Mouna Maroun: i cristiani, ponte di speranza per la Terra Santa

Mouna Maroun

La rettrice arabo cristiana dell’università di Haifa parla ai media vaticani del suo incontro con Papa Leone XIV, delle importanti sfide del suo incarico alla guida di un ateneo diviso a metà tra studenti arabi e studenti ebrei, e della fiducia riposta nell’azione del Pontefice affinché nella terra di Gesù si possa finalmente parlare di pace
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano – Vatican News

“Dobbiamo crescere i nostri figli affinché possano avere i loro sogni, affinché li possano realizzare, senza dover pensare alla fame, alla guerra, e al rischio di poter perdere i loro cari e tocca a noi, cristiani di Terra Santa, essere un ponte di speranza”. Mouna Maroun parla senza interruzioni, un profluvio di parole per descrivere gli ultimi due anni, segnati dagli orrori del 7 ottobre 2023 e dai bombardamenti israeliani su Gaza, ma anche dal suo grande successo professionale: la nomina, nel 2024, a rettrice della università di Haifa, la seconda carica più importante della più principale istituzione educativa della Galilea, per la prima volta affidata a una donna, araba e cristiano-maronita, nata nel villaggio di Isfiya, sulla cima del Monte Carmelo.

In udienza da Papa Leone
Maroun, il 18 dicembre scorso, è stata ricevuta in udienza da Papa Leone XIV e con lui ha potuto parlare, oltre che della sua famiglia e della sua carriera, anche dell’importanza per i cristiani di essere costruttori di ponti e non di muri, in una terra segnata dalla violenza. “È tutto molto triste, soprattutto in questi tempi. Qui è il luogo dove è nato Gesù, è il luogo in cui tutto è iniziato. Betlemme e Nazareth, Cisgiordania e Israele, e tutto è diviso, i cristiani sono nel mezzo e il loro numero sta diminuendo sempre più. Stiamo andando via, perché i giovani non hanno davvero speranza, né in Israele, né in Palestina. Ma non si può pensare a questi due luoghi senza i cristiani, ponte tra musulmani ed ebrei, ed è per questo che il mondo deve aiutarci a rimanere radicati sia in Israele che in Cisgiordania e, naturalmente, a Gaza”. Nonostante questo però, la rettrice testimonia anche la rinascita della fede tra i giovani del Medio Oriente, soprattutto in Terra Santa. “Ci sono movimenti e parrocchie che stanno fiorendo, con i giovani che tornano alla fede cattolica e alle chiese perché la loro identità, in definitiva, è quella di essere cristiani”.

Pregare per la salvezza di tutti
All’inizio del suo mandato, Mouna Maroun espresse il desiderio che la sua nomina potesse essere, in qualche modo, un messaggio di speranza, il segno che le cose avrebbero anche potuto andare diversamente. “La mia elezione è avvenuta in condizioni estremamente tragiche, a sei mesi di distanza dal massacro del 7 ottobre e dall’inizio della guerra a Gaza. Ed è stato difficile essere a capo di una università israeliana, io donna araba e cristiana, e trovarmi a metà strada di ciò che avveniva. Ho sempre chiesto a tutti di pregare, per la liberazione degli ostaggi israeliani e per la sicurezza dei palestinesi, per la vita dei bambini innocenti. In Israele, a noi arabi, è come se fosse stato chiesto di scegliere da che parte stare, e io ho sempre fatto in modo di far passare il messaggio che questo non lo si può fare”, perché il dolore riguarda tutti, anche se questo “non è stato realmente accettato dalla società ebraica israeliana. Volevano che scegliessimo una parte, e questo non si può davvero fare”. La rettrice guarda a questi due anni, alla “massiccia distruzione” di Gaza. Pensa alle migliaia di bambini rimasti uccisi, loro che certamente “non possono essere incolpati di essere terroristi”, e poi spiega come “la guerra non può davvero eliminare Hamas, perché Hamas è una ideologia”.

Gli studenti di Haifa
Il 45% degli studenti dell’università di Haifa è di etnia araba, allievi di un ateneo che ha sempre manifestato l’ambizione di essere un laboratorio di convivenza, il che certamente, soprattutto negli ultimi due anni, non è davvero stato facile, né per gli arabi, né per gli ebrei. “Come dico sempre, il fatto di che non ci siano né minoranze né maggioranze nella nostra università, fa sì che davvero si possa pensare di costruire, su questa uguaglianza, un altro sistema. Negli anni scorsi abbiamo dato vita ad un laboratorio di dialogo interreligioso, una iniziativa che ho anche descritto al Papa con il quale condivido l’idea che quando conosci l’altro abbatti davvero tutti gli ostacoli e tutte le barriere, perché sai che anche lui è figlio di Dio ed è uguale a te. Tutti crediamo nello stesso Dio, e io sto facendo del mio meglio, come università, per promuovere il dialogo interreligioso, per promuovere l’assunzione di professori arabi, per permettere agli studenti arabi di sentirsi al sicuro e di avere modelli di riferimento nel mondo accademico”. Per molti studenti vivere assieme nello stesso campus diviene opportunità di dialogo, e anche di unione. “La nostra università sta davvero facendo qualcosa di molto positivo per la società israeliana”.
La soluzione dei due Stati
Dalla disperazione e dall’angoscia che stringono in questo momento la Terra Santa possono nascere speranza e resilienza, “anche perché non c’è altra via se si vuole che il Medio Oriente prosperi”. La rettrice parla della sua devozione per san Charbel Makhluf, la cui tomba, nel monastero di Annaya, in Libano, è stata visitata dal Papa il primo dicembre scorso, nel corso del suo viaggio apostolico in Turchia prima e in Libano poi. Una visita che “ci ha portato speranza” dice Maroun, convinta che ci sarà un futuro per il Libano, così come per Israele e per i palestinesi. “Dobbiamo stare insieme, farci arrivare a questo è un compito che spetta alla comunità internazionale che, guidata da Leone XIV, probabilmente sarà in grado di portare avanti, perché il Papa, sta facendo tutto il possibile per promuovere la pace”. Ma non si arriverà ad una soluzione “senza due Stati, uno ebraico e uno palestinese. Ogni popolo ha il diritto di vivere dignitosamente, in modo indipendente, di avere la propria bandiera e di sentirsi parte integrante della propria terra. I palestinesi meritano il loro stato, gli israeliani lo hanno e hanno il diritto di difenderlo. Ci dovrebbe quindi – è la conclusione – essere uno sforzo congiunto tra leader politici e leader religiosi incaricati di aiutare i popoli, con le preghiere, aiutandoli a riconoscere e accettare le differenze dell’altro”.

L’appello di Natale delle Chiese di Gerusalemme

Patriarcato e Convento San Giacomo degli armeni a Gerusalemme

Nel messaggio di Natale, i patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme invitano a non confondere il cessate il fuoco con una pace reale. Al centro l’Incarnazione di Cristo come segno di speranza e un appello alla comunità internazionale a sostenere una pace giusta, fondata sulla dignità umana
Vatican News

In un Medio Oriente ancora segnato da conflitti e instabilità, i patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme hanno diffuso il tradizionale messaggio di Natale, ribadendo che la pace non può ridursi a una semplice sospensione delle ostilità, ma deve essere accompagnata da giustizia, riconciliazione e rispetto dei diritti fondamentali. Aprendo il testo con un richiamo alla Lettera agli Ebrei – “Circondati da una così grande nube di testimoni, corriamo con perseveranza la corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù” – i leader cristiani invitano i fedeli a rimanere saldi nella speranza anche nei momenti di maggiore sofferenza.

Betlemme, segno di speranza per un mondo ferito
Al centro del messaggio viene posto il significato dell’Incarnazione di Cristo a Betlemme, presentata come segno di una speranza che nasce nel cuore della fragilità umana. Come per i pastori della notte di Natale, anche oggi il messaggio evangelico invita a non cedere alla paura e allo scoraggiamento.

Cessate il fuoco non significa pace
Pur accogliendo con favore il cessate il fuoco che ha permesso a molte comunità di celebrare più liberamente le festività, i Patriarchi mettono in guardia dal rischio di una “pace apparente”, richiamando le parole del profeta Geremia: “Pace, pace, ma pace non c’è”. Secondo il messaggio, nonostante la tregua, continuano infatti violenze, vittime e violazioni delle libertà, in Terra Santa e nei Paesi vicini.

Con il pensiero a chi soffre
I capi delle Chiese ribadiscono la loro solidarietà a tutte le persone colpite dal conflitto e rivolgono un appello ai cristiani e a tutte le persone di buona volontà affinché perseverino nella preghiera e nell’impegno per una pace autentica e duratura. Il messaggio si conclude con gli auguri di Natale alle comunità locali e ai cristiani di tutto il mondo, nella speranza che la nascita di Gesù a Betlemme possa rinnovare il desiderio di riconciliazione e di giustizia.

Lettura e Vangelo del giorno 23 Dicembre 2025


Letture del Giorno
Dal libro del profeta Malachìa
Ml 3,1-4.23-24

Così dice il Signore:
«Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti.
Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani.
Ecco, io invierò il profeta Elìa prima che giunga
il giorno grande e terribile del Signore:
egli convertirà il cuore dei padri verso i figli
e il cuore dei figli verso i padri,
perché io, venendo,
non colpisca
la terra con lo sterminio».

Vangelo del Giorno
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,57-66

In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.

Aspettando l’aurora

frosini

Settimana News

Lo scorso 16 dicembre, nell’Aula Magna del Seminario vescovile di Pistoia si è tenuta la cerimonia di assegnazione della Terza edizione del Premio nazionale di Teologia «Mons. Giordano Frosini» (cf. qui su SettimanaNews). Nell’occasione è intervenuto il vescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli, portando il suo saluto che riprendiamo di seguito

Sono contento di poter rivolgere il mio saluto in occasione del ricordo di Giordano Frosini, sacerdote di Pistoia e docente di teologia dogmatica presso lo Studio teologico fiorentino, adesso Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Tante volte, facendo memoria di alcune grandi figure che abbiamo incontrato e che non sono più presenti tra noi, emerge interiormente, quasi spontaneo, un pensiero che si esprime a mo’ di domanda: come interpreterebbero loro quanto sta avvenendo davanti ai nostri occhi? In che modo ci aiuterebbero nel saper stare davanti alla realtà? In altre parole, un uomo come Frosini, con quello sguardo capace di guardare lontano e in profondità, cosa ci direbbe rispetto a quanto accade nel quotidiano? Quale chiave di lettura ci offrirebbe per comprendere lo scenario internazionale di crisi a cui assistiamo?

Mi piacerebbe qui provare a rispondere a queste domande alla luce del contributo che mons. Frosini ha offerto, facendo in particolare riferimento alla sua opera escatologica intitolata Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana [1]. Seguirò di questo libro anche il metodo offerto: il nostro teologo, infatti, nel presentare il significato dell’escatologia non parte da alcune nozioni teologiche e neanche immediatamente dalla Scrittura, ma il suo punto di partenza è «uno sguardo al presente», e dunque la realtà, così come essa si presenta oggi.

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«La condizione dei poveri rappresenta un grido che, nella storia dell’umanità, interpella costantemente la nostra vita, la nostra società, i sistemi politici ed economici e, non da ultimo, anche la Chiesa» (n. 9). Sono parole di papa Leone XIV, contenute nella sua prima esortazione apostolica Dilexi te sull’amore verso i poveri.

Non è un caso che Papa Leone abbia scelto di iniziare il suo Magistero con un testo in cui i poveri sono al centro della riflessione; certamente, la scelta di questo tema si lega a una riflessione che Papa Francesco aveva già avviato, con l’Enciclica Dilexit nos, e con un testo che aveva iniziato a scrivere negli ultimi mesi della sua vita. Per questa ragione, Leone XIV afferma: «Avendo ricevuto in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato» (n. 3).

Oltre a questo legame con il suo Predecessore, il Papa ha voluto presentare questa esortazione apostolica sui poveri proprio per l’urgenza di una questione che continua a interpellare la Chiesa. Di fronte al grido di coloro che sperimentano ogni giorno ingiustizie, la comunità cristiana non può volgere il proprio sguardo altrove, facendo finta di nulla, come se questo dramma fuoriuscisse dalle sue competenze immediatamente spirituali, ma è chiamata a prestare il massimo ascolto, fino a soccorrere e anche ad «assumere» la disperazione dell’umanità.

E questa attenzione verso i piccoli e i fragili non ci pone soltanto nell’ambito del volontariato, ma soprattutto in relazione a quanto Dio continua a dire di Se stesso all’umanità; come ha ribadito il Papa, non stiamo «nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha qualcosa da dirci» (n. 5).

La Chiesa, dunque, di fronte al grido dell’altro è chiamata non semplicemente a «fare» qualcosa, ma soprattutto a «dare» tutta se stessa, proprio perché attraverso questo «altro» Dio continua a introdurre ogni uomo e donna nel Suo mistero di amore, rivelando loro, in modo sempre nuovo, chi Egli sia. Il grido di Colui che fu inchiodato sulla croce continua ininterrottamente da duemila anni a farsi sentire proprio nel grido dei tanti poveri: questa consapevolezza deve continuare incessantemente a provocarci e a scuoterci.

Il cristiano è chiamato ogni giorno a interpretare tutto quello che accade nella realtà in relazione a quanto Gesù ha insegnato. Non si tratta, tuttavia, di leggere il presente guardando all’indietro, come se il Vangelo riguardasse esclusivamente quanto avveniva duemila anni or sono, in quanto il Risorto è presente nell’oggi.

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È interessante ricordare come, soprattutto nella Chiesa delle origini, l’attenzione dei discepoli del Maestro non era rivolta soltanto su quanto accaduto (tutto quello che Gesù aveva detto e aveva compiuto), ma soprattutto verso ciò che stava per accadere. La comunità cristiana, infatti, era in continua attesa di rivedere il Signore, il quale aveva annunciato: «In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mt 24,34).

Questa venuta era aspettata da un momento all’altro; perciò tutto quello che accadeva sotto i loro occhi non poteva che essere interpretato alla luce di ciò; anzi: era proprio l’attesa del nuovo incontro ad aiutare gli uomini e le donne dei primi secoli a interpretare anche il negativo che stavano vivendo (ad esempio, le persecuzioni) come «occasione» di testimonianza.

Ancora oggi, come allora, la Chiesa è chiamata a interpretare ogni situazione, anche la più negativa e nefasta, alla luce di questo incontro con Colui che sta per raggiungerci. Proprio a questo ci prepara il tempo dell’Avvento: non stiamo aspettando la prima venuta (in quanto è già avvenuta), ma quella ultima, definitiva. Per questo motivo il Natale, facendo memoria della prima venuta, alimenta costantemente il desiderio della nuova venuta, in cui verrà donata la salvezza.

Qualcuno potrebbe obiettare: in quel giorno, insieme alla salvezza per alcuni, arriverà anche la dannazione per altri. Si tratta di un’obiezione che rivela un certo sentire comune, per cui a chi ha condotto una vita buona e nella verità verrà donata la salvezza, e a chi, invece, si è lasciato determinare da qualcosa d’altro, la condanna. Questo modo di vedere la fine della storia ha aperto le strade a diverse interpretazioni, fino talvolta a rasentare anche una fantasia religiosa che con la Scrittura ha davvero poco da spartire.

Frosini ha ben illustrato come questa fine non abbia a che fare con le cose ultime (al plurale), ma con la cosa ultima (al singolare): in altre parole, alla fine non ci sarà salvezza e dannazione, in quanto l’unica cosa che verrà offerta è il Paradiso. Ecco le parole di Frosini:

«L’eschaton non potrà essere che quello positivo. Salvezza e dannazione (paradiso e inferno) non rappresentano due situazioni escatologiche simmetriche, due realtà di uguale valore. Dio si è messo in movimento per la salvezza di tutti gli uomini e non può volere direttamente l’insuccesso della sua impresa»[2].

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Interessanti queste parole del nostro teologo, in quanto mostrano con estrema chiarezza che esiste per ogni uomo e donna un’unica predestinazione: si è predestinati unicamente alla salvezza, a stare con Dio. Questa affermazione non vuole assolutamente negare l’esistenza dell’inferno, ma mostra come Paradiso e Inferno non siano due luoghi paralleli creati da Dio: l’uno per i buoni e i santi, l’altro per i cattivi e i lontani. Dio ci ha fatti per stare con Lui: ci ha creati per salvarci. Scrive ancora Frosini: «L’offerta è unica e aperta a tutti, anche se esiste la possibilità del rifiuto […]»[3].

Dunque, siamo stati fatti per la salvezza, per questo l’offerta è unica; tuttavia, la possibilità di dire di «no» a tutto questo continua a permanere. Il «rifiuto» della salvezza ha a che fare con l’inferno, o meglio, l’inferno sembra essere proprio la condizione definitiva di chi ha liberamente scelto di non aderire all’offerta della salvezza. Spiega Frosini: «L’inferno, più che una realtà creata, è una reale possibilità nelle mani dell’uomo»[4].

Esso, dunque, esiste, ma non ha la stessa condizione ontologica del Paradiso, in quanto è una realtà che non è stata creata da Dio, al contrario del Paradiso. E quest’ultimo, spiega ancora Frosini, non è il luogo destinato a ospitare coloro che hanno meritato di abitarlo per le buone azioni compiute; ma al contrario: il Paradiso è e rimarrà sempre e soltanto dono di Dio[5].

In altre parole: non siamo noi a guadagnarci la vita eterna attraverso uno sforzo personale, ma è Gesù stesso a donarla raggiungendo la sua creatura in qualunque situazione di peccato si trovi (questo movimento di Dio è chiamato adventus: è evidente il richiamo al tempo liturgico che stiamo vivendo).

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Tutto ciò ci aiuta a riflettere su due aspetti: in primo luogo, che Dio è amore, e non può volere (e tanto meno creare) qualcosa che abbia un destino «altro» dal Suo amore; in secondo luogo, che Dio, essendo amore, ha creato la sua creatura libera, rendendola capace di rifiutare l’amore del suo creatore. L’inferno esiste, dunque, non perché creato da Dio, ma in quanto portato all’esistenza da chi si chiude a Dio e al prossimo.

In quest’opera Frosini ci mostra come il quotidiano che stiamo vivendo, determinato da guerra, da violenza e da morte, nasconda il grido del povero che così viene sempre meno ascoltato. Come per i primi cristiani, tuttavia, anche il nostro modo di interpretare quanto stiamo vivendo deve essere visto sempre alla luce del nuovo incontro con Cristo, riconoscendo il fatto che questo negativo che sta distruggendo l’umanità non sia da amputare a Dio, ma unicamente alle creature; non solo: questo negativo, toccando la carne del creato (dimensione ecologica) e la carne delle creature (dimensione antropologica), sta ferendo il corpo stesso di Cristo.

L’attesa della Sua nuova venuta con il suo stesso corpo, senza nulla togliere alla tragicità della situazione attuale, genera nel cristiano la capacità di saper riconoscere – proprio in questa negatività – l’amore di un Dio capace di amare la sua creatura fino a crearla libera di interrompere la relazione con Lui.

Da questo sguardo non scaturisce alcuno spiritualismo della realtà, ma al contrario il cristiano può porsi in modo sempre più critico nei confronti di logiche che non appartengono a quanto Dio ha rivelato di Sé e dell’umano attraverso la creazione e l’evento dell’incarnazione.

Questa criticità verso il presente, che caratterizza ogni credente, scaturisce dall’attesa di qualcosa di grande che gli sta venendo incontro; e in questa attesa, ogni uomo e donna non devono rimanere passivi spettatori della realtà, ma devono mettersi in cammino, proprio come hanno fatto i Magi. Scrive ancora Frosini:

«Aspettando l’aurora, il cristiano e la Chiesa, in cammino verso l’eternità, fanno proprio lo spirito dei Magi, i santi viaggiatori che vennero dall’oriente per incontrare il Signore. […] Anche la vita è un viaggio, che va da oriente a occidente. Si comincia coi bagliori dell’aurora; poi il lungo percorso della giornata, la fatica che cresce, le illusioni e le delusioni della vita, la dura lotta per l’esistenza; poi ancora il lento rasserenarsi del crepuscolo, le prime ombre del tramonto, l’addio della sera»[6].

In tutto il negativo che gli sta davanti agli occhi, il cristiano deve sempre e comunque lasciarsi determinare non da un inutile ottimismo, ma dalla speranza che nasce dalla certezza di fede nell’avvento di Cristo, attraverso la quale tutto, anche il cosmo, sarà trasformato e cristificato. Concludo il mio saluto con questa bella citazione di Frosini:

«È così che la nostalgia diventa il sentimento di chi scruta il cielo per vedere quando spunterà l’aurora. Una nostalgia alla rovescia. Non il rimpianto di un bene lasciato, ma il desiderio vibrante di un bene futuro»[7].

[1] G. Frosini, Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana, EDB, Bologna 1994.

[2] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[3] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[4] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[5] Cf. G. Frosini, Aspettando l’aurora, 154.

[6] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 225.

[7] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 227.

Nel ’900: immagini del Natale

Fonte: Settimana News

di: Antonella Cattorini Cattaneo

L’arte religiosa e sacra del ‘900 – nelle sue rare ma incisive manifestazioni – privilegia la rappresentazione della morte di Cristo a quella della sua nascita. Gli “Ecce homo” di Rouault, il Cristo Giallo di Gaugin, gli splendidi crocifissi di Congdon, solo per fare qualche esempio, raffigurano il Figlio dell’uomo nella sua difficile, estrema e libera adesione alla volontà del Padre.

Forse tale privilegio si spiega con i presagi e gli echi di orrende guerre che gli artisti hanno avvertito nel loro tempo. Oppure – come direbbero con Hanna Arendt molte altre pensatrici – il motivo è nella stessa filosofia occidentale che fin dalle origini ha riflettuto più sulla fine che sull’inizio della vita. Certo è che il momento della morte in croce di Cristo risulta centrale nell’avventura della fede.

Lì si compie il percorso esistenziale di Gesù e di ogni credente segnato, fin dalla nascita, dall’affidamento a Dio. Una nascita vissuta in un isolamento pari a quello della fine. In alcune immagini “natalizie” dei citati maestri del ‘900 sembra cogliersi tale messaggio.

Sono brani artistici che non rimandano all’armonia e allo splendore delle composizioni tardomedievali e rinascimentali e tanto meno alle raffigurazioni che popolano il mercato odierno. In genere nelle icone novecentesche per lo più manca la luminosità e lo splendore a cui il Beato Angelico e molti altri ci hanno abituato.

La luce del divino è incompiuta, convive con l’ombra. Il piccolo Figlio dell’uomo è autenticamente immerso nella povertà – ultimo tra gli ultimi – e a volte abbracciato a una giovane donna, dimessa, come il suo compagno. Genitori che si sono affidati a un misterioso annuncio, inascoltato dai benpensanti. Seppur scardinate le prospettive di straordinarie pale d’altare, di splendide miniature e fondi oro, veniamo immessi nel messaggio dell’Incarnazione con forme aderenti al tema evangelico.

Potremmo paragonare i maestri del ‘900 a quei ragazzini intelligenti che voltano le spalle alle omiletiche lezioni degli adulti ma nel frattempo ascoltano parole, che riconoscono vere, gli insegnamenti dei loro maestri e la Parola che in qualche modo li abita.

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Difficile dire “bella” una scena ombrosa e defilata se siamo abituati a colori dai toni alti e a prospettive centrali. Eppure, la nascita del Cristo è stata appartata e incompresa.  Paul Gauguin (1848-1903) ritaglia il presepe in un angolo buio del quadro dove nel minuto spazio di un’edicola pone la Madonna e una contadina adoranti. In primo piano due buoi e donne con copricapo in un paesaggio innevato e freddo.

È la Bretagna primitiva in cui amava vivere con gli altri artisti di Pont Aven. All’orizzonte, nella breve luce di un tramonto, sembra intravedersi la croce di una chiesa. In primo piano motivi egizi (i buoi) e giavanesi (il presepe), come dicono i critici che collocano l’ultimazione del quadro (iniziato nel 1894 a Pont-Aven) nelle isole del Pacifico. L’universalità del messaggio cristiano è espressa anche così.

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Paul Gaugin, Notte di Natale, ca.1902-3. Indianapolis Museum of Art at Newfields, USA.

Forse pochi maestri come Georges Rouault (1971-1958) potevano cogliere cosa significa nascere in un antro oscuro. L’artista – “dalla fede religiosa, sincera e profonda” (sono parole di Jaques Maritain che con la moglie Raissa seguì da vicino il percorso dell’artista) – nacque in una cantina di Belleville nel maggio del 1871 durante il bombardamento prussiano di Parigi, in piena guerra civile. Figlio di un ebanista (come il falegname Giuseppe!), non ha mai perso i contatti con il mondo operaio e il suo lavoro mantenne la forza della creatività di un artigiano detestando la mediocrità borghese. Eppure, mancano icone specifiche di Natività nella sua ricca produzione artistica a lungo ignorata e derisa anche dagli amici.

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Georges Rouault, Il vecchio faubourg Mère et enfants, 1951. Fondation Georges Rouault, Parigi.

Come scrive Raissa Maritain, egli fu un artista solitario, capace di abbandonare il successo facile e di tracciare i propri sentieri con molta pazienza e fiducia nel “Dio dell’arte e della bontà” (Raissa Maritain, I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 1956).

Tuttavia, la tenerezza dell’abbraccio materno dipinta in un capolavoro della maturità dice il lavoro interiore volto a riconoscere l’umanità di un Dio che si fa bambino. I profondi tratti neri che contornano le figure (come le piombature delle vetrate su cui, in età giovanile aveva lavorato) evidenziano la calda luce solare evocante tenerezza e fiducioso abbandono.

Fa pensare una sua riflessione in una lettera inviata a Raissa: “Quel che rimpiango è di non avere una seconda vita per portare alcune opere a un certo punto”.  Quando viene colto il valore del proprio percorso artistico e la forza spirituale di Chi lo ha sostenuto è inevitabile la speranza in una vita piena che superi la morte.

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William Congdon, Natività,1965.

La Natività di William Congdon (1912-1998) eseguita dopo 6 anni dal suo battesimo (15 agosto 1959) si colloca in una fase nuova della sua esperienza artistica. Ѐ un’immagine che rivela l’irrompere dell’azzurro nel buio di uno spazio e di un tempo indefiniti.

La madre e il bambino galleggiano su una fragilissima barca venuta chissà da dove, nel biancore di una luce imprevista. La forte componente materica ampiamente presente nelle tele e nelle tavole dell’artista rivela la dimensione corporea dell’assoluto.

Un “corpo a corpo…colpo di spatola dopo colpo di spatola” scrive Massimo Morasco per descrivere lo sguardo di Congdon “sull’assoluto” (Essere Trasfigurato. Una lettura teologica dell’opera di William Congdon, QiQajon,2012). Il mistero dell’Incarnazione vibra nell’esperienza pittorica che stratifica i pigmenti.

Difficile oggi trovare cartoncini di auguri natalizi raffiguranti questi soggetti che ammiriamo più nei musei che nelle chiese.

Sproporzioni, lacerazioni, deformazioni e destrutturazioni possono a prima vista impressionare occhi troppo adesi a visioni ottimistiche e pacificate. In realtà parlano del sacro che entra improvvisamente nella storia, ammutolisce i pastori dell’Essere, richiama persino i potenti della terra. E invita ad inchinarsi a Chi prende dimora in una sfasciata capanna e regalmente apre strade di libertà, giustizia e solidarietà umana.

Un dialogo tra teologia, diritto e politica potrebbe offrire nuove prospettive sia alla Chiesa cattolica che alle nostre società contemporanee

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La teologia cattolica ha per lungo tempo perso interesse per il diritto quale istanza intorno a cui articolare senso e legittimità della presenza della fede religiosa nello spazio pubblico. Dalla tradizione della grande scolastica, nel corso della modernità occidentale, essa ha preso come punto di riferimento esclusivo la ragione filosofica impegnandosi in un dialogo serrato con quest’ultima; lasciando da parte l’elaborazione del versante giuridico, che aveva visto proprio nella teologia scolastica uno dei grandi protagonisti della costruzione del diritto occidentale che ha accompagnato la «europeizzazione del mondo» (Paolo Prodi).

Si potrebbe dire che tra i due grandi filoni culturali che hanno reso possibile la occidentalizzazione del cristianesimo, la teologia cattolica ha scelto sempre più, col progredire della modernità, quello greco della ragione filosofica rispetto a quello romano della ragione giuridica. Questo posizionamento della ragione teologica l’ha fatta trovare impreparata davanti al dato di fatto che la ragione pubblica europea, quale principio di ordinamento della coesistenza umana, si è formata per «riferimento fondamentale al diritto» (Jean-Marc Ferry) – e non alla filosofia.

Questa scelta di campo non è stata senza conseguenze anche per ciò che concerne il ruolo della teologia all’interno dell’attuazione istituzionale della Chiesa cattolica, che ha fatto del diritto il perno per l’esercizio pratico del potere istituito nei confronti della fede vissuta. Se il compimento filosofico della modernità suggella il diritto come strumento ed espressione del potere supremo dello stato, l’inerzia teologica lo consegna totalmente nelle mani della giurisdizione assoluta del potere papale. Sia lo stato-nazione che la Chiesa cattolica, senza più uno stato, faranno del codice il veicolo esclusivo dell’applicazione della forza di legge.

In entrambi i casi si perde quella sapienza giuridico-teologica medioevale che comprendeva il diritto come un fatto sociale, sul quale il potere politico non esercitava alcuna forma di primato.

Il caso della sinodalità
Oggi, la teologia cattolica inizia a essere consapevole del prezzo pagato per questa dimenticanza del diritto, ma lo fa ancora all’interno di una forma mentis tipicamente moderna: o cercando l’interlocuzione sul piano della filosofia del diritto, oppure avanzando la necessità di una riformulazione del codice che renda attuabile l’istanza sinodale all’interno della Chiesa. Sia sul piano teorico (filosofia del diritto), sia su quello pratico (codice di diritto canonico), questa riscoperta teologica del diritto non è però in grado di raccogliere quei suoi sviluppi «pos-moderni» (Paolo Grossi) che più dovrebbero interessarla – ossia quelli di limitazione e critica del potere (politico e religioso).

Il caso della sinodalità è esemplare. Affermare che solo una modifica del codice di diritto canonico può renderla efficace, significa non cogliere che la sinodalità praticata è già un fatto di diritto, un ordinamento, in virtù del suo essere fatto concreto del corpo sociale ecclesiale che si organizza sinodalmente. Certo, il convenire sinodale della Chiesa cattolica è un ordinamento giuridico sui generis, questo però per ragioni storiche e non di forma sostanziale. Ossia, perché la Chiesa cattolica uscita dalla modernità, come avvenuto anche per gli stati-nazione, ha annullato quella pluralità di ordinamenti giuridici che l’ha caratterizzata per più di un millennio.

Il fatto che la sinodalità sia avvenuta, e continui a essere praticata, ha generato la realtà di un ordinamento interno alla Chiesa che non è quello sancito dal Codice di diritto canonico. Ossia, di un potere del diritto che non è quello del potere supremo di giurisdizione che con il Vaticano I è stato fatto coincidere con il corpo del sommo pontefice.

Solo nella misura in cui si saprà resistere alla tentazione di codificarla, ossia di rimetterla alla giurisdizione del potere supremo nella Chiesa, la sinodalità sarà in grado di operare come forza nella legge che limita il potere della forza di legge. Tradurre la sinodalità in articoli del codice significa disattivare la sua forza (nella legge) di ordinamento giuridico istituente la configurazione complessiva dell’istituzione ecclesiale. Questo è, a mio avviso, il grosso limite del Cammino sinodale della Chiesa tedesca, che ha voluto trasformare la pratica della sinodalità in uno statuto giuridico del suo ordinamento – che è di fatto una codificazione sostanziale della sinodalità stessa.

In questo modo, la sinodalità cessa di essere forza istituente nella legge per assurgere al livello della forza di legge – trasformandosi a sua volta in potere istituito, dove al massimo cambiano i detentori di questo potere della legge. Questo esito della Cammino sinodale tedesco mostra con evidenza quanto sia ancora forte l’attrazione del sistema moderno – il cui grosso limite è quello di non essere riuscito a individuare un potere del diritto in grado di limitare e controllare il diritto supremo del potere. Limite divenuto oggi drammaticamente evidente nella inefficacia della divisione dei poteri quale presidio a garanzia della forma democratica del governo del popolo.

Il diritto della religione
L’estraneità del diritto dalla teologia che pensa la fede dentro la storia umana appare ancora più sorprendente se solo si pensa alla abilità del cristianesimo delle origini di fare sponda su di esso per dare ragione della propria partecipazione alla configurazione dello spazio pubblico abitato da tutti.

Paolo ricorre proprio a un topos classico del diritto, quello della cittadinanza romana, per legittimare la sua argomentazione religiosa nella città degli uomini e delle donne. Lo fa quando la controversia religiosa fra il giudaismo del tempo e la sua riformulazione messianica approda davanti all’autorità romana.

L’arresto di Paolo da parte di questa autorità (cf. At 21, 27ss.) viene presentato come una via per ristabilire un minimo di ordine pubblico e non ha alcun carattere anti-religioso. Infatti, a Paolo viene permesso di rivolgersi pubblicamente al popolo che si era lì riunito. Fino al momento in cui la polemica religiosa che ruota intorno a Paolo non altera l’ordine pubblico, l’autorità romana si astiene da ogni intervento. Solo quando la disputa religiosa provoca un nuovo sommovimento della folla, allora l’autorità giuridico-politica si vede costretta a prendere posizione per garantire l’ordine della città.

Come già accaduto in At 16, 19-39, anche in questo caso la procedura dell’intervento dell’autorità romana implica un vulnus giuridico: ossia, la commistione di una pena in assenza del dovuto processo. Ed è esattamente per questo motivo che Paolo si rifà al diritto di cittadinanza: «Ma quando l’ebbero disteso per flagellarlo, Paolo disse al centurione che stava lì: “Avete il diritto di flagellare uno che è cittadino romano e non ancora giudicato?”» (At 22, 25). Immediata la reazione del comandante romano, che «ebbe paura, rendendosi conto che Paolo era romano e che lui lo aveva messo in catene» illegalmente (At 22, 29).

L’accentuazione della narrazione lucana non pare essere qui eccessiva, poiché, «in particolare nelle colonie romane, i giudici dovevano essere attenti a non infrangere questi diritti [di un cittadino romano], che includevano la libertà rispetto a un trattamento arbitrario» come quello riservato qui a Paolo (Luke T. Johnson). Il rimando al diritto appare sotto un’altra angolatura anche in At 18, 12-17, dove i giudei portano Paolo in tribunale con l’accusa di predicare un culto a Dio contrario alla legge mosaica. Davanti a questa richiesta, il proconsole romano Gallione si rifiuta di procedere giuridicamente contro Paolo in quanto la sua autorità di giurisdizione si limita al giudizio su crimini e frodi – e il contenuto di un contenzioso religioso interno al giudaismo non ricade all’interno di essa.

Da Paolo a Tertulliano
In Atti, dunque, Luca ricorre al diritto in passi nei quali intende delineare l’apologia pubblica dell’operato di Paolo. Su questa linea si pone la Difesa del cristianesimo di Tertulliano[1] che, per primo fra gli apologeti dei primi due secoli dell’era cristiana, si rivolge non all’imperatore (ossia alla fonte del potere giuridico) ma ai giudici (ossia all’esercizio del diritto come sentenza). Come osservato, «questo si spiega col fatto che, da Marco Aurelio in poi, a questi magistrati spettava – oltre a giudicare nei processi anticristiani nati da denunce private – anche di prendere l’iniziativa della ricerca d’ufficio dei sacrilegi, fra i quali l’opinione pubblica ostile annoverava i cristiani» (Marta Sordi).

Tertulliano non chiede ai giudici romani alcun trattamento privilegiato per la verità cristiana di Dio, ma rivendica il diritto che essa «non sia condannata senza essere conosciuta. Quale danno subiscono le leggi, nel loro regno sovrane, se è ascoltata? Il loro potere riceverà gloria perché condannano la verità, benché inascoltata? Se la condannano senza averla ascoltata, oltre all’odiosità dell’ingiustizia, desteranno anche il sospetto di un qualche pregiudizio, non volendo ascoltare ciò che, ascoltato, non avrebbero potuto condannare» (107-109).

Secondo Tertulliano, quando in giudizio sono chiamati i cristiani, il processo nei loro confronti risulta falsato: viziato da un pregiudizio che non è solamente discriminatorio, ma snatura anche il senso stesso del diritto e la «correttezza processuale» (119), Infatti, «solo ai cristiani non si permette di dire nulla che confuti l’accusa, che difenda la verità, che non renda il giudice ingiusto» (115). La persecuzione giuridica dei cristiani sarebbe quindi una negazione del diritto stesso: «Questa perversità dovrebbe farvi sospettare che non si nasconda una qualche forza occulta, che si serve di voi contro la correttezza processuale, contro la natura del giudizio, persino contro le stesse leggi» (121).

Il cristianesimo e l’impero
I primi secoli del cristianesimo vedono dunque nel diritto l’istanza adeguata di interlocuzione per dare ragione della legittimità della presenza della fede religiosa nello spazio pubblico di allora. Certo, tra Atti e Tertulliano i tempi sono cambiati, soprattutto perché il cristianesimo non è più una semplice setta messianica interna al giudaismo, ma si profila sempre più come religione specifica a sé stante – che porta in sé un germe che potrebbe risultare pericoloso per il potere costituito.

Nel racconto di Atti il proconsole Gallione poteva rispondere nei seguenti termini ai giudei che cercavano di far passare l’alternativa messianica di Paolo come pericolosa per l’ordinamento romano: «Se sono questioni di parole o di nomi o della vostra Legge, vedetevela voi: io non voglio essere giudice in queste faccende» (At 18, 15). Mentre proprio questo sembra essere l’oggetto dell’apologia giuridica di Tertulliano: «Poiché in tutto ci trattate diversamente dagli altri colpevoli, adoperandovi unicamente a farci escludere da questo nome, potete comprendere come non sia in causa di un qualche delitto, ma un nome contro cui si muove una certa forma di ostile attività, la quale si adopera anzitutto a far sì che gli uomini rifiutino di conoscere con certezza quello che con certezza sanno di ignorare» (123).

Il cristianesimo diventato religione civile dell’impero romano non più bisogno di ricorrere al diritto per dare ragione di sé – e neppure per affermare la legittimità della sua presenza nello spazio pubblico. Quest’ultima gli viene conferita da un potere politico che aveva adottato il cristianesimo come collante di un impero che andava perdendo la sua forza di coesione. Sarà poi il presentarsi sulla scena dell’Occidente cristiano di un’altra religione, l’islam, che avanzava una pretesa omologa di funzione civile del sacro a spingere la prima scolastica a fare della ragione filosofica l’argomento per affermare la propria egemonia politico-religiosa.

Sarà poi la Chiesa, come istituzione cattolica del potere, a coltivare il diritto e a condurlo verso la sua modernità secolare, lasciando alla teologia i «filosofi e la ragione» che, con l’introduzione del duplex ordo veritatis da parte di Tommaso, non rappresentavano un pericolo per il potere sulla verità che si andava sempre più concentrando nelle mani del romano pontefice. In questo modo, quasi senza accorgersene, l’apologetica prima e la teologia fondamentale poi diventavano strumenti argomentativi di quel potere ecclesiastico che godeva di un’eccedenza di sapere sulla verità cristiana di Dio inaccessibile a quelle discipline della ragione teologica.

Il potere supremo della Chiesa sa cose che la teologia da sé non può sapere, ma che deve ossequiosamente apprendere da esso in virtù dell’istanza giuridica che le rende vincolanti per la fede e la sua intelligenza. In questo modo, i teologi, nell’ambito del sacro, diventano, come i giuristi e gli avvocati in quello secolare, una sorta di «enzimi del potere» – impediti dal diritto ridotto a codice a esercitare qualsivoglia funzione profetica di critica e limite del potere.

Diritto e profezia
La teologia, dentro la costellazione che si è venuta a creare nella Chiesa cattolica, manca di profezia non perché non eserciti una critica del potere costituito del magistero, ma perché facendo questo si attua di fatto come contropotere – in una lotta per l’affermazione di un potere sull’altro. Questa è la dinamica di sostituzione che muove molte correnti del riformismo cattolico: laici al posto del clero; donne al posto degli uomini; sinodalità al posto della gerarchia.

Il senso della profezia, invece, è quello di una critica del potere politico e religioso che abbozza un quadro sociale in cui il potere, tanto della gerarchia quanto dei laici, tanto del magistero quanto della teologia, viene efficacemente limitato. La forza istituente della profezia sta nella disattivazione, al suo interno, della aspirazione a prodursi come potere alternativo. «Profezia e utopia sono storicamente realtà molto diverse: hanno in comune la condizione di essere escluse dai templi e dai palazzi del potere. La profezia, essenziale elemento della storia della salvezza dell’umanità, come strumento di trasmissione della “voce” di un Dio trascendente che si contrappone alla realtà del potere che domina il mondo, […] è venuta meno nella Chiesa cattolica con l’avvento della modernità» (Paolo Prodi).

Si potrebbe dire che la profezia è critica della condizione storica attuale, sottomessa all’ingiunzione del potere e delle potenze mondane (fuori e dentro la Chiesa), per progettare concretamente fin da adesso un ordinamento dell’esistenza umana e sociale secondo la giustizia desiderata da Dio.

In questa prospettiva, la profezia biblica, nella stessa interpretazione che ne dà Gesù nel suo vissuto, rappresenta una «componente fondamentale, accanto alla Legge, del diritto, inteso questo nel senso più profondo quale incarnazione del piano divino per i rapporti tra gli esseri umani all’interno della vita sociale» (Paolo Prodi). Questo legame di giustizia fra profezia e diritto, come critica e argine del potere, merita di essere indagato più a fondo esattamente al fine di verificare la sua concreta viabilità – ossia, che non si tratti di un’utopia che non ha luogo nel dipanarsi della storia umana.

Per quanto riguarda la profezia biblica mi rifaccio al Libro di Amos; per ciò che invece concerne il diritto prenderò in considerazione l’impianto dei principi fondamentali della Costituzione italiana racchiusi nei primi 12 articoli. Amos, in maniera ancora più marcata degli altri profeti, sottolinea come le pratiche civili della coesistenza umana non sono irrilevanti, quanto piuttosto determinanti, rispetto al giudizio sulla qualità religiosa del popolo di Israele: infatti, la giustizia desiderata da Dio, che si incarna nelle relazioni sociali e politiche quotidiane del vissuto del popolo, rappresenta la misura civile intorno alla quale viene valutata la fedeltà o meno di Israele all’Alleanza con JHWH.

La profezia è un’attenta lettura della storia e della condizione di vita del popolo, così come vengono esperite e patite da coloro che ne portano il peso più gravoso: quello della marginalizzazione, della povertà, della destituzione sociale e politica. La storia, per il profeta, è soprattutto il racconto silente delle sempre troppe vittime del potere. Amos incastona questa lettura della situazione concreta dei due regni in cui Israele si è diviso all’interno delle vicende che riguardano i popoli che lo circondano. Se qui tra le genti si coglie una pervasiva diffusione dell’ingiustizia e della violenza del potere, ci si potrebbe attendere che all’interno del popolo di Israele non sia così – che questo popolo sappia praticare davvero quell’«essere messo da parte» come incarnazione concreta della giustizia più alta richiesta dall’Alleanza. L’amara constatazione di Amos è che però le cose non stanno così, anche Israele pratica un potere del tutto simile a quello delle genti e delle nazioni. Questa indistinzione civile e politica delle pratiche di potere all’interno di Israele rappresenta per il profeta una vera e propria idolatria religiosa (come viene accennato nell’oracolo rivolto al Regno del Sud).

Il trattamento abusivo dei poveri e dei deboli, il loro sfruttamento a favore degli interessi degli abbienti e della classe al potere, appaiono essere agli occhi del profeta una profanazione del nome di JHWH. Questa condizione socio-civile di ingiustizia viene interpretata come totale dimenticanza della storia di Dio con il suo popolo (Esodo) – una storia che dovrebbe ricordargli che esso è «stato portato» da JHWH e che solo permanendo in questa condizione Israele può sussistere con le sue istituzioni religiose e politiche. La memoria dell’Esodo vuole mettere in risalto che la distinzione di Israele tra i popoli e le nazioni deve realizzarsi come «depotenziamento» del potere e non come sua indebita accumulazione a sfavore di una parte del popolo stesso. L’ingiustizia sociale, ossia un ordinamento della coesistenza che non è come dovrebbe essere, genera un abisso tra colui che il popolo considera essere il suo Dio e il Dio che si rivolge a esso mediante la voce del profeta.

Giustizia profetica e giustizia liberale
La giustizia desiderata da Dio chiede di dare forma a legami sociali capaci di rendere giustizia al desiderio di una vita degna di essere vissuta di tutti coloro che compongono il corpo sociale (rettitudine) – e non solo a degli eletti tra di loro. Solo una trasformazione effettiva delle relazioni socio-civili capace di corrispondere all’ingiunzione della giustizia come rettitudine dei rapporti umani può tornare a dare il giusto valore alle pratiche cultuali della religione. Questo è il senso della parola di Amos, che invita Israele a «cercare il Signore»: non però in atti di culto di un Dio trasformato in proprietà del potere, ma nel ristabilimento della giustizia attraverso pratiche concrete che danno forma alla società come essa dovrebbe essere. Questa giustizia di Dio è «rigenerativa, ridà forma alla comunità umana in un modo che porta unità, pace e la fioritura di tutto ciò che è necessario per la vita di tutti» (Katherine Hayes).

Ed è proprio questo carattere rigenerativo della giustizia, messo in luce dalla profezia, che è assente dalla concezione moderna e liberale della giustizia. Non si tratta, infatti, solo di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto, soprattutto quando questo dovuto è deciso in ragione di interessi economici e rapporti di forza che sono di parte, ma di generare condizioni sociali, economiche e politiche che consentano a tutti di vivere come dovrebbe essere la vita per essere sentita e apprezzata come giusta.

Qui la profezia chiama in causa il diritto. Ma la profezia può trovare un suo spazio nel diritto? E il diritto può avere una sua forza profetica? Senza eccessive forzature, a mio avviso, l’impianto giuridico dei primi 12 articoli della Costituzione italiana, dove vengono poste le basi che la reggono nel suo complesso, ha un suo specifico carattere profetico. Non si tratta di semplici criteri ispirativi, di auspici morali, ma di una vera e propria articolazione fondamentale del diritto stesso – come si può desumere dal dibattito interno delle sotto-commissioni dell’Assemblea costituente che ha redatto la Carta costituzionale. La scelta decisiva fu quella di inserire questi principi fondamentali come veri e propri articoli della Costituzione italiana e non di relegarli, come alcuni suggerivano, in un preambolo alla Costituzione.

Il motivo addotto nel dare ragione di questa scelta fu quello che inserirli in un preambolo avrebbe voluto dire porre questi principi fondamentali su un piano pre-giuridico; mentre si voleva fare in modo che essi fossero una vera e propria espressione del diritto. Anzi, ancor di più: con questi dodici principi fondamentali, l’Italia che rinnegava il fascismo, voleva dire non solo quale fosse la specificità della sua democrazia repubblicana, ossia quale fosse la concezione di stato rispetto ai cittadini e ai corpi sociali in cui essi sviluppano la propria personalità; ma anche quale fosse la concezione stessa del diritto (costituzionale) quale garanzia delle libertà democratiche sociali e individuali, da un lato, e limite del potere dello stato e dei cittadini, dall’altro.

Costituzione e Chōra
Non è per nulla semplice dire cosa sia Chōra, perché essa sfugge a ogni determinazione, a ogni tentativo di definirla e di rinchiuderla in un concetto. Lasciandoci guidare da alcune delle suggestioni minime che possiamo trovare nel Timeo di Platone, potremmo dire che Chōra non è un concetto quanto piuttosto una forza che può essere percepita in actu exercito, nei processi che essa genera. Al tempo stesso, Chōra non può mai essere identificata con i processi generativi che essa pone in essere. Ed è proprio questa sfuggevolezza di Chōra che consente di allargare i campi del linguaggio e del discorso intrecciati con la sua iniziazione al divenire – includendo anche un improbabile ordine simbolico come quello di un testo costituzionale del XX secolo.

Nel Timeo di Platone Chōra è convocata per generare il movimento dalla polis ideale della Repubblica, che esiste solo nella mente del filosofo, a una polis reale e concreta fatta di cittadini e istituzioni in carne ed ossa. La polis chōrica non è un’utopia senza luogo nella storia umana, ma un dovere dei cittadini chiamati a dare forma a un ordinamento secondo giustizia della coesistenza politica fra i molti diversi tra di loro. Qui profezia e Chōra si incontrano tra di loro e chiamano in causa il diritto.

Ed è proprio qui che la Costituzione italiana mostra di essere all’altezza di questa convocazione. Partiamo dall’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Chōra è una forza che produce «esiti bastardi», ed è proprio così che è all’opera in questo dettato costituzionale. Infatti, nel suo insieme l’articolo 3 della Costituzione italiana prescrive, in forza del diritto e non in forza di legge, il superamento di quel formalismo dell’uguaglianza tipico del concetto moderno di giustizia – che nel costituzionalismo americano e francese intendeva garantire e proteggere la proprietà individuale della classe borghese a discapito di quella parte del popolo costretta a vivere deprivata di ogni proprietà (e quindi di ogni potere di cittadinanza). Questa uguaglianza è puramente formale perché l’avere e l’essere proprietari sono i prerequisiti necessari per poter godere dei diritti liberali – che sono sempre diritti individuali; e nel suo formalismo, questo concetto di giustizia garantisce il mantenimento di tutte quelle disuguaglianze e discriminazioni all’interno della società che sono funzionali al perseguimento degli interessi economici e politici della borghesia.

A differenza di questo carattere conservativo dell’uguaglianza formale, il costituzionalismo che ispira e muove la stesura della Costituzione italiana è attraversato da una forza trasformativa che ruota intorno a pratiche concrete di giustizia sociale. Ossia, prescrive alla Repubblica italiana il dovere di cambiare le condizioni sociali ed economiche di vita in maniera tale che tutti i cittadini possano godere realmente dei diritti democratici – che non sono solo individuali ma anche sociali. Questo carattere trasformativo della Costituzione italiana chiede di dare forma a una società reale in cui ogni persona può accedere a una piena e attiva cittadinanza.

Questo tratto generativo della giustizia, intesa come pari trattamento sociale di tutti i cittadini, impegna la Repubblica a mettere in campo pratiche politiche, sociali ed economiche non uguali davanti a situazioni disuguali fra loro. In questo modo, l’uguaglianza non è solo formale, rimanendo un principio affermato sulla carta, ma diventa sostanziale attraverso la trasformazione dell’ordine esistente volta «a conformare la realtà alle disposizioni sancite dalla Costituzione» (Mario Dogliani-Chiara Giorgi).

Questa ingiunzione costituzionale di una giustizia generativa trasmette anche la consapevolezza giuridica del fatto che la democrazia non è mai pienamente realizzata, che essa rimane permanentemente un compito affidato a tutti i soggetti che compongono la Repubblica italiana. Detta altrimenti: la democrazia non vuol dire solo creazione e mantenimento di istituzioni democratiche, ma deve essere una forza del diritto che innerva pratiche di giustizia concrete volte a rendere l’ordinamento della Repubblica sempre più corrispondente alla dignità sociale e all’equità di trattamento di tutti i cittadini. In questo modo, «per la prima volta nella storia del costituzionalismo si procede sulla via del riconoscimento del diritto all’uguaglianza sociale ed economica e pertanto di un necessario intervento pubblico – e ancor più del complesso degli apparati istituzionali e delle forze sociali – volto a conformare la realtà alle disposizioni sancite dalla Costituzione» (Dogliani-Giorgi).

Questa trasformazione dell’ordinamento sociale ed economico del paese non è una aspirazione morale lasciata alla buona volontà delle forze politiche che, di volta in volta, governano la Repubblica italiana, ma si impone a essa e a tutti i soggetti – istituiti e non – che la compongono proprio in forza del diritto che afferma qui la sua antecedenza e superiorità rispetto a qualsiasi forza di legge. Questa forza trasformativa del diritto non si orienta verso un futuro indeterminato, ma si attiva nell’oggi concreto della realtà del paese affinché vengano realizzati quei diritti di dignità ed equità di trattamento sociale che spettano a ogni cittadino per consentirgli una piena partecipazione alla vita del paese e di godere di una piena e realizzata cittadinanza.

La forza del diritto e lo stato
Nel Timeo di Platone vi è un altro aspetto di Chōra che può collegarsi a questa forza del diritto che ingiunge una trasformazione secondo giustizia degli assetti sociali, economici e politici esistenti di fatto. Si tratta della forza perturbatrice che Chōra esercita nei confronti dell’ordine costituito della società umana. Secondo Kristeva, questo ordinamento del potere trova espressione soprattutto nel diritto e nella forza di legge come sistemi simbolici di dominio. Mentre sono d’accordo con Kristeva per ciò che concerne la forza di legge, la prossimità dell’idea di diritto racchiusa nei principi fondamentali della Costituzione italiana al lavoro della profezia e di Chōra credo che ne possa permettere una interpretazione diversa da quella che lei propone – e anche dalla comprensione ossessiva del diritto come strumento del potere statale di Agamben.

La forza del diritto non è solo quella di limitare il potere (dello stato, dei cittadini, dei governi, del parlamento), ma anche quella di orientarlo esercitando su di esso una normatività giuridica che non dipende né dalla forza di legge né dalla potenza dello stato. Almeno, questa è la concezione di diritto che struttura la Costituzione italiana.

Secondo il giurista cattolico Giorgio La Pira, la nuova Costituzione italiana «è necessariamente legata alla dura esperienza dello stato totalitario […] che negò in radice l’esistenza di diritti originari dell’uomo, anteriori allo stato: esso anzi, accogliendo la teoria dei “diritti riflessi”, fu propugnatore ed esecutore di questa tesi: non vi sono, per l’uomo, diritti naturali e originari; vi sono soltanto concessioni, diritti riflessi. Queste “concessioni” e questi “diritti riflessi” possono essere in qualunque momento totalmente o parzialmente ritirati, secondo il beneplacito di colui dal quale soltanto tali diritti derivano – ossia lo stato». Il totalitarismo nazi-fascista (e anche quello marxista russo) rappresentano una crisi metafisica, giuridica e politica che sfocia nell’assorbimento della persona nella sostanza collettiva dello stato e la cancellazione di tutti quei corpi sociali intermedi che rappresentano l’ambiente vitale dello sviluppo della personalità umana.

La Costituzione rappresenta una forza del diritto che si impone al potere costituito (statale ed economico) perché «mostra che lo stato deve costruirsi in vista della persona e non viceversa; e indicare con quanta più precisione e completezza è possibile, quali sono questi diritti essenziali e originari dell’uomo, alla tutela dei quali deve volgersi l’apparato costituzionale e politico dello stato» (La Pira). Accanto ai diritti individuali tipici della modernità borghese (uguaglianza e libertà), La Pira indica la necessità di garanzia costituzionale anche per i diritti civili o sociali che richiesti «da una concezione sostanzialmente democratica dello stato, permetteranno l’attuazione di tali diritti [liberali] e renderanno così effettiva l’autonomia e l’indipendenza anche politica della persona».

La visione dello stato di La Pira è organicista, ossia legge nella società italiana esistente una pluralità di ordinamenti sociali che sono antecedenti allo stato e come tali devono essere riconosciuti dallo stato stesso e garantiti davanti a esso limitandone il potere. Si tratta di un «pluralismo economico, giuridico, politico; perché la realtà di questo corpo sociale non è costituito soltanto da singole persone: le persone sono naturalmente raggruppate in tanti organismi che solo elementi essenziali e perciò ineliminabili del corpo sociale. […] Dall’individuo si va allo stato attraverso la mediazione di ordinamenti anteriori, la cui esistenza non può essere disconosciuta dallo stato» (La Pira).

Il tema della forza del diritto, antecedente a ogni forza di legge, come limite e controllo normativo del potere costituito è ripreso da Aldo Moro durante la discussione finale in Assemblea costituente prima dell’approvazione del testo definitivo della Costituzione. Per Moro è chiaro che questa fase costituente del paese dopo il totalitarismo fascista significa la costruzione «di un nuovo stato» come «determinazione di una formula di convivenza». Una costruzione che muove dalla realtà complessa e plurale del corpo sociale, che è quindi l’attore agente che dà forma allo stato italiano come Repubblica. In questo modo, la società concreta e realmente esistente non è solo dentro la Costituzione, ma in essa trova anche l’affermazione della sua antecedenza giuridica (e quindi normativa) rispetto allo stato stesso.

La forza del diritto come limite e orientamento del potere sovrano
Cardine della forza del diritto, come elemento perturbatore di ogni ordinamento costituito del potere che andrà via via formandosi seguendo i movimenti del corpo sociale, è rappresentato dal primo articolo della Costituzione italiana: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Riferendosi alla prima parte del secondo comma, Moro afferma che esso «serve bene a individuare l’appartenenza della sovranità in senso lato, cioè l’esercizio dei poteri politici, dei poteri di orientamento della cosa pubblica in un regime democratico a tutti i cittadini». Sottolineando poi la fondamentale importanza della seconda parte di questo comma, quello che circoscrive e limita l’esercizio del potere sovrano intestato a tutti i cittadini. Per Moro essa serve «a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità dello stato è la sovranità dell’ordinamento giuridico […]. Il potere dello stato non è un potere o un pre-potere di fatto, ma è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito dell’ordinamento giuridico formato appunto della Costituzione e delle leggi».

Prende così forma quello che viene chiamato stato costituzionale, la cui democrazia «non è più puramente parlamentare, o anche puramente popolare, nel senso di una democrazia della volontà generale, che si costruisce sostanzialmente secondo la regola della maggioranza. Prima del popolo che sceglie la sua maggioranza e i suoi rappresentanti c’è il popolo che ha stabilito nella Costituzione le regole fondamentali della sua esistenza. Prima dell’indirizzo politico di maggioranza c’è l’indirizzo costituzionale. Il secondo prevale sul primo. […] La Costituzione precede dunque ogni potere costituito, compreso quello del legislatore rappresentante il popolo sovrano. […] Questa idea della supremazia della Costituzione rinasceva subito dopo la guerra per attuare una svolta radicale, per rassicurare tutti che ora esisteva una legge fondamentale capace di impedire il riaffermarsi nel futuro delle condizioni per un ritorno al recente passato dittatoriale. È questo il primo significato della Costituzione democratica, che è quello della garanzia, del limite. La democrazia esiste perché nessuno potrà più praticare una politica che potremmo definire assoluta, come era stata la politica della Vernichtung, dell’annientamento della persona dell’avversario» (Maurizio Fioravanti).

Pratiche per una nuova democrazia: il paradosso della Chiesa cattolica
Qualcosa di Chōra scorre attraverso questo primato della Costituzione democratica che ha cercato di declinare la forza del diritto come sovversione dell’ordinamento esistente, da un lato, e come katechon del potere costituito, dall’altro. Ma questa forza del diritto non è una macchina che funziona di moto proprio, ha bisogno dell’energia di una cittadinanza che, accettando il limite della propria sovranità per aprirla verso l’universalità dei diritti umani, aspiri alla propria piena partecipazione all’edificazione della polis in cui convivono insieme i molti diversi fra di loro.

La democrazia liberale si sta esaurendo in una crisi che non è meno drammatica di quella che portò, meno di un secolo fa, alla nascita dei totalitarismi europei e all’affermazione di una politica assoluta del potere sovrano.

Oggi si tratta di imparare da questo tratto della nostra storia che sta oramai alle nostre spalle, non per copiarlo pedissequamente ma per trovare ispirazione per un gesto politico che non si arrenda all’inerzia dell’inesorabile uscita dalla democrazia che stiamo vivendo impotenti come se fosse un destino irreversibile. La forza del diritto, su cui si è plasmata l’ideazione più alta dello spirito democratico del XX secolo nella forma dello stato costituzionale, è un bene prezioso a cui possiamo ancora attingere per tentare di muovere i primi, faticosi, passi di un nuovo progetto di convivenza.

Può forse sorprendere che, oggi, questo tentativo abbia trovato ospitalità all’interno della Chiesa cattolica con l’avvio di quel processo sinodale fortemente voluto da papa Francesco. La sinodalità è un vero e proprio progetto di convivenza tra diverse sensibilità della fede, ben prima di essere una funzione del governo della Chiesa. È più prossima al Moro della fase costituente, e del tentativo di compromesso storico, che a quello dei governi monocolore DC. Ed è sicuramente prossima a quel costituzionalismo «pos-moderno» così caro a Paolo Grossi perché realizzatosi nella nostra Costituzione.

In quest’ottica, la sinodalità è un modo di «lavorare insieme (…) per controllare il luogo da cui si parla e agisce, collaborando in una situazione come soggetto politico che mira a realizzare un progetto, impegnandosi in un luogo, uno spazio, un processo, un evento. È l’articolazione politica di questi spazi in un fronte comune» (Simon Critchely). Essa è un grande laboratorio globale, l’unico attivo al momento, in cui è iniziato un processo di ascolto senza precedenti. Questo lo si vede dal fatto che, nonostante coloro che vi partecipino siano avvezzi alle procedure della democrazia liberale e rappresentativa, tutti devono apprendere come essa debba essere effettivamente praticata. Proprio perché ognuno e ognuna parla dal proprio luogo di vita e azione, con l’obiettivo di trovare orientamenti per la comunità ecclesiale nei quali tutti poassano riconoscersi, o quantomeno a cui in coscienza si sentano di acconsentire.

Oggi come oggi, non abbiamo alcun altro luogo simile a questo convenire ecclesiale, teso a delineare il volto di una comunità di intenti, attraversata dalla pluralità di parzialità che fanno la comunione nella fede (ben prima che della fede) – questo senza che nessuno debba rinunciare alla propria originalità del credere. Rispetto allo stato attuale delle democrazie, la sinodalità appare essere un esercizio anti-autoritario in cui scorre quella forza del diritto come fatto sociale, ordinamento dei molti che convengono sinodalmente – convocati a questa forma della convivenza dall’agire dello Spirito nella storia umana.

Il popolo di Dio, così convocato, si trova nel convenire sinodale in posizione di potere istituente – che può essere attivo nel corpo istituzionale solo nella misura in cui non viene trasformato in potere costituito. Dalla profezia, questo potere istituente del popolo di Dio che si raduna sinodalmente raccoglie il demarcatore di non esercitarsi come un anti-potere, quanto piuttosto di rimanere sempre in esteriorità dialettica con le procedure costituite del potere stesso. Nel mezzo delle grandi trasformazioni odierne e degli sconvolgimenti dell’ordine mondiale, la attivazione sinodale della Chiesa cattolica rappresenta il tentativo di preservare il luogo vuoto del potere stesso – senza il quale nessuna convivenza realmente democratica è possibile.

Il luogo vuoto del potere, la forza del diritto e la sinodalità
Questo luogo vuoto attira anche le anime più belle come le sirene di Ulisse. E chiunque ne abbia assaporato l’emozione di stabilirvisi anche solo per un momento è poi pronto a smuovere le montagne per assicurarsi che nulla cambi – e di poter maneggiare occupandolo quel luogo intangibile del potere della dedizione di Dio. Magari aggiornando un po’ il lessico per rendere questa indebita occupazione un po’ meno spietata e per rendere il potere della Chiesa un po’ più digeribile da coloro che hanno visto il luogo di Dio strappato loro sotto il naso.

Certo, l’indisponibilità e l’inaccessibilità di questo luogo sono preservate dal Vangelo e dalle Scritture. Tuttavia, se siamo onesti riguardo alla storia istituzionale della Chiesa cattolica, dobbiamo riconoscere che il Vangelo da solo non è sufficiente a garantire l’inviolabilità del luogo del potere di Dio.

Questa dura realtà suggerisce la necessità di un serio dibattito intorno a una possibile Costituzione della Chiesa cattolica (Lex fundamentalis ecclesiae), che è stata appena abbozzata e rapidamente accantonata tra il periodo concilare e quello del post-concilio.

La Chiesa sinodale ha bisogno di una simile Lex per varie ragioni – alcune delle quali sono state accennate qui. Soprattutto è necessaria per garantire al popolo di Dio che la sinodalità rimanga in posizione istituente, con il proprio ordinamento sui generis e la sua forza del diritto. Processo, quello sinodale, che non può essere formalizzato in modo condificato – proprio perché è questione del diritto fondamentale proprio al convenire istituente del popolo di Dio.

Qualsiasi spostamento della sinodalità verso l’istituzionalizzazione significherebbe la sua disattivazione – a favore di una sovranità del potere più o meno temperata. Ossia la ripetazione del medesimo.

[1] Cf. Tertulliano, Difesa del cristianesimo, ESC-ESD, Roma-Bologna 2006.

Settimana News

I giovani continuano a credere
nella speranza che offre il lavoro

I giovani continuano a credere
nella speranza che offre il lavoro

di Fabio Introini
Nonostante salari bassi, precarietà e stress, l’impiego resta una promessa di futuro: non solo mezzo di sostentamento, ma spazio di realizzazione, equilibrio di vita e fiducia

Avvenire

Come vivono, percepiscono o immaginano il lavoro i giovani italiani tra i 18 e i 34 anni? Quali significati, e valori colgono nella dimensione lavorativa, l’ambito della vita che da sempre meglio interpreta le aspirazioni di realizzazione personale, intercettando la dimensione del futuro e della speranza? A queste domande ha provato a fornire risposte l’indagine Ipsos svolta per l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano e pubblicata nel Rapporto Giovani 2025 (Giovani e lavoro: il senso mai perduto, a cura di G. Assirelli, F. Introini, R. Lodigiani e C. Pasqualini). L’importanza di analizzare il rapporto con il mondo del lavoro risiede nel fatto che questo tende a essere letto come “macroindicatore” della complessiva condizione giovanile, e ciò avviene non soltanto perché viviamo in una società “capitalista”, ma anche perché, come è ben chiaro alla sociologia, esso tocca tutte le altre dimensioni dell’essere umano, materiali e “immateriali”, cioè la sfera dei valori, dei significati, dei progetti di vita e del senso della propria esistenza.

Tutto questo sembra valere, in maniera particolare, per le giovani generazioni di oggi, alle quali si mostra una realtà ambivalente. Da un lato, infatti, troviamo le retoriche “postmoderne” per le quali l’essere umano vale quanto la numerosità e l’intensità delle esperienze che riesce a collezionare nell’arco della propria vita, di modo che il lavoro deve sempre essere sia più gratificante in sé stesso, sia base necessaria a garantire la possibilità di accedere ad altri tipi di esperienza ludico-estetica. Dall’altro, ecco invece un lavoro sempre meno in grado di mantenere questa “promessa”, tanto per i bassi livelli retribuitivi, pur a fronte di un forte e costante impegno (si pensi al cosiddetto fenomeno dei working poors), quanto per i problemi legati alla sua sicurezza (in termini di tutela della propria incolumità fisica e di “stabilità”) e per gli alti livelli di stress che esso comporta.
In base a quanto emerso dall’indagine (condotta da Ipsos nel 2023 intervistando un campione di 2002 persone), la priorità fondamentale nella vita dei giovani è quella di realizzarsi personalmente nel lavoro, opzione scelta dal 14,4% dei rispondenti, seguita dal desiderio di avere tempo per dedicarsi alla famiglia, indicato dal 13,6%. L’analisi completa delle risposte a questa domanda, che prevedeva una risposta “secca” tra molteplici opzioni, ha messo in evidenza come il lavoro sia connesso prevalentemente alla sfera degli obiettivi privati sia in senso strumentale, cioè inteso come “mezzo per”, sia in senso “espressivo”, in quanto significativo “per me” e per la mia identità. La dimensione pubblica e sociale del lavoro, inteso dunque come occasione per dare il proprio contributo alla società, appare invece più contenuta, anche se particolarmente apprezzata dai giovani con più elevato capitale umano, ovvero con titolo di studio proprio o dei propri genitori più elevato. Coloro che invece indicano come priorità il tempo per la famiglia sono in particolare le femmine, i più “anziani”, i giovani e le giovani che già lavorano. Le evidenze sembrano quindi confermare alcune tendenze radicate nella società, con il ciclo di vita e il genere che, verosimilmente legano (ancora) maggiormente a compiti di cura all’interno del proprio nucleo familiare sia esso ascritto o elettivo. Altro aspetto interessante è che il tempo libero ha un valore “condizionato”: è importante se dedicato alla famiglia o ai propri hobby (9,5%) meno se votato alle relazioni amicali. Guardando i dati in base alla condizione occupazionale emerge che la percentuale più alta di chi indica come priorità le libertà offerte dallo smart working sono i Neet (circa il 16%, contro l’11% del dato aggregato).
Entrando più in profondità nella sfera dei significati, si vede che il termine maggiormente associato alla parola “lavoro” è “responsabilità” (21,3%), cui seguono “passione” (16,4%) ma anche il suo opposto, ovvero “necessità” (16,3%). Anche in questo caso a discriminare le risposte sono da un lato la tensione acquisitiva, più forte tra gli studenti e i giovanissimi, che orienta alla passione, e dall’altro l’età più anziana, il basso titolo di studio, l’essere Neet, che spingono l’ago della bilancia verso il polo della “necessità”. Non molto rilevante il termine “vocazione” (5,2%, ma arriva all’8,5% nel caso di figli/e di laureate/i) forse perché si tratta di un termine connotato da un linguaggio – religioso – spesso distante dai giovani ma anche per via del fatto che il mondo del lavoro appare loro complesso e poco intelligibile, fornendo quindi un contesto nel quale è molto difficile mettere a fuoco un progetto di vita chiaro. Ad un ipotetico lavoro ideale i giovani chiedono soprattutto ciò che è più centrale per una progettualità di vita a tutto tondo. Esso deve infatti essere “stabile” per il 56%, con “retribuzione elevata” per il 54,8%, ma che allo stesso tempo non sia “totalizzante a scapito delle altre sfere di vita” secondo il 54,9%. Significativo, inoltre, che la dimensione etica, cioè un lavoro che rispetti i propri principi (53,3%), e la possibilità di crescita personale e culturale (52,2%) abbiano importanza pari a quella della possibilità di fare carriera (52,3%).

Al lavoro i giovani chiedono inoltre libertà e flessibilità organizzativa che non significa però solo smart working (apprezzato dal 14,4% dei rispondenti): questa è infatti, retribuzione a parte, la caratteristica principale che dovrebbe avere il proprio lavoro ideale (20%), alla quale segue, con minimo scarto percentuale, la presenza di un supporto per il benessere dei lavoratori (18,2%). Sono aspetti legati sicuramente alla complessiva qualità della vita, ma dicono anche di una maggiore sensibilità per la qualità della employee experience, se è vero che, allo stesso tempo, il 36,4% dei rispondenti indica come priorità che dovrebbero avere le organizzazioni il benessere psicofisico dei propri dipendenti (il 14% chiede invece trasparenza e legalità, il 12% sicurezza dell’ambiente e delle condizioni di lavoro). Forse è proprio in queste risposte che si rende o ancora visibile il lascito di pandemia e lockdown.
Ciò che però forse conta davvero, per i nostri e le nostre giovani lo si desume, per via “negativa”, dalle motivazioni per le quali sarebbero disposti a lasciare un lavoro ben retribuito e a tempo indeterminato. Per il 37,1% la ragione di un cambiamento come questo avrebbe a che fare con l’impossibilità di conciliare l’occupazione con la chance di avere una famiglia e dei figli. Un dato che si presenta congruente con un’altra risposta, che in un certo senso potrebbe essere anche considerata come “indicatore” della pratica cosiddetta del quiet quitting: il 42,4% afferma, cioè, di essere molto d’accordo (o addirittura di averlo già messo in pratica) con il limitarsi a svolgere solo le ore lavorative stabilite dal contratto, prendendo distanza da quella tendenza all’overworking tipica di molti ritmi lavorativi odierni. Ed è indicativo che la percentuale di chi attua questa strategia era del 32,4% nella rilevazione del 2022, cioè ben dieci punti più bassa. Per quanto riguarda il modo in cui i giovani si percepiscono nei confronti del mondo del lavoro, emerge significativamente la consapevolezza di vivere in un modo lavorativo che, per scarsità di offerta, li costringe ad atteggiamenti adattivi, pur nella convinzione di appartenere a generazioni più determinate nel rifiutare lavori ritenuti forme di sfruttamento (il 49,2% di accordo).
In conclusione, i nostri giovani ci sembrano vivere e pensare il lavoro con piglio riflessivo e pragmatico, privilegiando, per utilizzare il linguaggio del sociologo Dahrendorf, il suo ruolo di chance di vita più che mera opzione. Il che significa, in altri termini, non perdersi nel mondo dei “possibili”, per quanto affascinanti, inseguendo professioni “up to date” ma trovare quella capace di conferire radicamento sociale, permettendo di sostenere una progettualità individuale e familiare. Un altro tema rilevante è che il capitale umano si rivela risorsa fondamentale sia per avere una mentalità più orientata all’achievement, agli obiettivi e ai risultati, sia per cogliere e apprezzare il valore sociale e pubblico del lavoro, sia infine come risorsa in termini di coping e resilienza nei confronti delle situazioni stressanti. Un tema che, pur nel mondo delle professioni digitali conferma la forte rilevanza del rapporto formazione/lavoro e più in generale welfare/lavoro. Così, anche se emerge dalla nostra indagine una conoscenza e un utilizzo non molto elevati di quanto pensato per loro dalle politiche dai servizi al lavoro, questo dato dovrebbe spronare le istituzioni a cercare le vie e le modalità più idonee per intercettare bisogni e interessi delle giovani generazioni.