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Il 18 ottobre scorso si è tenuto a Bergamo il convegno I nomi della giustizia, la questione penale in Lombardia voluto dalla Conferenza episcopale lombarda, dalla Delegazione Caritas e dalle Cappellanie delle carceri della Lombardia. Riportiamo integralmente la relazione Il nome della giustizia è tenerezza di Isabella Guanzini, filosofa e teologa, docente all’Università di Linz.
Salmo 141
Signore, a te grido, accorri in mio aiuto;
porgi l’orecchio alla mia voce quando t’invoco.
La mia preghiera stia davanti a te come incenso,
le mie mani alzate come sacrificio della sera.
Poni, Signore, una guardia alla mia bocca,
sorveglia la porta delle mie labbra.
Non piegare il mio cuore al male,
a compiere azioni criminose con i malfattori:
che io non gusti i loro cibi deliziosi.
Mi percuota il giusto e il fedele mi corregga,
l’olio del malvagio non profumi la mia testa,
tra le loro malvagità continui la mia preghiera.
Siano scaraventati sulle rocce i loro capi
e sentano quanto sono dolci le mie parole:
“Come si lavora e si dissoda la terra,
le loro ossa siano disperse alla bocca degli inferi”.
A te, Signore Dio, sono rivolti i miei occhi;
in te mi rifugio, non lasciarmi indifeso.
Proteggimi dal laccio che mi tendono,
dalle trappole dei malfattori.
I malvagi cadano insieme nelle loro reti,
mentre io, incolume, passerò oltre.
Introduzione
Il Salmo 141 ci inserisce – anzi, ci precipita – in medias res, nel cuore stesso del tema di questa giornata: il grido di dolore di chi non vede la luce, la supplica a Dio perché intervenga nella sofferenza e nell’oppressione, la speranza di salvezza e di liberazione a cui solo lui può rispondere.
Nello stesso tempo, apre indirettamente la questione della forma della giustizia – dei nomi della giustizia – che può e deve incarnare la pena: come “strappare” dal carcere una vita che sembra perduta? Quale forma della pena tende a disumanizzare, invece che ad avviare un processo di riflessione e di metamorfosi dell’umano? Come superare il tratto meramente ritorsivo o intimidatorio della pena, che vede soltanto la colpa o il reato, allargando lo sguardo alla persona, alla sua storia, e al suo legame con la società? Esiste un modello di giustizia diverso da quello retributivo, che non si limiti a neutralizzare – e dunque a bloccare, alienare e opprimere – lo sviluppo della vita umana, ma che invece miri a riparare, a ricostruire e, soprattutto, a liberare ciò che è incarcerato, anche prima di aver commesso concretamente un reato?
Da qui si pone una domanda che non possiamo eludere: che cosa rivela del nostro modo di intendere l’umano la modalità in cui scegliamo di punire?
Il modo in cui una società e le sue istituzioni rispondono a queste domande rivela, forse più di ogni altra cosa, il grado di umanità di un’epoca. Il carcere, in questo senso, costringe a misurarsi con la qualità umana di una civiltà, perché in esso si riflettono come in uno specchio le contraddizioni e i nodi irrisolti di un’intera società.
Sono questioni immense e complesse, alle quali desidero accostarmi non con la pretesa della competenza giuridica, ma con una tensione antropologica e spirituale; una tensione che mi condurrà fino al rapporto paradossale, ai limiti dell’assurdo, tra carcere e tenerezza. Lo scontro fra queste due realtà che appaiono fra loro incompatibili, che si respingono come poli uguali di un magnete, potrebbe infatti accendere un cortocircuito vitale e insieme fragile, ma forse capace di avviare un processo.
Prima di affrontare questo strano intreccio, vorrei commentare brevemente il Salmo 141.
La supplica
I Salmi non sarebbero mai nati se i loro autori non avessero fatto esperienza del peso della sofferenza e non avessero visto la morte da vicino. Chi apre il Salterio si imbatte, quasi in ogni pagina, in una voce che si trova sul punto di sprofondare: «Ascolta la mia supplica: ho toccato il fondo dell’angoscia […]. Strappa dal carcere la mia vita». Chi parla qui? Chi è il salmista? I Salmi scritti in prima persona vengono definiti lamentazioni individuali: ma chi è questo “io”? L’autore stesso del salmo? Il nome simbolico di Davide che incarna tutto Israele e rappresenta gli autori anonimi che hanno composto i Salmi?
Resta un mistero il fatto che proprio l’attraversare esperienze molto dolorose faccia nascere parole capaci di raggiungere tutti. Si potrebbe dire: il salmista è ancora oggi la nostra voce: la voce della crisi.
Tuttavia, tutto è così radicale, le sofferenze così profonde, che proviamo una certa distanza di fronte a sciagure di tale portata. Eppure, almeno una volta, tutti noi ci siamo già sentiti sul punto di affondare, e ogni giorno viviamo molti giorni insieme.
«Con la mia voce al Signore grido aiuto,
con la mia voce supplico il Signore;
davanti a lui effondo il mio lamento,
al tuo cospetto sfogo la mia angoscia».
Quando preghiamo un salmo, diamo voce allo stato di prostrazione che affligge molti, che spesso non trova le parole o le formule per potersi dire.
La lamentazione esprime in modo radicale, persino violento, una dimensione dell’esistenza che riguarda tutti: la sua realtà contingente e precaria, priva di ogni sicurezza, segnata dalla mortalità, la presenza di catene fisiche e psichiche che la costringono in situazioni indesiderate dalle quali non ci si riesce a liberare.
I Salmi mostrano l’essere umano come creatura bisognosa d’aiuto e desiderante la liberazione, disillusa da ogni tentativo di autoaffermazione, fiduciosa soltanto nella giustizia di Dio, dopo che tutte le altre forme di giustizia umana hanno rivelato i propri limiti e le proprie contraddizioni.
Essi non si muovono nel campo della semplice devozione né in quello dell’esortazione morale: sono testimonianze di esperienze reali, spesso spietate, che non escludono nulla dell’esistenza umana, nemmeno la paura, l’odio, l’assurdità e la collera di fronte alla violenza e all’oppressione.
I Salmi articolano, per così dire, l’inconscio della coscienza credente, ciò che nel pensiero religioso resta non detto: quel che tende a essere rimosso, negato, o per cui semplicemente non si trovano parole: il dolore, l’abbandono, l’alienazione, l’esperienza di sentirsi oggetto di scherno da parte degli altri.
«Guarda a destra e vedi:
nessuno mi riconosce.
Non c’è per me via di scampo,
nessuno ha cura della mia vita».
Si potrebbe dire che la preghiera dei Salmi – in particolare i salmi di lamentazione e di supplica – svolga una funzione imprescindibile all’interno di una spiritualità altrimenti piuttosto devota e senza inquietudine: i salmisti esprimono, in modo vicario, come per rappresentanza, la violenza, la contingenza e l’esposizione della nostra esistenza umana, articolando il rimosso dalla nostra coscienza, avviando un processo di conoscenza di sé e delle proprie affezioni che faticano a trovare un linguaggio umano e religioso che sappia esprimerle senza addomesticarle.
La violenza realmente esistente non viene taciuta, ma presa sul serio: la minaccia rimane, la vita è imprigionata, l’angoscia continua ad assalirci.
Anche se tali parole possono risultare sconcertanti, esse rivelano qualcosa di decisivo: nei Salmi tutto può essere portato davanti a Dio, anche le esperienze di violenza e il desiderio di vendetta. Devono essere dette, perché non abbiano l’ultima parola.
Così diventa chiaro: nella preghiera tutti i sentimenti possono essere pronunciati: non come atto distruttivo, ma come supplica autentica che sceglie la via della parola, e non del gesto violento.
Il salmista espone a Dio la propria rabbia e impotenza, sapendo di essere compreso invece che condannato. Accolto entro uno spazio di ascolto e di fiducia, ogni sentimento negativo può essere affrontato e compreso, e un processo di trasformazione può iniziare.
Qui si affaccia un elemento decisivo che non può essere taciuto quando si parla di giustizia, soprattutto in relazione alla realtà del carcere: il processo, arduo ma necessario, dell’attraversamento della propria condizione, il cammino che conduce alla presa di coscienza della colpa, a quel tribunale interiore che, kantianamente, non dovrebbe mai essere spento, perché è il luogo in cui si misura la possibilità di un’autentica riparazione.
È il cammino necessario che richiede di dare voce alla rabbia, al dolore e persino alla violenza, entro il quale diviene possibile nominare il groviglio di ferite e di emozioni che hanno nutrito il disagio, segnato a fuoco l’esperienza e le relazioni e, ogni volta, reso possibile il passaggio all’atto.
Senza questo attraversamento della colpa – possibile attraverso una presa di coscienza della propria storia, della propria angoscia e dei propri errori – non può avvenire alcuna metamorfosi, e non può spuntare alcun germoglio di giustizia. Perché ciò avvenga, anche i Salmi possono aiutare.
La pena
Siamo consapevoli che l’istituzione totale del carcere, concepita come risposta al male commesso e come strumento di ristabilimento della giustizia, sia raramente in grado di favorire un autentico processo di consapevolezza e di cambiamento interiore.
In quanto luogo di pena finalizzato esclusivamente a sancire il reato, il carcere non riesce a essere uno spazio di riparazione: al contrario, tende a trasformarsi in un dispositivo che riproduce le ferite originarie, reiterando ciò che vorrebbe redimere, ossia la trasgressione.
Entro una logica di giustizia puramente punitiva, in cui il carcere diviene il “luogo del dolore inflitto”, si sviluppa, piuttosto, un processo di deresponsabilizzazione: non soltanto non vi è spazio per l’elaborazione interiore e l’autocritica, per confrontarsi con le proprie colpe e la propria storia, per verbalizzare la sofferenza e ricostruire le relazioni infrante; accade piuttosto un movimento in direzione contraria di autoassoluzione e di fuga da sé, di separazione dalle proprie azioni ed emozioni, che impedisce ogni vera crescita di umanità e possibilità di risocializzazione.
Il carcere è il luogo in cui la pena corre il rischio di perdere il proprio senso, trasformandosi in una trama di restrizioni che umiliano la dignità personale, in dinamiche insensate di mortificazione che nessuna ragione etica o giuridica può giustificare.
Con il tempo, la reclusione può mutare la privazione della libertà – che dovrebbe costituire il significato stesso della pena – in mera negazione dell’umanità. La negazione della libertà non dovrebbe infatti rappresentare un semplice accidente della pena, ma la sua sostanza più profonda: oltrepassarne il confine significa tradire la giustizia, fino a renderla irriconoscibile.
Nello stesso tempo, la privazione della libertà – la condizione di segregazione – produce una frattura profonda tra l’individuo e il mondo esterno, che umilia il sé, controlla, smonta e deforma l’identità, entro un tempo che si dilata infinitamente e uno spazio che si contrae enormemente. Entro questa dimensione spaziale che tende alla riduzione, tutto conduce alla regressione e alla deresponsabilizzazione: a partire dal linguaggio, carico di vezzeggiativi, che sembra uscito da un libro di favole per bambini (domandina, bilancetta, i secondini, il braccialetto… un mondo in -ino), in cui nulla sembra progettato per un vero percorso di consapevolezza e di maturazione.
La persona detenuta non è più riconosciuta nella sua complessità biografica, ma viene ridotta al ruolo istituzionale che gli viene attribuito – un “internato”, una “detenuta”, un numero –, cioè identificata con la propria colpa, schiacciata sul suo reato.
Così, in una realtà che chiede alle persone di cambiare, di prendere coscienza dei propri errori, tutti vengono in certo modo fissati a ciò che è stato commesso, impedendo ogni possibilità di rinascita o di trasformazione.
Come pensare una forma di pena che miri non a neutralizzare e a contenere, ma a risanare ciò che è stato distrutto, il sé, l’altro, il legame sociale? Come può una pena condurre alla consapevolezza psichica, fisica e spirituale che la distruzione della vita corrisponde alla distruzione della propria vita? Come è possibile far nascere una coscienza drammatica della perdita, una sorta di nostalgia drammatica per quel che è stato perduto?
Nostalgia ha qui il senso forte di un presentimento intimo di un’unità lacerata, dell’essersi auto-esclusi dal circuito dei viventi, di essersi alienati da sé stessi ed estraniati dal mondo sociale.
Significa percepire su di sé la propria colpa come un grave gesto di rottura dell’intero in cui si abita: un passaggio necessario verso ogni possibile riconciliazione.
Per questo la giustizia, se vuole essere umana, non può limitarsi a punire: deve sapere custodire quella dignità che sopravvive anche nel colpevole, riconoscendolo come soggetto ferito, non come essere degradato.
L’essere umano è infatti sempre più della sua azione, così come il peccatore è sempre più del peccato che ha commesso. Nessun delitto può avere una personalità, cioè, giungere a identificarsi, a sovrapporsi alla totalità di una storia di vita, come fosse una seconda pelle impossibile da eliminare.
Questo è senz’altro un tema giubilare: «chi non crede alla redimibilità di una creatura umana non è cristiano»: secondo don Primo Mazzolari, due volte arrestato dai fascisti e sempre disposto al perdono, al confronto, alla consolazione, non si può pensare la realtà del carcere eludendo le categorie della fraternità e della misericordia (Lc 15), perché “solo chi ama il lupo può parlare del lupo”; quelle che qualcuno chiama “vite storte” – esistenze difficili, segnate da scelte sbagliate o da strade interrotte – non vanno vittimizzate, ma accompagnate nella possibilità di un nuovo inizio, che può passare soltanto attraverso la tessitura di legami.
Come pensare istituzioni che non annullino, ma accompagnino l’identità nella sua complessità e nella sua possibilità di cambiamento? Come pensare una forma di pena capace di suscitare una nostalgia per ciò che, attraverso la colpa, è stato distrutto, per ciò che attraverso il reato è andato perduto? Una forma di pena che non punti a slacciare i legami e deformare il sé in un processo di quotidiana mortificazione, ma che, al contrario, si faccia una scuola di relazione, un luogo «di forte e austera risocializzazione» (C.M. Martini).
La tenerezza
Può la tenerezza essere un nome della giustizia, proprio in quanto nostalgia per ciò che è andato perduto o per ciò che sembra sul punto di perdersi? La tenerezza non è, infatti, una debolezza sentimentale, ma un affetto penetrante che illumina il mondo. È una forza vitale che alimenta la resistenza – e persino la lotta – contro tutto ciò che è troppo rigido e ottuso.
Parlare di tenerezza significa riflettere su qualcosa di essenziale che manca e per questo viene invocato: significa porre la questione dell’esigenza del nostro tempo, attraverso uno dei suoi significanti decisivi che faticano a incarnarsi nel presente.
Per comprendere il significato paradossale del rapporto fra carcere e tenerezza, ma anche per interpretare la tenerezza come un nome della giustizia, occorre allora comprendere l’esigenza iscritta in essa, insieme a quello che il filosofo tedesco Klaus Heinrich definirebbe l’«elemento di protesta» che essa vorrebbe tradurre, per mostrarne gli effetti emancipativi.
Per illuminare, infatti, il senso di un concetto è necessario individuare e tradurre la forma di protesta che vuole esprimere, rompendo il silenzio che si è formato in un determinato tempo storico intorno ad esso. «Protestari, nell’antica accezione giudiziaria del termine, significa: rompere il silenzio davanti ai testimoni, affinché il silenzio non venga frainteso come consenso».
Parlare di tenerezza – una categoria divenuta quasi oscena nella nostra epoca – può allora rappresentare un gesto di resistenza entro il regime prestazionale, sanzionatorio e muscolare che stiamo patendo, come singoli, ma soprattutto come collettività.
Tenerezza diviene qui espressione di un desiderio di mettere al mondo, almeno attraverso il pensiero e il linguaggio, attraverso la potenza della parola, qualcosa che manca e che tutti desideriamo. Per questo, parlarne non rappresenta soltanto un gesto di protesta ma anche di risurrezione, che vuole far passare dalla potenza all’atto qualcosa che spinge per venire al mondo, ma non ci riesce.
Soprattutto dove la realtà si fa più dura e violenta, dove le relazioni divengono impossibili e fanno male, dove l’angoscia a ogni chiusura metallica e impietosa di porte si sente più forte, ecco forse è proprio qui che occorre parlare di tenerezza. Proprio nei luoghi dove si rischia maggiormente di incattivirsi, di irrigidirsi: per mancanza di spazio, per mancanza d’affetto, per mancanza di fiducia in sé stessi e nel mondo, per mancanza di libertà, per mancanza di futuro; la tenerezza deve diventare un nome della giustizia.
I nostri corpi e le nostre menti sono, infatti, centri ad alta densità affettiva: ogni incontro, ogni gesto, ogni parola ne trasforma l’intensità e ne varia il gradiente.
La tenerezza ha il potere di modificare il nostro elementare incontro con il mondo, perché ha la capacità di accogliere e non rimuovere la condizione di vulnerabilità e fragilità che segna ogni esistenza. È da questo sguardo che l’altro emerge nella sua alterità, nella sua singolarità e, soprattutto nella sua finitezza e mortalità.
«Questa tenerezza della miseria umana – scrive Pasolini a Sandro Penna in una lettera del febbraio 1970 – ti circonda come un’aureola terrestre intorno a un capo celeste». Pasolini osserva l’amico poeta con uno sguardo intensivo e affettivo grazie a cui si apre una zona di indistinzione fra mondo terrestre e mondo celeste: qui la tenerezza è come un’aureola che rende indeterminati i limiti fra i due mondi, come effetto dell’incontro con la vulnerabilità della singolarità individuale.
La percezione della miseria umana non radicalizza la dispersione e l’alienazione, bensì, al contrario, intensifica la cura e la protezione. La tenerezza corrisponde allora a una speciale sensibilità e affezione per le vite precarie, capace di resistere a ogni tentazione di fissazione paranoica e di giudizio senza appello.
In ciò che era fino a quel momento un corpo estraneo, realmente o potenzialmente violento, portatore di disturbo, tollerato o mal sopportato, iniziamo a scorgere un soggetto con i suoi desideri infranti e i suoi sogni andati in fumo. È così che l’estraneo – il vero prossimo – viene accolto, oltre ogni idealizzazione, nel punto singolare della sua soggettività, nel suo nome proprio, nella dimensione non sacrificabile della sua singolarità.
Questa è la potenza segreta della tenerezza, che punta, per così dire, al realismo dell’umano, con una particolare sensibilità per le situazioni di marginalizzazione e di povertà sociale e psicologica. Oltre ogni retorica sentimentale, il suo è un lavoro duro e artigianale, che si impegna sulle storie più particolari, per preservarne quel resto di umanità che nemmeno la colpa più grave può dissolvere. Per questo si può chiamare anche quella “nostalgia del finito” – quell’affetto profondo che nasce nei confronti della vulnerabilità della vita – da cui può generarsi un processo di riparazione.
Non a caso, nella tradizione biblica come in quella coranica, la misericordia (rachamim) è il nome centrale di Dio: tale parola significa letteralmente una tenerezza profonda che scaturisce nel “grembo materno” di Dio al cospetto della sofferenza del suo popolo.
Per questo può alzarsi sempre di nuovo il grido del salmista, sapendo di essere ascoltato almeno da Lui:
«Strappa dal carcere la mia vita,
perché io renda grazie al tuo nome:
i giusti mi faranno corona
quando mi concederai la tua grazia».