mai il rito, il suo simbolismo, il legame che esso consente con una dimensione religiosa che introduce in una comunità e ne rende partecipi. Forse si tratta del riflesso, anche a questo livello, dell’abbandono della dimensione istituzionale della religione e della diffidenza dei giovani nei confronti di ogni istituzione. Dice questo giovane ventitreenne: «Il rapporto con Dio, per me, o con un’entità trascendentale superiore, spirituale, è estremamente personale, intimo, legato a noi stessi, e non ha senso che venga regolamentato da qualcuno o che ci siano regole fisse, tipo andare a Messa la domenica, il santificare le feste».
Un discorso a parte merita poi l’omelia, tema che è stato messo a fuoco particolarmente in un recente focus group tra giovani credenti. Invitati a esprimere un punteggio da 1 a 5 sull’omelia, si è raggiunta una media di 2,6. Le critiche sono facilmente immaginabili: sono lunghe, noiose, astratte, parlano un linguaggio di altri tempi, non c’entrano niente con la vita e i suoi temi o problemi. Qualcuno poi dice di quanto sia irritante ascoltare omelie dove, magari per allusioni, ci si rende conto che si vogliono colpire persone o situazioni precise: in un contesto comunitario piccolo è possibile decodificare riferimenti impliciti e sentirsene colpiti, talvolta offesi. Non ci si rende conto di quanto numerosi siano i modi per creare distanza dalle persone e interrompere la comunicazione con loro.
E infine: vi sono critiche severe che entrano nel merito dei contenuti: «La Messa non è un tribunale per difendere i valori», dice un giovane, partecipante saltuario alla Messa. Si diceva della questione dei linguaggi. Ascoltando il modo con cui i giovani si esprimono parlando della loro esperienza spirituale, si comprende perché i linguaggi della preghiera liturgica – ma si dovrebbe dire anche della comunicazione religiosa in genere – siano percepiti come vecchi e lontani. Del resto, basta pensare a certi canti ancora in voga. Il modo con cui i giovani raccontano l’esperienza religiosa o spirituale ha caratteristiche molto diverse dai linguaggi astratti delle comunità cristiane, delle omelie, delle catechesi. Sono linguaggi che attingono alle esperienze della vita quotidiana e che ne esprimono, in modo certo impreciso ma molto comunicativo e personale, il significato profondo. Impossibile trovare “ricette” che rispondano all’esigenza di dare nuovo significato alle esigenze dei giovani. La percezione del valore della liturgia dipende dal modo con cui si vive tutta l’esperienza religiosa: la liturgia non è la dimensione più esteriore della fede, ma la più sublime. Per entrare in essa occorre aver preso familiarità con il senso del mistero e con una relazione personale e profonda con il Signore Gesù.
Leone XIV si racconta. E per la prima volta racconta anche il Conclave da cui è uscito Papa. Con una premessa. «Credo molto al segreto, anche se so che ci sono state interviste pubbliche che hanno svelato alcuni passaggi», spiega ai giornalisti sul volo papale che lo riportava a Roma dal Libano dove ha concluso il suo primo viaggio apostolico. Però spiega che cosa è successo nel suo cuore e nella sua mente mentre i voti per lui continuavano a crescere nella Cappella Sistina l’8 maggio. «Quando ho visto come le cose si stavano mettendo, mi sono arreso e ho capito che tutto ciò poteva diventare realtà». Ossia essere Papa. «Allora ho fatto un profondo respiro e ho detto: “Eccomi, Signore. Tu mi conduci nel cammino”». Perché, aggiunge, «credo profondamente che ogni cosa è nelle mani di Dio. Lo avevo anche sottolineato a una giornalista che il giorno prima di essere eletto mi aveva fermato per strada e mi aveva chiesto che cosa pensassi del fatto di essere fra i candidati favoriti».
Ed è un Leone XIV che, nella sua prima conferenza stampa, rivela di voler essere «ponte», del suo lavoro «dietro le quinte» per tessere reti di dialogo e di pace sullo scenario internazionale, dell’«entusiasmo» che gli ispirano i giovani, del desiderio di andare in Algeria nei luoghi di sant’Agostino e poi nel “suo” Sud America, della sua preoccupazione per la solitudine che le nuove tecnologie producono. Il tutto con un approccio chiaro ma attento ad evitare fratture; con un tocco d’ironia; e con una apertura di credito nei confronti delle autorità italiane per l’azione che possono svolgere nelle trattative fra Ucraina e Russia. «Il ruolo dell’Italia potrebbe essere molto importante perché culturalmente e storicamente ha la capacità di essere mediatrice in mezzo a un conflitto. E suggerirei che la Santa Sede possa incoraggiare questa via in modo che si cerchi di arrivare insieme una soluzione in grado di portare a una giusta pace in Ucraina».
ll Conclave e chi è Prevost
Nella conversazione con i giornalisti, rispondendo alle loro domande, Leone XIV confida che «un paio di anni fa pensavo a quando mi sarei ritirato». Ride il Papa di fronte alla stampa internazionale. E aggiunge: «Ma alcuni devono continuare a lavorare». Lui come Pontefice. «Per capire chi è Prevost – fa sapere – c’è un libro che vorrei citare: è “La Pratica della presenza di Dio” di Fratello Lorenzo». L’autore è un monaco carmelitano del XVII secolo. E il sottotitolo recita: “La migliore regola della vita santa”. «È un libro molto semplice. Descrive un percorso di spiritualità e di preghiera che puoi compiere nella tua vita e che si basa su una regola minima: permettere al Signore di guidarti. Questa è la mia spiritualità. L’ho vissuta anche in mezzo a grandi difficoltà, quando ero in Perù, e ogni volta che sono stato chiamato a incarichi che mai avrei immaginato di affrontare».
Il volto del Papa e i giovani
Scherza il Papa quando parla delle espressioni del suo volto che fanno il giorno del mondo e che vengono commentate dalla stampa. «Ho una faccia espressiva. E mi diverte vedere come i giornalisti la interpretano. È interessante: qualche volta ci ho trovato buone idee, perché voi pensate di leggere la mia mente o il mio viso, ma non sempre siete nel giusto». Poi i giovani. Il Papa fa riferimento sia «al Giubileo dei giovani con più di un milione di ragazzi», sia all’incontro con i ragazzi libanesi, 15mila arrivati da tutto il Paese per abbracciarlo. «È meraviglioso. E a me stesso ripeto: sono tutti qui perché vogliono vedere il Papa, messaggero di pace. Soltanto recepire il loro entusiasmo mi è di grande aiuto. Non mi stancherò mai di apprezzare ciò che i giovani mostrano al mondo».
Le feste si avvicinano e Trainline – piattaforma indipendente leader per viaggiare in treno e pullman – ha condotto un’indagine per scoprire le mete preferite dai viaggiatori per vivere la magia dei mercatini di Natale. I risultati dello studio confermano che le mete più ambite sono quelle con combinano atmosfera, tradizione e facile accesso in treno: una buona notizia anche per l’Ossola, che vede il suo capoluogo comparire tra le dieci destinazioni preferite dagli italiani.
Secondo i dati raccolti da Trainline, infatti, la classifica delle migliori mete per i mercatini di Natale vede al primo posto Innsbruck (Austria) con un incremento del 205% del numero di passeggeri rispetto al 2024. Il settimo posto spetta a Domodossola, con un aumento del 40% dei viaggiatori, dietro a Tirano, Asti, Bolzano, Avigliana e Orte. Chiudono la top 10 Terni, Monaco di Baviera e Cuneo.
La classifica dipinge un quadro affascinante di come gli italiani stiano riscoprendo il Natale in treno. Da un lato spiccano le grandi capitali alpine quali Innsbruck, Bolzano e Monaco, i cui mercatini di Natale senza tempo continuano ad incantare i visitatori; dall’altro, un crescente amore per le città italiane tradizionali, piene di fascino locale, come Asti o Cuneo, e per i borghi più piccoli ma ricchi di atmosfera, tra i quali spicca proprio Domodossola, insieme ad Avigliana o Orte, che riflettono il desiderio di esperienze autentiche e meno affollate.
ale la povertà sanitaria in Italia. Nel 2025, 501.922 persone si sono trovate in questa condizione, cioè hanno dovuto chiedere aiuto a una delle 2.034 realtà assistenziali convenzionate con Banco Farmaceutico per ricevere gratuitamente farmaci e cure che, altrimenti, non avrebbero potuto permettersi.
Rispetto alle 463.176 del 2024, c’è stato un aumento dell’8,4%. Sono i dati contenuti nel 12/mo Rapporto sulla Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico presentato all’Aifa.
Secondo l’analisi, le persone in condizioni di povertà sanitaria sono prevalentemente uomini (pari al 51,6% del campione, contro il 48,4% delle donne) e persone in età adulta (18-64 anni, pari al 58%). Particolarmente importante la quota di minori, che sono 145.557 (pari al 29%), più degli anziani che corrispondono al 21,8% (109.419). Considerando le condizioni di salute, i malati acuti (56%) superano i malati cronici (44%).
Inoltre, nel 2024 (secondo gli ultimi dati Aifa disponibili) la spesa farmaceutica complessiva delle famiglie è pari a 23,81 miliardi di euro, 171 milioni di euro in più (+0,7%) rispetto al 2023 (quando la spesa era di 23,64 miliardi). Di questi, tuttavia, solo 13,65 miliardi di euro (il 57,3%) sono a carico del Ssn (nel 2023 erano 12,99, pari al 56%). Restano quindi 10,16 miliardi (42,7%) pagati interamente dalle famiglie (nel 2023, erano 10,65, pari al 44%). Nonostante tra il 2024 e il 2023 si registri un calo di questa tipologia di spesa (-4,6%), in sette anni (cioè tra il 2018 e il 2024) è cresciuta di 1,78 miliardi di euro (+21,26%). Nel 2018, infatti, la quota totalmente a carico dei nuclei familiari era pari a 8,37 miliardi di euro.
Secondo il 12/mo Rapporto sulla Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico presentato all’Aifa, nel 2024 (secondo gli ultimi dati Istat disponibili), quasi una persona su dieci (9,9%) ha rinunciato a visite o esami specialistici nei 12 mesi precedenti. Il 6,8% della popolazione ha rinunciato, prevalentemente, per le lunghe liste d’attesa, mentre il 5,3% (pari a 3,1 milioni di persone) per ragioni economiche (dato in crescita dell’1,1% rispetto al 2023).
“I dati sulla povertà sanitaria ci restituiscono, anche quest’anno un quadro preoccupante per migliaia di famiglie – ha dichiarato Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico Ets – Banco Farmaceutico aiuta a curarsi chi non può permetterselo, praticando, grazie al sostegno e insieme a migliaia di volontari, farmacisti, aziende e cittadini, la gratuità. Ma una cura costituita da un’autentica attenzione alle esigenze e alla dignità di chi si trova in condizioni di povertà, non può limitarsi alla pur necessaria risposta immediata al bisogno: deve comprenderlo in fondo, anche attraverso un lavoro di approfondimento culturale e scientifico. Perché più profonda è la conoscenza, più efficaci saranno le risposte”.
Il volto di Leone XIV si ripete per chilometri e chilometri lungo le strade di Beirut e fino a un raggio di cinquanta chilometri dalla capitale. Il volto del Papa che sorride; il volto circondato dalle sue mani alzate; il volto che accompagna una sua benedizione. Poi chilometri e chilometri di bandiere: quelle del Libano accanto a quelle della Santa Sede. Ma soprattutto chilometri e chilometri di gente comune che lo attende: anche sotto il temporale; anche sfidando il freddo pungente a1.200 metri di altezza che si fa ancora più gelido per la pioggia davanti alla chiesa di san Charbel, il monaco dei miracoli che viene considerato patrono del Paese e di fronte a cui il Pontefice si inginocchia e prega. È un ininterrotto bagno di folla la visita di Leone XIV in Libano, seconda e ultima tappa del suo primo viaggio apostolico che lo ha portato prima in Turchia e, fino a questo pomeriggio, nella nazione del Medio Oriente «segnata da ferite profonde che stentano a rimarginarsi», afferma il Papa parlando ieri con i giovani.
Il Papa in preghiera davanti alla tomba di san Charbel, il monaco dei miracoli che viene considerato patrono del Paese / AP
Una festa nazionale per il Pontefice a cui il Paese affida il suo sogno di pace. L’incontro con le autorità diventa un grido di aiuto. «Santo Padre, la imploriamo di dire al mondo che non moriremo, né andremo via, né dispereremo, né ci arrenderemo», gli spiega il presidente della Repubblica, Joseph Aoun, insediatosi a gennaio dopo due anni di paralisi istituzionale. I vescovi e i sacerdoti gli consegnano la «sete di pace e giustizia» dopo che «negli ultimi anni il popolo libanese ha affrontato prove che hanno profondamente scosso il suo corpo e la sua anima», gli dice il patriarca armeno cattolico Raphaël Bedros XXI. I ragazzi con cui dialoga gli presentano i loro propositi di fraternità. E i capi religiosi il desiderio che, «in un momento delicato della storia di questa regione, dove assistiamo a grandi turbolenze e a trasformazioni radicali», sia possibile avere «stabilità, giustizia e pace per la nostra terra che non conosce da molto tempo», gli rivela il capo della Chiesa siro-ortodossa nel mondo, Mar Ignazio Efraim II. Sintetizza il patriarca maronita, il cardinale Béchara Boutros Raï: «Lei è il Papa della vicinanza, il Papa dell’ascolto e della misericordia, il Papa della pace che ricorda al mondo che la luce è sempre più forte delle tenebre».
La folla lungo le strade di Beirut per salutare il Papa / REUTERS
«Beati gli operatori di pace», si legge sui manifesti che in ogni angolo di Beirut presentano la visita riprendendo una delle Beatitudini che fa da tema alle due giornate e mezzo in terra libanese. «Beati gli operatori di pace», ripete Leone XIV fin dal suo primo discorso nel palazzo presidenziale. Parole del Vangelo che il Papa declina facendo riferimento a «un mondo lacerato da guerre e sfigurato dalle ingiustizie sociali», dice ai 15mila ragazzi che riempiono ieri pomeriggio il piazzale del patriarcato maronita a Bkerké «L’amore per la pace – afferma davanti alle autorità nazionali – non conosce paura di fronte alle sconfitte apparenti, non si lascia piegare dalle delusioni, ma sa guardare lontano, accogliendo e abbracciando con speranza tutte le realtà. Ci vuole tenacia per costruire la pace».
La folla lungo le strade di Beirut per salutare il Papa / REUTERS
Il Papa indica alcune coordinate. Non si può cedere «a localismi e nazionalismi». Occorre rifuggire da «una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza» quando «le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi e, spesso, a scapito del bene comune». Servono «istituzioni che riconoscano il bene comune superiore a quello di parte» perché «il bene comune è più della somma di tanti interessi». È necessario non «rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative», afferma nel colloquio con il clero ricorrendo a parole che possono essere associate a Hezbollah.
L’incontro del Papa con vescovi, presi e operatori pastorali del Libano / VATICAN MEDIA
Soprattutto è urgente scommettere sul dialogo. C’è quello politico che ha anche le caratteristiche del negoziato. «A volte si pensa che, prima di compiere qualsiasi passo, occorra chiarire tutto, risolvere tutto, invece è il confronto reciproco, anche nelle incomprensioni, la strada che porta verso la riconciliazione», sottolinea nell’appuntamento con i vertici nazionali. E il dialogo è cultura dell’incontro fra coloro che per la geopolitica ritiene “nemici”. Come mostra il “metodo vaticano” che vede impegnato in prima persona Leone XVI: essere «fra le parti una voce mediatrice per avvicinarsi a una soluzione» che sia nel segno della «giustizia per tutti», spiega lo stesso Pontefice sul volo papale che lo porta da Istanbul a Beirut riferendosi alla Terra Santa. Ed è significativo che dica «Siamo amici di Israele», sia dopo averlo criticato perché «non accetta» l’«unica soluzione possibile» dei «due Stati», sia prima di atterrare nel Paese che Tel Aviv continua ad attaccare, ricordano alcuni capi religiosi nell’incontro di ieri pomeriggio. Il Papa intende essere ponte. E a lui si guarda con fiducia. Come gli fa sapere lo sceicco sciita Ali El-Khatib: «Poniamo la questione del Libano nelle sue mani, con tutte le sue capacità a livello internazionale, affinché il mondo possa aiutare il nostro Paese a liberarsi dalle crisi accumulate, in primis la continua aggressione israeliana e le sue conseguenze sul nostro Paese e sul nostro popolo». Lo confermano anche le bandiere di Hezbollah che lo salutano mentre il corteo papale attraversa i quartieri sciiti.
L’incontro di Leone XIV con i capi religiosi a Beirut / ANSA
Poi c’è il dialogo fra le fedi e le culture che Leone XIV ritiene cruciale per costruire la pace e che il Libano testimonia con la coesistenza di diciotto comunità religiose. Anche se, sottolinea il Papa nell’appuntamento interreligioso in piazza dei Martiri, «talvolta l’umanità guarda al Medio Oriente con un senso di timore e scoraggiamento, di fronte a conflitti così complessi e di lunga data» e mentre si vive «un’epoca in cui la convivenza può sembrare un sogno lontano, il popolo del Libano, pur abbracciando religioni diverse, rappresenta un potente esempio: paura, sfiducia e pregiudizio non hanno qui l’ultima parola, mentre l’unità, la riconciliazione e la pace sono sempre possibili. Ecco, dunque, la missione che rimane immutata nella storia di questa amata terra: testimoniare la verità duratura che cristiani, musulmani, drusi e innumerevoli altri possono vivere insieme, costruendo un Paese unito dal rispetto e dal dialogo». E tutti hanno un compito, osserva il Pontefice: sono chiamati «a essere costruttori di pace, a contrastare l’intolleranza, superare la violenza e bandire l’esclusione, illuminando il cammino verso la giustizia e la concordia per tutti, attraverso la testimonianza della fede».
Il Papa durante l’incontro con i giovani del Libano / REUTERS
Alla Chiesa, nell’incontro con vescovi e sacerdoti nel Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa, polmone spirituale della nazione, ricorda che la potenza della «nostra preghiera, ponte invisibile che unisce i cuori, ci dà la forza per continuare a sperare e a lavorare, anche quando attorno tuona il rumore delle armi». Glielo racconta padre Youhanna-Fouad Fahed, che vive in un villaggio nel nord del Libano finito sotto il fuoco siriano. «Là, pur nel bisogno più estremo e sotto la minaccia dei bombardamenti, cristiani e musulmani, libanesi e profughi d’oltre confine, convivono pacificamente e si aiutano a vicenda», riassume il Papa. E chiarisce che, nel Libano «dove minareti e campanili stanno fianco a fianco», ogni «richiamo alla preghiera» può «fondersi in un unico inno, elevato non solo per glorificare il misericordioso Creatore del cielo e della terra, ma anche per implorare di vero cuore il dono divino della pace». Pace che, evidenzia il Pontefice con le autorità, «è saper abitare insieme, in comunione, da persone riconciliate». Proprio la riconciliazione è una delle premesse per la pace. «Ardua via», la definisce Leone XIV, soprattutto in mezzo a «ferite personali e collettive che chiedono lunghi anni, a volte intere generazioni, per potersi rimarginare». Ma, se non vengono curate, «se non si lavora, ad esempio, a una guarigione della memoria», «difficilmente si va verso la pace» in quanto «si resta fermi, prigionieri ognuno del suo dolore e delle sue ragioni».
I manifesti di benvenuto al Papa lungo le strade del Libano / ANSA
Uno degli effetti dell’instabilità è la migrazione. Tema che torna più volte negli interventi del Papa nel Libano che vive un esodo ininterrotto. «Sappiamo che l’incertezza, la violenza, la povertà e molte altre minacce producono qui, come in altri luoghi del mondo, un’emorragia di giovani e di famiglie che cercano futuro altrove, pur con grande dolore nel lasciare la propria patria». Da qui il monito: «Di fronte a drammi simili non possiamo restare indifferenti». E tutto ciò «ci impone di impegnarci, affinché nessuno debba più fuggire dal suo Paese a causa di conflitti assurdi e spietati, e affinché chi bussa alla porta delle nostre comunità non si senta mai respinto, ma accolto».
L’incontro di papa Leone XIV con i giovani del Libano / REUTER
Fra gli ambasciatori di pace Leone XIV cita le donne. Va valorizzato «il loro ruolo imprescindibile» perché «sanno custodire e sviluppare legami profondi con la vita e con le persone» e la loro «partecipazione alla vita sociale e politica rappresenta in tutto il mondo un fattore di vero rinnovamento». E poi i giovani. «Voi avete un dono, che spesso a noi adulti sembra ormai sfuggire. Voi avete speranza! Voi avete il tempo! Avete più tempo per sognare, organizzare e compiere il bene», li incoraggia nella “piccola” Gmg di ieri con un tono particolarmente energico. E avverte: «La vera resistenza al male non è il male, ma l’amore, capace di guarire le proprie ferite, mentre si curano quelle degli altri». Quindi la missione: «Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo». E «costruite un mondo migliore di quello che avete trovato». A ricapitolare le due giornate libanesi del Papa sono le parole con cui affida all’intercessione di san Charbel «le necessità della Chiesa, del Libano e del mondo. Per la Chiesa chiediamo comunione, unità: a partire dalle famiglie, piccole Chiese domestiche, e poi nelle comunità parrocchiali e diocesane, fino alla Chiesa universale. E per il mondo chiediamo pace».
Mentre Papa Leone XIV visita il Libano, lo sguardo si posa sull’emblema più antico del Paese: il cedro. Albero di lunga memoria, radicato nelle Scritture, nella storia dei popoli e nell’immaginazione letteraria, accompagna il cammino umano con la sua figura immobile e accogliente, custode delle stagioni.
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Nei giorni in cui il Papa visita il Paese mediorientale, il cedro torna a emergere come figura antica e familiare: radice della storia, verticale silenziosa nelle Scritture, materia di navi e di templi, voce di poeti e romanzieri. Ha dato forma a un paesaggio, a un emblema e a un immaginario, continua a offrire un segno di stabilità e di respiro nel cuore del Mediterraneo
Lettura del Giorno
Dal libro del profeta Isaìa
Is 11,1-10
In quel giorno,
un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e d’intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.
Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
La giustizia sarà fascia dei suoi lombi
e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.
In quel giorno avverrà
che la radice di Iesse sarà un vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.
Vangelo del Giorno
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,21-24
In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».