La trappola della gnosi: nel dividere anima e corpo dimentica l’amore

La trappola della gnosi: nel dividere anima e corpo dimentica l'amore

di Luigino Bruni
I padre della Chiesa hanno combattuto l’influenza dello gnosticismo sul cristianesimo. La ricerca di soluzioni astratte alle domande dell’uomo relega in secondo piano l’incontro con Dio nei fratelli

Avvenire

Le grandi idee, nel corso dei secoli, mutano forma e accidenti ma sono sorprendentemente costanti e tenaci nella loro sostanza. È questa la ragione principale dell’importanza dello studio della storia delle idee e delle controversie attorno ad esse. La storia della cosiddetta gnosi è una di queste antiche controversie che come fiume carsico ha accompagnato per oltre due millenni lo sviluppo della storia delle religioni, le ha influenzate, cambiate, le ha nutrite e se ne è nutrita, e continua a farlo. L’enorme quantità di energie teologiche profuse dai maggiori teologi cristiani dei primi secoli nelle polemiche contro lo gnosticismo, dice di per sé la rilevanza, l’importanza e anche la qualità di quelle correnti gnostiche – quei fuoriclasse non avrebbero perso tempo a criticare chi non consideravano significativo, importante e quindi pericoloso. Lo gnosticismo fu combattuto duramente perché era molto vicino alla dottrina cristiana, gli somigliava troppo, poteva infilarsi nel cuore del cristianesimo e distruggerlo.
L’Utet ha recentemente pubblicato una raccolta di Testi gnostici (pagine 760, euro 20,00 a cura di Luigi Moraldi) la cui prima edizione risale al 1982. Un’opera imponente, che comprende alcuni dei codici gnostici cristiani rinvenuti a partire dal 1945 a Nag Hammadi in Egitto, uno dei ritrovamenti archeologici più importanti del XX secolo, paragonabile soltanto a Qumran. Il più famoso di quei testi è il Vangelo di Tommaso, ma non meno importante è l’Apocrifo di Giovanni (presente in tre dei tredici codici). Prima di questo provvidenziale ritrovamento avevamo pochissimi codici gnostici cristiani, e la conoscenza dello gnosticismo derivava principalmente dai Padri della Chiesa che tra la fine del II e il III secolo lo avevano combattuto. Tra questi Ireneo di Lione, poi Clemente Alessandrino, Origene, Epifanio di Salamina, Tertulliano, ai quali si doveva la conoscenza dei principali teologi gnostici “cristiani”, come Valentino, Basilide, o Eracleone. Ciò che abbiamo del “vangelo di Marcione” lo dobbiamo soltanto alle sue citazioni contenute nei testi dei suoi rivali teologici. Gnosi e gnosticismo non sono la stessa cosa. Con gnosi – da “conoscenza” – ci si riferisce in genere ad un insieme di dottrine nate in ambienti antichi pre-cristiani, a teologie e narrative accomunate da alcune tematiche ricorrenti. Tra queste la salvezza legata ad una conoscenza speciale, esoterica e superiore, quindi accessibile solo a pochi iniziati. Come afferma Moraldi nella sua Introduzione: «Vi è una profonda spaccatura tra questo mondo e l’esistenza dell’Essere supremo, “la Luce”; un profondo dualismo anticosmico secondo il quale il male è proprio questo mondo il quale non proviene dall’Essere supremo». Tra XIX e XX secolo si iniziò a studiare l’origine babilonese della gnosi: «Il paragone istituito fra la teologia della gnosi e quella babilonese… dimostra fra la gnosi e il pensiero dei teologi babilonesi un rapporto così intimo e compiuto, da doverlo definire più che una semplice parentela, ma un principio di derivazione della gnosi dalla Babilonia» (Salvatore Minocchi, “I miti babilonesi e le origini della gnosi”, Bilychnis, 1914).
Con gnosticismoo gnosi cristiana, ci si riferisce invece ad un fenomeno sviluppatosi in ambiente cristiano, testi che contengono filosofie e teologie a loro modo cristiane. Una sorta di sincretismo che segue l’età apostolica (II secolo), dove si intrecciarono una ellenizzazione del cristianesimo insieme ad elementi religiosi orientali, una fusione di temi pre-cristiani (in particolare babilonesi) e di Nuovo Testamento. Quindi, per semplificare, la gnosi precede i Vangeli, lo gnosticismo li segue, e, per i suoi oppositori, ne rappresenta una eresia molto grave, e lo era davvero: per i Padri della Chiesa la gnosi degli gnostici era una cattiva conoscenza, quindi una falsa gnosi.
Adolf Von Harnack, il primo grande studioso della gnosi nella seconda metà dell’Ottocento, riteneva che molta della teologia della Chiesa dei primi secoli fosse emersa come reazione all’attacco gnostico. Una tesi oggi considerata troppo radicale, sebbene è innegabile che la gnosi pre-cristiana abbia influenzato sia la teologia sia la prassi della Chiesa. Un grande tema dibattuto già dai primi studi di fine Ottocento è il possibile influsso gnostico nella formazione del Nuovo Testamento, in particolare sul corpus giovanneo (quarto Vangelo e lettere), e sulle lettere di Paolo: «Influenzato in misura maggiore o minore dal linguaggio e dall’immaginario gnostico appare lo strato fondamentale della teologia paolina e della teologia della comunità giovannea” (W. Schmithals, Nuovo testamento e gnosi, 2008).
Una questione spinosa, complessa e controversa. Non si può negare che in Giovanni si trovino elementi amati dallo gnosticismo: le antinomie luce-tenebre, verità-menzogna, Dio-diavolo, la croce come glorificazione e innalzamento, un certo dualismo antropologico, la salvezza intesa come “conoscenza”. Oggi alcuni studiosi ritengono che nella prima versione del Vangelo di Giovanni ci fossero alcuni tratti gnostici, ma poi, quando nella prima metà del II secolo la polemica anti-gnostica divenne potente, le redazioni successive purificarono il quarto Vangelo dalle componenti gnostiche o dalle parti che davano supporto alle tesi gnostiche.
Per quanto riguarda Paolo, anche la sua visione di un cristianesimo universalista libero dalla Legge e il suo dualismo antropologico (spirito-carne, uomo spirituale-uomo naturale) potrebbero essere nati da un primitivo incontro tra il primo annuncio cristiano e una gnosi ebraica samaritana forse riconducibile al Simon Mago degli Atti degli Apostoli, che secondo molti sarebbe all’origine della gnosi cristiana.
Oggi dobbiamo riconoscere che lo gnosticismo è profondamente intrecciato con quelle che diventeranno nel II e III secolo la dottrina e la prassi cristiane. Si intrecciarono, quindi si influenzarono reciprocamente, perché se da una parte il Nuovo Testamento e prima l’evento Cristo hanno profondamente cambiato la gnosi pre-cristiana generando lo gnosticismo, è altresì vero che il cristianesimo ha assorbito alcuni elementi gnostici che dai primi secoli sono arrivati alla modernità attraversando tutto il Medioevo.
Pensiamo alla tradizione monastica, soprattutto quella orientale. Non è un caso che i codici di Nag Hammadi fossero parte di una biblioteca di un monastero cristiano egiziano fondato da Pacomio. La forma di vita del primo monachesimo, centrato anche sull’ascesi, cioè sulla ginnastica spirituale ed etica, è più facilmente riconducibile ad elementi gnostici che all’umanesimo biblico. La forma di vita che emerge dal Nuovo Testamento è infatti centrato sulla metanoia, che si realizza in un istante e che non è il risultato di un lento e penoso esercizio etico. È evidente, sul piano pratico, che comunità di uomini che non si esercitassero nell’ascesi morale e nelle virtù darebbero molto difficilmente vita ad una vita comunitaria ordinata e buona, ma, in linea di principio, anche una comunità di cristiani non virtuosi ma che si amano scambievolmente e credono nel Vangelo è una comunità pienamente cristiana. L’ascesi può aiutare molto la vita cristiana, ma può anche trasformare il mezzo (l’esercizio) nel fine (la vita nuova nell’agape reciproco). Come non sarebbe difficile individuare nella teologia cristiana del corpo inteso come prigione dell’anima un influsso gnostico, cui può essere legata l’idea di verginità come stato di vita superiore al matrimonio (o come sostituto del martirio). Certo, queste sono ipotesi che non vanno radicalizzate né assolutizzate, e per molte buone ragioni: l’ascetismo non è esclusivo della gnosi, non tutta la gnosi è ascetica, e soprattutto perché il monachesimo è molto più della sua ascesi.
Un dettaglio. Nel lungo libro della Pistis Sophia – un testo che non era tra quelli rinvenuti a Nag Hammadi ma inserito nella raccolta della Utet – troviamo riferimenti alle donne nella prima comunità di Gesù, diversi da quelli dei Vangeli canonici: «Si fece avanti Maria Maddalena, e disse: mio Signore, la mia mente è sempre intelligente e pronta a farsi avanti per esporre la soluzione, ma temo le minacce di Pietro il quale ha in odio il nostro genere femminile». Importante la risposta di Gesù alle discepole: «Anche ai vostri fratelli maschi date l’occasione di presentare domande».
Se volessimo, infine, tentare una sintesi, i problemi principali che si nascondevano dietro il fascino della costruzione barocca delle gnosi cristiane sono infatti tutti decisivi. Il primo riguarda il grandissimo tema dell’incarnazione. Gli gnostici non amavano la carne, la vivono come decadenza dello spirito (e, di conseguenza, non amavano l’eucarestia). Quindi non accettano un Logos che si fa carne e che, addirittura, soffre e muore veramente – molti gnostici credevano che fosse stato Simone di Cirene a morire in croce al posto di Gesù. E un cristianesimo senza carne e senza incarnazione diventa altro, la storia diventa apparenza, fiction; il dolore non ha un senso vero e così invece di essere redento resta per sempre.
All’incarnazione è legato un secondo aspetto decisivo, l’assenza (quassi totale) nella gnosi dell’Antico Testamento: non a caso Marcione era uno dei grandi maestri gnostici. Da questa assenza deriva anche il dualismo antropologico che non vede l’essere vivente nella sua interezza ma come un contrasto tra anima e corpo, tra alto (spirito) e basso (carne). L’umanesimo biblico vede invece l’Adam integrale, e la salvezza è salvezza di tutta la persona. Ogni volta che nel cristianesimo abbiamo separato il corpo dall’anima e abbiamo combattuto il corpo come decadenza dello spirito, ci siamo allontanati dalla storia e dai poveri, la gnosi ha vinto, anche se non lo sapevamo. Inoltre, disprezzare il corpo in nome dello spirito è sempre stata una via maestra per ogni forma di abuso, fisico e spirituale, ieri ed oggi. Terzo, la gnosi porta ad enfatizzare, fino ad assolutizzarla, la dimensione intellettuale: ci salviamo comprendendo Dio e il mondo, non amandolo – l’agape e l’hesed sono le grandi assenti nell’etica della gnosi. Quindi la salvezza intesa come l’ingresso in un club privato, un hotel a cinque stelle accessibile solo a chi possiede la moneta della conoscenza speciale, che si esprime in liturgie speciali, meravigliose e disincarnate, puro consumismo emotivo. E la gente normale, il popolo, le mani e i piedi, il cuore e la carne, soprattutto i poveri, escono di scena, finiscono nelle tenebre, e non si vedono più. Ogni volta che una comunità cristiana cade in questa trappola, rivive la gnosi.
Infine, anche la gnosi, come molte narrative religiose, è nata come strumento per sconfiggere la morte e per dare un senso al dolore nel mondo. La storia mostra uno spettacolo di sofferenze e sventure ingiuste che lanciano un grido verso un altrove. La gnosi ha provato a raccogliere questo urlo, ma mentre il cristianesimo ed altri universi religiosi morali cercavano risposte cambiando anche e soprattutto il mondo quaggiù, la gnosi «trasferisce i tormentosi problemi nel campo vago dell’astrazione, incapace di asciugare una lacrima vera di pianto o di reprimere un grido di disperazione» (Ernesto Buonaiuti, Lo Gnosticismo, 1907). Nella gnosi si costruisce un mondo immaginario perfetto per dimenticare il mondo vero imperfetto. Non c’è dunque spazio per il grido concreto dei poveri e dei sofferenti, perché ogni imperfezione e ogni disordine vengono gestiti con il grande strumento dell’illusione. Ieri, e sempre, perché nel mondo gnostico “l’idea è superiore alla realtà”.
I primi teologi cristiani dei primi secoli capirono che se i cristiani fossero stati sedotti in massa dalle sostanze stupefacenti della gnosi, il cristianesimo si sarebbe snaturato perché avrebbe perso la sua natura popolare. Infatti, insieme ai Padri della Chiesa, la grande oppositrice della gnosi è stata la pietà popolare, la fede vera della gente normale, quella dei poveri, di chi sapeva e sperava che la salvezza non fosse una faccenda solo per i dottori e per i sapienti. La gnosi l’hanno combattuta, senza saperlo, le lacrime delle donne davanti alla statua dell’Addolorata, le processioni dietro i santi, i baci infiniti agli angoletti e al costato di Gesù. È stata la fede della gente vera, normale e imperfetta, che non sapeva nulla di dogmi e di teologia ma sapeva che la croce di Gesù era vera perché erano vere le loro croci quotidiane. Se il cristianesimo del terzo Millennio si salverà dalle nuove gnosi interne ed esterne alle Chiese, il primo e più efficace antidoto sarà ancora la fede del popolo, la verità della sua carne, dei suoi dolori e della sua letizia normale.

Sanremo 2026, chi sono le co-conduttrici: Carlo Conti chiama Samira Lui, idea Giorgia e Laura Pausini, la sorpresa Maria De Filippi

Sanremo 2026, chi sono le co-conduttrici: Carlo Conti chiama Samira Lui, idea Giorgia e Laura Pausini, la sorpresa Maria De Filippi

Un anno fa sul palco del Festival di Sanremo Gerry Scotti fu una spalla perfetta di Carlo Conti. Allegria, simpatia e professionalità riconosciuta da tutti, in primis dal pubblico di casa.

Co-conduttrici di Sanremo 2026
Ora Carlo Conti sta pensando di ripetere l’operazione in collaborazione con l’amico Gerry e con la disponibilità di Pier Silvio Berlusconi nel concedere il permesso a Samira Lui di poter co-condurre il Festival di Sanremo 2026 in una delle cinque serate in programma a fine febbraio, precisamente dal 24 al 28.

Chi è Samira Lui
Grazie a Scotti e a Samira Lui la Ruota della Fortuna è diventato il programma più visto dell’access prime time. Più anche di Affari tuoi di Stefano De Martino. «Carlo Conti, che di tivù se ne intende, non può farsi scappare il personaggio femminile dell’anno: la vuole al suo fianco almeno per una delle serate», racconta a Nuovo Tv uno storico autore del Festival convinto che il direttore artistico si muoverà in prima persona per avere il sì dai vertici di Mediaset. Un sì che potrebbe arrivare proprio come già accaduto nella passata edizione.

Giorgia e Laura Pausini
Ma Carlo Conti non si ferma qui. Giorgia e Laura Pausini sono gli altri due nomi caldi. La prima, ricorda Nuovo Tv, ha provato a smentire la notizia: «Non è vero niente, non mi ha chiamato nessuno, nessuno mi ha detto niente. Non so da dove sia partita questa voce, anche perché mi ci manca solo quello!». Con Laura c’è invece una problematica svela sempre il settimanale di Cairo Editore: «Le ultime voci insinuano che la star romagnola sarebbe pronta ad affiancare il conduttore addirittura per tutte le cinque serate, a patto però di essere l’unica primadonna sul palco accanto al conduttore del Festival. L’ipotesi di avere due co-conduttrici in una sera, come spesso è accaduto negli scorsi anni, sembra dunque impraticabile con la Pausini». Sarà vero?

La carta Maria De Filippi
Ma ci sarebbe anche un altro sogno: «Carlo punta a replicare l’esperienza del 2017, quando ha condotto il Festival della canzone italiana assieme a Maria De Filippi», spiega l’autore sempre al settimanale televisivo. Sempre secondo le voci che girano nell’ambiente però : «Maria vuole giocarsi una nuova partecipazione al Festival quando arriverà il momento del suo pupillo: Stefano De Martino». Non è un mistero che il conduttore di Affari tuoi, nato ad Amici, sia in pole position per la conduzione del Festival della Canzone nel 2027.
Leggo

Vaticano, nel matrimonio un solo uomo e una sola donna

Vaticano, nel matrimonio un solo uomo e una sola donna

(ANSA) – CITTÀ DEL VATICANO, 25 NOV – E’ “proprietà essenziale del matrimonio, l’unità, che può essere definita come l’unione unica ed esclusiva tra una sola donna e un solo uomo o, in altre parole, come l’appartenenza reciproca dei due, che non può essere condivisa con altri”. Lo sottolinea la Nota sulla monogamia del Dicastero della Dottrina della Fede approvata da Papa Leone. “‘Una sola carne’ è il modo in cui la Bibbia esprime l’unità matrimoniale”. “È vero che, per molti, un tale messaggio potrà suonare strano o controcorrente – ammette il Vaticano -, ma possiamo applicare ad esso le seguenti parole di Sant’Agostino: ‘Dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico’”. (ANSA).

Basilica Ghiara Reggio Emilia: cammino di Avvento coi Servi di Maria

Nei quattro Venerdì prima di Natale, la comunità dei Servi di Maria del santuario della Ghiara propone un cammino mariano, scandito dal canto delle strofe dell’Inno Akathistos.

L’Akathistos – parola greca che in italiano significa “in piedi” – è un inno mariano che condensa, in forma poetica, la dottrina dei primi grandi concili della Chiesa. In esso, riferendosi sempre a Maria, si celebra la storia della salvezza, compiuta nella redenzione di Cristo e celebrata nella Chiesa in cammino.

Inoltre, la celebrazione dell’Inno Akathistos permette di lucrare l’indulgenza giubilare.

L’appuntamento, quindi, è da Venerdì 28 novembre alle ore 19:00, fino all’ultimo Venerdì prima di Natale.

I Servi invitano a unirsi quanti desiderano onorare la Madre di Dio e crescere, come lei, nell’attesa del Signore che viene.

laliberta.info

Avvento e Natale in Cattedrale a Reggio Emilia

La scena dell'Annunciazione proposta al presepe vivente animato da AVSI il 22 dicembre 2024 sul sagrato della basilica della Ghiara. (Foto Codazzi)

La Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla si prepara a vivere il tempo di Avvento e le festività natalizie con un calendario ricco di appuntamenti liturgici e momenti comunitari. Dalla fine di novembre all’11 gennaio, la Cattedrale Santa Maria Assunta di Reggio Emilia accoglierà fedeli, gruppi e realtà ecclesiali per un percorso che accompagna la nascita del Signore.

Il cammino prende il via il 29 novembre con l’inizio della novena dell’Immacolata, preludio alla prima domenica di Avvento del 30 novembre, che vedrà anche il ritiro promosso dalla Consulta delle Aggregazioni Laicali presieduto dall’arcivescovo Giacomo Morandi. Le successive domeniche di Avvento offriranno occasioni di preghiera e Messe presiedute alternativamente da monsignor Giacomo Morandi e monsignor Giovanni Rossi, arricchite dalla partecipazione delle diverse realtà corali della diocesi.

L’Immacolata Concezione, l’8 dicembre, sarà celebrata con due Messe solenni; mentre il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, la liturgia sarà animata dal Movimento Apostolico Ciechi. La novena di Natale avrà inizio il 16 dicembre e proseguirà fino alla vigilia.

La solennità del Natale del Signore sarà celebrata con la Messa nella notte del 24 dicembre e con le liturgie del 25 dicembre. Le festività proseguiranno con Santo Stefano, la Santa Famiglia e, il 28 dicembre, la celebrazione di chiusura dell’Anno Giubilare diocesano.

Il 31 dicembre monsignor Giacomo Morandi presiederà nella Basilica della Ghiara il canto del Te Deum, mentre il nuovo anno si aprirà con le celebrazioni della Madre di Dio e l’omaggio mariano in piazza Prampolini.

Il percorso continuerà fino alle feste dell’Epifania, il 6 gennaio, e del Battesimo del Signore, l’11 gennaio, che segna la conclusione del tempo liturgico natalizio.

laliberta.info

Pallacanestro Reggiana le prende a Trapani Sesto tonfo consecutivo in campionato Priftis espulso. Ora la classifica preoccupa

DI PAOLO COMASTRI – Reggio Report

23/11/2025 – Dal pianeta basket brutte notizie dalla Sicilia; Trapani si impone per 88-75 contro una Pallacanestro Reggiana che incassa così la sesta sconfitta consecutiva in campionato.

Partono fortissimo i biancorossi che sfruttano le giocate di talento di Caupain e Barford e ii muscoli di Williams per scappare subito in doppia cifra, lasciando poi all’ultimo arrivato Thor firmare la tripla e i tiri liberi del 9-23.

Sfruttando l’energia dei neo entrati Sanogo e Notae, la Shark si scuote e ricuce a poco lo svantaggio nel corso del secondo periodo, sfruttando anche le iniziative dal palleggio di Ford e Allen, con quest’ultimo autore anche del gioco da tre punti del sorpasso del 43-41.
La partita resta poi sui binari dell’equilibrio e dei continui botta e risposta fino alla boa di metà ultimo quarto, Severini, Barford e Vitali falliscono importanti tentativi dalla distanza e Petrucelli, Allen ed Eboua ne approfittano guadagnando e segnando tiri liberi decisivi, permettendo così alla Shark di controllare sino all’88-75 conclusivo.

I siciliani sono stati guidati dai 26 punti (5/8 da due, 4/5 da tre) di Ford, i 21 punti e 5 rimbalzi di Allen e gli 11 punti e 13 rimbalzi di Eboua mentre ai biancorossi non sono bastati i 21 punti di Barford, i 18 punti di Caupain e i 10 punti e 10 rimbalzi di Williams.
Ora la classifica si fa davvero preoccupante; si è raggiunti da Udine e alle spalle le squadre sono sempre meno; per fortuna che ora c’è la prevista sosta che viene davvero a proposito per raccogliere idee ed energie.

Discrete notizie dal fronte JT Thor: un inizio incoraggiante con due triple. E nervosismo alle stelle per coach Priftis che proprio non digerisce il metro arbitrale e lascia a metà secondo quarto la squadra a Fucà.

Coordinatori per l’attività pastorale

laliberta.info

Sono aperte le iscrizionie al biennio di formazione in partenza a marzo 2026 “Li mandò due a due” proposto dalla Casa di Curia e sostenuto dal Team Ministerialità e da quattro uffici pastorali

Favorire una diffusa ministerialità

Nell’anno 2023 è iniziato nella nostra diocesi un percorso nuovo, per promuovere e sviluppare una efficace ministerialità nelle nostre parrocchie e unità pastorali. All’interno degli uffici pastorali della curia si è costituito un team di lavoro – chiamato, appunto, «team ministerialità» – allo scopo di investire maggiori risorse per la formazione, l’ingaggio e il coordinamento di persone – uomini e donne, laici, diaconi o religiosi – che nelle comunità partecipino strutturalmente al discernimento e all’animazione pastorale.

Un primo gruppo di 32 persone ha da poco concluso il primo anno del biennio formativo iniziale, che consiste in quattro weekend (marzo, giugno, settembre, novembre). Le brevi testimonianze riportate qui sotto danno un’idea di quante sfaccettature sono implicate in questi quattro intensi appuntamenti: la crescita personale, la dimensione spirituale, la condivisione fraterna, l’aggiornamento teologico pastorale, l’attenzione alle relazioni.
Come ogni iniziativa nella Chiesa, anche questa non nasce dal nulla, ma poggia su intuizioni ed esperienze maturate già da alcuni anni all’interno dei singoli uffici pastorali. Dal 2018, gruppi di «coordinatori dei catechisti» e di «coordinatori degli educatori» hanno già svolto il percorso formativo iniziale e ricevuto il mandato quinquennale del Vescovo. Nel percorso formativo avviato nel 2023 si è aggiunta la figura del «coordinatore delle attività caritative», e dal 2024 si aggiungerà il «coordinatore delle attività comunicative».

Creare sinergie tra ambiti pastorali differenti

La novità più rilevante promossa dal «team ministerialità» non è tanto la moltiplicazione di figure, quanto la scelta di convogliare insieme figure di coordinamento di ambiti pastorali differenti, prevedendo un percorso formativo unico e articolato, che prevede cioè momenti comuni a tutti e momenti specifici per ciascuna delle tipologie di «coordinatore». Questa scelta vuole promuovere una visione ecclesiale che superi la percezione di vivere la pastorale a “compartimenti stagni” e aiuti tutti a maturare una maggiore circolarità delle risorse e delle prospettive. La finalità di questa “condivisione circolare” è quella creativa consapevolezza necessaria alla nuova evangelizzazione, che non può accontentarsi di alzare la voce per “riconquistare” chi si è allontanato, ma che deve generare nuove forme ecclesiali di annuncio e di relazione in grado di comunicare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Crediamo che un primo modo di ascoltare lo Spirito sia la disponibilità ad ascoltarci reciprocamente, tra persone e tra ambiti pastorali differenti.

D’altra parte, è questo lo stile che caratterizza da alcuni anni lo sforzo comune degli uffici pastorali della curia, non senza difficoltà, ma con indubbio arricchimento di conoscenze, prospettive pastorali e vitalità. Lo stesso percorso formativo per i «coordinatori» è progettato e accompagnato – oltre che dal team – dalla Caritas, dal Servizio per la Pastorale Giovanile, dall’Ufficio Catechistico, dal Centro di Comunicazioni Sociali.

Trasformare la prospettiva ecclesiale

Un ulteriore arricchimento del percorso rispetto agli anni precedenti è il coinvolgimento più esplicito dei parroci che inviano persone come partecipanti al percorso. L’esperienza, infatti, ci ha mostrato che far crescere la ministerialità nelle comunità non è un fatto che riguarda singoli, persone di buona volontà che accettano di svolgere un servizio. Far crescere una concreta ministerialità è, invece, “questione di Chiesa”, chiede di mettersi in gioco non solo ai coordinatori, ma anche ai parroci, ai consigli pastorali, alle persone per le quali i coordinatori prestano servizio. Partecipare al percorso Li mandò a due a due – questo il nome del percorso formativo per «coordinatore» – non significa aggiungere ruoli ma trasformare il modo di pensarsi e viversi come comunità cristiana.

Il «Coordinatore delle attività caritative»

Concretamente. Ai coordinatori chiediamo di crescere nella consapevolezza del loro ruolo come facilitatori di relazioni e custodi del senso profondo dell’azione pastorale. Ai parroci chiediamo di lavorare loro stessi – partecipando ad una formazione a loro riservata due giorni dopo l’appuntamento per i coordinatori – sulle dinamiche di maturazione personale ed ecclesiale proposte al gruppo in formazione.
Auspichiamo di continuare a sostenere – insieme agli uffici pastorali coinvolti – il cammino delle unità pastorali, con la concretezza e la determinazione che la riscoperta ministeriale che tutta la Chiesa sta compiendo e che proviamo ad attuare a piccoli passi per la nostra diocesi.
In marzo inizierà un nuovo percorso. I parroci possono indicare alcune persone delle proprie parrocchie, inviando l’atto di designazione a segreteriacoordinamentopastorale@diocesi.re.it entro il 31 gennaio.

Alessandro, Antonella, Chiara, Marco, Stefano

Il «Coordinatore delle attività comunicative»

Le testimonianze di alcuni coordinatori e un parroco

Questo cammino: “Li mandò a due a due“ è cresciuto man mano che ci siamo lasciati andare, man mano che ci siamo affidati agli altri, ci siamo ascoltati. Sono entrato e subito ho avuto paura della complessità, ma lasciandomi andare ho compreso il perché di quel titolo e quanto fosse giusto lasciarsi prendere per mano. Ho conosciuto persone nuove, esperienze grandi, che mi hanno arricchito il cuore, mi sono sentito piccolo ma parte di una grande comunità. Mi ha fatto riflettere su quanto faccio nell’unità pastorale in cui cerco di aiutare i fratelli meno fortunati, mi ha fatto pensare a come potrei ottenere di più. Questo incontro ha rafforzato in me l’Ascolto e la Carità. Grazie.

un coordinatore

Vivo l’esperienza della formazione di Coordinatore dei Catechisti come una opportunità di grande arricchimento interiore, spirituale e umano. I weekend formativi che ci vengono regolarmente proposti sono occasioni per stringere conoscenze interessanti e di confronto. È davvero illuminante scoprire come altre persone affrontino diversamente da te questioni che dai per scontate. Durante gli incontri il cuore, la mente e anche il corpo sono impegnati nell’ascolto e nella partecipazione alle attività che ci vengono proposte. Faccio mia questa suggestiva descrizione: “Nel cammino di formazione viene a delinearsi la veste del coordinatore. Una veste che assume le caratteristiche del mantello accogliente, del grembiule per servire, della tunica del pellegrino, che porta con sé solo il necessario…”. Mi piacerebbe – a fine percorso – poter indossare questo nuovo abito che rappresenta la condotta essenziale per annunciare il vangelo ai ragazzi e alle famiglie del nostro tempo.

una coordinatrice

Da quando sono prete, e sono passati ormai diversi anni, non mi erano mai capitate queste due cose, per di più contemporaneamente. La prima è essere convocato per un percorso formativo “a seguire” di quello dei laici. Con la sensazione, nel breve lasso dei due giorni di sfasatura, che loro ne sapessero più di me. Sentire frammenti dei loro racconti inietta l’attesa di vedere finalmente svelato cosa li ha tanto appassionati.
La seconda è trovarsi a un incontro dove non si parla di pastorale, teologia, difficoltà, scelte, ma di noi. Come persone e come parroci. Gettati molto spesso in un vortice di problemi e decisioni; inclini ai commenti della situazione e ai criteri teologici e pastorali, ma poco abituati a chiederci che sensazioni ci provoca un problema o una iniziativa. Che postura esistenziale mettiamo in atto, che tratti del nostro carattere emergono, quali paure, ferite, ma anche sogni e talenti personali sono in gioco in una dinamica pastorale. Questo mettersi in gioco come persone, spogliati dal ruolo, ci ha fatto sentire anche un po’ più fratelli tra noi.

un parroco

Il Credo commentato dagli ortodossi

di: Bruno Scapin

nicea

Vladimir N. Lossky – Pierre L’huillier, Il Credo. Commento al simbolo liturgico della fede, Premessa, traduzione dal francese e note a cura di Alessia Brombin, coll. Le Belle Lettere 93, ed. Asterios, Trieste 2025, pp. 127, € 13,00, ISBN 9-788893-132909

Settimana News

Non potevano passare inosservati i 1700 anni del Concilio di Nicea (325). Studi, articoli, convegni, nonché la visita di papa Leone XIV hanno inteso ricordare la prima assise conciliare del cristianesimo.

La benemerita editrice triestina Asterios, impegnata a far conoscere le ricchezze della teologia orientale, è presente con un testo assai prezioso che commenta, a due voci, il Credo che noi definiamo «niceno-costantinopolitano», perché formulato a Nicea (325) e perfezionato a Costantinopoli (381) (Il credo. Commento al simbolo liturgico della fede; cf. qui la scheda di presentazione del volume).

Le due voci che lo presentano e lo commentano sono di due figure di primo piano del mondo ortodosso: Vladimir Lossky e Pierre L’Huillier. Alessia Brombin, docente di teologia spirituale presso la Pontificia Università della Santa Croce, nella sua pregevole «Premessa all’edizione italiana», ne tratteggia una biografia essenziale.

Del primo, Lossky (1903-1958), afferma che «aveva sviluppato un approccio alla teologia mistica che sapeva conciliare l’eredità patristica con le esigenze dell’intellighenzia occidentale. Del secondo, L’Huillier (1926-2007), ricorda «la sintesi personale tra la tradizione orientale e la cultura europea». Due personalità, quindi, aperte al confronto e al dialogo.

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Veniamo al loro commento ai dodici articoli del Credo (o Simbolo) niceno-costantinopolitano. Sono commenti coinvolgenti, perché in essi confluiscono sacra Scrittura, tradizione, teologia, patrologia, spiritualità, liturgia e adorazione dei misteri annunciati.

Le pagine introduttive e il commento al primo articolo del Credo sono di V. Lossky, mentre gli altri undici recano la firma de L’Huillier.

Lossky comincia col dire che il Dio in cui credono i cristiani «non è un ente impersonale, un assoluto senza volto, indifferente alle sorti degli umani»; che il monoteismo dei cristiani afferma un Dio che non è solitudine e che «l’unico Dio personale del cristianesimo è una tri-unità di persone», cioè «un solo Dio», un’unica essenza, sostanza o natura in tre ipostasi o persone.

Affermando che il Padre è «onnipotente» e «creatore», i cristiani lo dichiarano «sovrano di tutte le cose» (pantokrator), che «trae l’essere da non-essere», e non «un artigiano divino, un “demiurgo”, che mette ordine a una materia informe ed eterna, a un caos preesistente al cosmo». Il mondo non è «una divinità degradata o diminuita, bensì una realtà radicalmente nuova», creata per mezzo del Verbo, frutto di un atto libero e gratuito della volontà divina e l’ordine cosmico «svela la bontà, la sapienza e l’amore del Creatore».

Per Lossky, «il “conflitto tra scienza e religione” costituisce una falsa dicotomia, capace di turbare soltanto gli spiriti arretrati di credenti poco informati o di scienziati dalla mentalità ristretta».

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D’ora in poi tocca a Pierre L’Huillier, prima monaco poi vescovo in America, commentare i rimanenti articoli.

Il primo di essi è quello riguardante la persona del Verbo, coeterno con il Padre e della stessa sostanza, «contro la blasfema formula ariana circa il Figlio: “Vi fu un tempo in cui egli non era”». «La consustanzialità delle persone divine è un dogma fondamentale dell’autentico cristianesimo». Ne va della salvezza dell’uomo, perché – afferma L’Huillier –, «se Cristo non è realmente e pienamente Dio e uomo, l’abisso tra il divino e l’umano resta invalicabile».

Sulla disputa ariana circa la natura di Cristo, da non trascurare una lunga nota tratta da un testo di J. Popović. In essa si legge che «l’arianesimo non è stato ancora sepolto: oggi è più alla moda e più diffuso che mai», soprattutto nella cultura europea contemporanea, perché, «ovunque e sistematicamente il Cristo è abbassato a un semplice uomo: costantemente viene disincarnato il Diouomo; continuamente si compie l’opera di Ario», dal momento che «Ario espelle Dio da Cristo».

Due le sottolineature per il terzo articolo del Credo («Per noi uomini e per la nostra salvezza…»). Si tratta dell’incarnazione del Verbo. «L’incarnazione – scrive L’Huillier – è l’“evento” per eccellenza della storia della salvezza…, è l’avvenimento che ha radicalmente mutato la storia, poiché, con l’incarnazione del Verbo, i rapporti tra Dio e l’uomo stati totalmente trasformati».

Quanto alla disputa se l’incarnazione sarebbe avvenuta anche senza il peccato originale, l’opinione del nostro autore è che si tratta di «speculazioni vane e oziose».

In questo terzo articolo si afferma che Gesù si è fatto uomo «per opera dello Spirito Santo e della Vergine Maria». Per cui, coloro che rifiutano la maternità divina della Vergine Maria – scrive Lossky – «non sono veri cristiani, poiché si oppongono con ciò al dogma dell’incarnazione del Verbo».

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E veniamo alla passione e morte di Gesù sotto Ponzio Pilato. Il richiamo a Pilato «rimarca il carattere storico della passione». Ma è sulla croce che dobbiamo soffermarci, per indicare che «la morte sulla croce ha già inesorabilmente sancito la sconfitta delle forze del male» e quindi la passione di Gesù possiede un «aspetto glorioso». La tradizione orientale, infatti, definisce la croce con l’aggettivo «vivificante», mentre l’Occidente la qualifica come «gloriosa» o «beata».

L’Huillier sottolinea la differenza tra le due teologie della passione/morte del Signore. L’Occidente pone la redenzione entro categorie giuridico/etiche, interpretando il sacrificio di Cristo come riparazione all’offesa recata a Dio con il peccato originale, mentre per l’Oriente il Cristo redentore è la «primizia di una nuova umanità liberata dalla schiavitù diabolica».

Poche ma decisive parole per l’articolo sulla risurrezione: «La fede nella risurrezione di Gesù Cristo è il cuore dell’autentico cristianesimo», tanto che tale evento «segna il confine invalicabile tra la fede e l’incredulità». La risurrezione «è la manifestazione lampante della messianicità di Gesù e della sua divinità».

A differenza dell’arte occidentale che, sovente, dipinge o scolpisce il momento della risurrezione, «l’iconografia ortodossa tradizionale non raffigura la risurrezione in sé, bensì le apparizioni successive» e questo perché questo l’evento è sfuggito ad ogni indagine umana e non è descritto nei Vangeli.

Segue poi l’ascensione di Cristo e la sua intronizzazione «alla destra del Padre». Essa segna «il coronamento del sacrificio di Cristo», «l’esaltazione del Diouomo… capo di una umanità rigenerata, la quale, proprio nella sua persona, siede ormai gloriosa alla destra del Padre».

Interessante l’annotazione de L’Huillier, secondo la quale «l’ascensione non è affatto una “disincarnazione” del Verbo divino», dal momento che Egli vive nella Chiesa e la pentecoste – che inaugura l’epoca della Chiesa – è la «conseguenza necessaria» dell’ascensione.

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«E di nuovo verrà…», recita l’articolo 7 del Credo. «La fede nella seconda venuta di Cristo – scrive L’Huillier – è assolutamente centrale per l’intera dottrina cristiana», dal momento che la Chiesa non ha una concezione ciclica del tempo, bensì lineare (esiste un inizio e una fine). La liturgia eucaristica non è solo memoriale di un evento passato, ma esprime anche l’attesa escatologica della comunità messianica che è la Chiesa. Andiamo quindi verso la “fine del mondo”, con la quale «cesserà ogni possibilità di cambiamento: tutto sarà fissato in modo immutabile e assoluto».

E siamo all’articolo 8 («E nello Spirito Santo…»). Come avevano negato la consustanzialità del Verbo con il Padre, così gli ariani, in compagnia in questo caso di taluni cristiani, «non riconoscevano affatto la divinità e la consustanzialità dello Spirito». Ma la fede cristiana, che ha il suo fondamento nella rivelazione neotestamentaria, ritiene persona anche lo Spirito, confessando così che «il monoteismo non è unipersonale ma trinitario».

L’ortodossia sottolinea fortemente la presenza e l’azione dello Spirito nella Chiesa, affermando che Esso «è la fonte di ogni santificazione» e che «la presenza dello Spirito Santo distingue radicalmente la Chiesa da ogni altra società».

Non poteva non tornare l’antica querelle del «Filioque». Nel Credo niceno-costantinopolitano si afferma che lo Spirito Santo «procede dal Padre». Questa è la formulazione da sempre adottata dalla tradizione orientale, mentre la Chiesa di Roma, inizialmente concorde, dall’XI secolo in poi professò che lo Spirito Santo «procede dal Padre e dal Figlio», alterando il simbolo universale della fede. Ferma la condanna de L’Huillier: «in primo luogo, perché l’aggiunta in questione esprimeva una dottrina senza fondamento nella rivelazione; in secondo luogo, perché la modifica del testo del Credo fu compiuta unilateralmente dalla Chiesa d’occidente, in violazione del principio cattolico di conciliarità».

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«Una, santa, cattolica e apostolica» (art. 9). «Queste note della Chiesa – scrive L’Huillier – costituiscono un unicum indissolubile», tanto che «l’assenza o una mutilazione di una influisce sulle altre». Quando poi si parla della Chiesa – prosegue – occorre evitare due estremismi: «una concezione troppo spirituale» e «un istituzionalismo troppo marcato».

Se poi la Chiesa è “una”, nel tempo e nello spazio, «non possono esistere più Chiese, poiché non possono esistere più verità».

È «santa», perché «la vita nella Chiesa è vita in Cristo e nient’altro».

E, se è «cattolica», «è la negazione del particolarismo settario».

Quanto al suo essere “apostolica”, occorre ribadire che «i legittimi successori degli apostoli sono i vescovi» e che, «nella Chiesa ortodossa non c’è mai stato alcun dubbio sul fatto che l’episcopato non appartiene al bene esse (al buon esistere) o al plene esse (all’essere completo) della Chiesa, ma alla sua stessa natura (al suo esse)».

«Professo un solo battesimo…», recita l’articolo 10. Confessare questo significa che «l’adesione a Cristo nella Chiesa è l’unica via sicura per la salvezza». Per L’Huillier, il simbolismo del rito battesimale (immersione, tunica bianca…) era spinto «fino alla massima raffinatezza». Lamenta però che la Chiesa ortodossa abbia praticamente abbandonato il battesimo per immersione con il suo impareggiabile simbolismo. Ribadisce che l’iniziazione cristiana ha il suo ordine logico nel battesimo, quindi nella crismazione e, infine, nell’eucaristia.

Severo è il cammino imposto a coloro che dall’eresia vogliono rientrare nell’ortodossia.

Da non dimenticare che la maledizione che gravava sull’umanità a causa del peccato originale è stata rimossa dal sacrificio del Verbo incarnato e che il «battesimo integra l’uomo nell’umanità rigenerata, di cui Cristo, nuovo Adamo, è capo».

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Gli ultimi due articoli del Credo (la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà) rivelano quanto sia fondamentale nel cristianesimo la fede nelle realtà ultime. La risurrezione, infatti, «non è una pia speranza, ma una certezza che condiziona la fede cristiana». «Il cristianesimo – annota L’Huillier – è davvero, in senso forte, una religione della speranza».

Ed è il banchetto eucaristico l’anticipazione più evocativa del banchetto messianico, dove si realizzerà la vocazione che Dio ha messo nel cuore di ogni uomo: «l’unione divinizzante».

Al termine di questa presentazione/recensione, ci sembrano appropriate le parole della Brombin. La sintesi del Credo approntata da Lossky e da L’Huillier – scrive – «non è una semplice esegesi, ma una vera e propria mistagogia del Credo niceno-costantinopolitano». Essi ricordano che le antiche formule conciliari non sono «reliquie teologiche», ma espressioni di «un’autentica esperienza di fede che riaffiora sottotraccia nella Chiesa di oggi».

Le differenze tra la teologia orientale e quella occidentale non intaccano la sostanza di una fede proclamata dai cristiani nella liturgia domenicale e festiva.

Vladimir N. Lossky – Pierre L’huillier, Il Credo. Commento al simbolo liturgico della fede, Premessa, traduzione dal francese e note a cura di Alessia Brombin, coll. Le Belle Lettere 93, ed. Asterios, Trieste 2025, pp. 127, € 13,00, ISBN 9-788893-132909

San Francesco e l’idea di riforma

di: Fabio Nardelli

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Settimana News

Esce in questi giorni il volume Riforma nella Chiesa. Un percorso storico-teologico (Cittadella, Assisi 2025). Il volume considera la tematica della “riforma” nella Chiesa usando il metodo storico-teologico. Il testo di Fabio Nardelli, frate minore e docente di ecclesiologia presso la Pontificia Università Antonianum di Roma, vuole essere un invito alla riflessione anche riferendosi alla figura di Francesco di Assisi quale riformatore della Chiesa nella Chiesa. Anticipiamo di seguito un estratto del volume dedicato proprio alla figura di Francesco.

Riflettendo sull’idea di rinnovamento della Chiesa, secondo Francesco d’Assisi, si sceglie di considerare due aspetti particolarmente caratteristici della sua riflessione ecclesiologica: a) l’immagine della casa e, quindi, l’aspetto materno della Chiesa; b) la dimensione dell’annuncio del Vangelo.

Innanzitutto si può affermare che è la Chiesa la sua casa, la sua madre e la sua famiglia. Essa, infatti, è lo spazio di vita nel quale si compiva la sua speranza. La Chiesa quindi è la grande «fraternità» chiamata a raggiungere tutti, perché tutti diventino veri fratelli con Gesù Cristo: non è un concetto, né un’organizzazione con una storia passata, ma è la Madre in cui si riflette l’immenso amore di Dio.

La Chiesa infatti si mostra «madre» camminando in questo mondo tra speranze e difficoltà, con uomini santi e peccatori e vivendo la sua storia nell’ottica della donazione totale del Cristo e ciò potrebbe consentire ad essa di manifestare la sua bellezza come istituzione unita, serva e povera, nella continua lode di Dio e intenta a mostrare la via salvifica del Vangelo.

In tale contesto di un sempre più crescente «fervore» riformatore, ad opera di tanti movimenti sorti tra il XII‑XIII secolo (catari, valdesi etc…), nacquero una serie di gruppi che cercavano sinceramente di essere fedeli al Vangelo e condurre una vita autenticamente cristiana e questa situazione storica ed ecclesiale influì fortemente sul modo di concepire la Chiesa da parte di Francesco d’Assisi.

Per il Poverello esiste una sola Chiesa, cioè quella che si siede alla mensa con Cristo per celebrare l’Eucaristia. Ciò che ripeteva continuamente ai frati era di essere saldi nella fede cattolica e di vivere cattolicamente. Questa in realtà fu la prima conseguenza dell’opzione fondamentale proposta da Francesco: «vivere in conformità al santo Vangelo», nella Chiesa, per preservare l’unità e conservare la Parola, secondo il volere di Cristo.

In questo cammino emerge chiaramente la dimensione della comunione, che può essere definita concretamente come la buona notizia, e come rimedio donato dal Signore contro la solitudine.

Proprio su questo tema Benedetto XVI affermava che «l’insistenza sulla comunione fraterna, ci orienta a vedere nella koinonia dello Spirito Santo non solo la «partecipazione» alla vita divina quasi singolarmente, ognuno per sé, ma anche logicamente la «comunione» tra i credenti che lo Spirito stesso suscita come suo artefice e principale agente». Pertanto la Chiesa è una comunità di fedeli chiamati a vivere la parola di Dio in comunione fraterna, servendosi l’un l’altro secondo il comandamento nuovo (cf. Gv 13,34), dando testimonianza del Signore risorto, e celebrando nel tempo la sua memoria fino al suo ritorno (cf. 1Cor 11,23‑26).

La seconda caratteristica «rinnovatrice» della visione ecclesiologica di Francesco consiste sicuramente nella chiamata all’annuncio evangelico. Riprendendo l’espressione di Paolo VI, per il quale «la Chiesa esiste per evangelizzare» (EN 14), viene riaffermata l’imprescindibile vocazione e il dovere che è chiamata a svolgere nel mondo: per Francesco, figlio fedele della Chiesa, il suo primo compito è quello di portare la Buona Novella a tutti gli uomini, trasformando il cuore della stessa umanità.

Per il Poverello si tratta di annunciare pubblicamente l’opera della salvezza compiuta da Dio con la morte e risurrezione del Figlio: è la proclamazione del mistero pasquale a tutte le genti e lo Spirito è colui che ispira, dirige e anima a porre nel cuore degli uomini il messaggio evangelico. L’annuncio suscita la ricerca delle ragioni per credere, l’esperienza di vita cristiana, la celebrazione dei sacramenti, la testimonianza missionaria. Il vangelo è per gli uomini e, più che un’esigenza, è un’offerta gioiosa di vita in povertà, missione e itineranza.

In diversi passaggi dei suoi Scritti Francesco parla del proprio rapporto con la Chiesa, ma vanno ricordate principalmente le dichiarazioni all’inizio delle due Regole (cf. Rb 1,2 in FF 76; Rnb 3‑4 in FF 3). Egli utilizza di proposito l’espressione singolare «fede» (nei sacerdoti, nei chierici, nelle Chiese) proprio per esplicitare la radice e il fondamento divino della sua scelta e appartenenza a tale istituzione. A cui aggiunge, come ulteriore elemento che esprime questo legame istituzionale, la “figura del cardinale protettore”.

Riassumendo, si può dire che il movimento francescano prese forma all’interno di due correnti, che caratterizzarono fortemente l’Occidente nel corso del XII secolo: da un lato il desiderio generale di «ritornare» alle origini, dall’altro la volontà di «rinnovare» la Chiesa attraverso un’interpretazione letterale delle Scritture.

Di conseguenza Francesco d’Assisi, in quel «secolo della rinascita», potrebbe essere considerato come un apostolo e profeta dell’epoca d’oro della Scolastica. Non sarebbe quindi fuori luogo concludere affermando in modo verace che la proposta di Francesco e dell’Ordine minoritico, ancora viva e attuale, è un dono dello Spirito alla Chiesa in quanto ripropone la necessità di uno stretto legame tra minorità, fraternità e missionarietà per ridare ad essa vitalità. Egli, da itinerante, inviava i suoi frati nel mondo in obbedienza alla chiamata di Dio che lo orientava solamente al Vangelo.

Joseph Ratzinger, parlando di Francesco, come figura ancora attuale, ha affermato che «egli non fu propriamente il fondatore di un Ordine […]. Sapeva che il compito che lo attendeva era molto più radicale: egli voleva raccogliere un novus populus che seguisse il Discorso della montagna sine glossa, trovando in esso la sua unica e immediata “regola”».

Per concludere storicamente l’analisi di questa epoca, è opportuno menzionare alcuni concili che hanno rappresentato una tappa fondamentale nella storia della riforma ecclesiale: il Lateranense IV (1215) che fu convocato proprio con questo intento; il Concilio di Vienne (1311-1312) che sancì il principio di Durando «reformatio in capite et in membris», per sottolineare che la riforma andava compiuta a partire dalla gerarchia; e il Concilio di Costanza (1415) che provò a risolvere il grave scisma d’Occidente e ristabilire l’unità ecclesiale.

L’aspirazione di una «riforma», da un punto di vista ecclesiologico, aprì le porte della modernità, dando vita a movimenti culturali che trovarono in Martin Lutero il suo principale rappresentante.

Il nome della giustizia è tenerezza

di: Isabella Guanzini

giustizia

SettimanaNews

Il 18 ottobre scorso si è tenuto a Bergamo il convegno I nomi della giustizia, la questione penale in Lombardia voluto dalla Conferenza episcopale lombarda, dalla Delegazione Caritas e dalle Cappellanie delle carceri della Lombardia. Riportiamo integralmente la relazione Il nome della giustizia è tenerezza di Isabella Guanzini, filosofa e teologa, docente all’Università di Linz.

Salmo 141
Signore, a te grido, accorri in mio aiuto;
porgi l’orecchio alla mia voce quando t’invoco.

La mia preghiera stia davanti a te come incenso,
le mie mani alzate come sacrificio della sera.

Poni, Signore, una guardia alla mia bocca,
sorveglia la porta delle mie labbra.

Non piegare il mio cuore al male,
a compiere azioni criminose con i malfattori:
che io non gusti i loro cibi deliziosi.

Mi percuota il giusto e il fedele mi corregga,
l’olio del malvagio non profumi la mia testa,
tra le loro malvagità continui la mia preghiera.

Siano scaraventati sulle rocce i loro capi
e sentano quanto sono dolci le mie parole:

“Come si lavora e si dissoda la terra,
le loro ossa siano disperse alla bocca degli inferi”.

A te, Signore Dio, sono rivolti i miei occhi;
in te mi rifugio, non lasciarmi indifeso.

Proteggimi dal laccio che mi tendono,
dalle trappole dei malfattori.

I malvagi cadano insieme nelle loro reti,
mentre io, incolume, passerò oltre.

Introduzione
Il Salmo 141 ci inserisce – anzi, ci precipita – in medias res, nel cuore stesso del tema di questa giornata: il grido di dolore di chi non vede la luce, la supplica a Dio perché intervenga nella sofferenza e nell’oppressione, la speranza di salvezza e di liberazione a cui solo lui può rispondere.

Nello stesso tempo, apre indirettamente la questione della forma della giustizia – dei nomi della giustizia – che può e deve incarnare la pena: come “strappare” dal carcere una vita che sembra perduta? Quale forma della pena tende a disumanizzare, invece che ad avviare un processo di riflessione e di metamorfosi dell’umano? Come superare il tratto meramente ritorsivo o intimidatorio della pena, che vede soltanto la colpa o il reato, allargando lo sguardo alla persona, alla sua storia, e al suo legame con la società? Esiste un modello di giustizia diverso da quello retributivo, che non si limiti a neutralizzare – e dunque a bloccare, alienare e opprimere – lo sviluppo della vita umana, ma che invece miri a riparare, a ricostruire e, soprattutto, a liberare ciò che è incarcerato, anche prima di aver commesso concretamente un reato?

Da qui si pone una domanda che non possiamo eludere: che cosa rivela del nostro modo di intendere l’umano la modalità in cui scegliamo di punire?

Il modo in cui una società e le sue istituzioni rispondono a queste domande rivela, forse più di ogni altra cosa, il grado di umanità di un’epoca. Il carcere, in questo senso, costringe a misurarsi con la qualità umana di una civiltà, perché in esso si riflettono come in uno specchio le contraddizioni e i nodi irrisolti di un’intera società.

Sono questioni immense e complesse, alle quali desidero accostarmi non con la pretesa della competenza giuridica, ma con una tensione antropologica e spirituale; una tensione che mi condurrà fino al rapporto paradossale, ai limiti dell’assurdo, tra carcere e tenerezza. Lo scontro fra queste due realtà che appaiono fra loro incompatibili, che si respingono come poli uguali di un magnete, potrebbe infatti accendere un cortocircuito vitale e insieme fragile, ma forse capace di avviare un processo.

Prima di affrontare questo strano intreccio, vorrei commentare brevemente il Salmo 141.

La supplica
I Salmi non sarebbero mai nati se i loro autori non avessero fatto esperienza del peso della sofferenza e non avessero visto la morte da vicino. Chi apre il Salterio si imbatte, quasi in ogni pagina, in una voce che si trova sul punto di sprofondare: «Ascolta la mia supplica: ho toccato il fondo dell’angoscia […]. Strappa dal carcere la mia vita». Chi parla qui? Chi è il salmista? I Salmi scritti in prima persona vengono definiti lamentazioni individuali: ma chi è questo “io”? L’autore stesso del salmo? Il nome simbolico di Davide che incarna tutto Israele e rappresenta gli autori anonimi che hanno composto i Salmi?

Resta un mistero il fatto che proprio l’attraversare esperienze molto dolorose faccia nascere parole capaci di raggiungere tutti. Si potrebbe dire: il salmista è ancora oggi la nostra voce: la voce della crisi.

Tuttavia, tutto è così radicale, le sofferenze così profonde, che proviamo una certa distanza di fronte a sciagure di tale portata. Eppure, almeno una volta, tutti noi ci siamo già sentiti sul punto di affondare, e ogni giorno viviamo molti giorni insieme.

«Con la mia voce al Signore grido aiuto,
con la mia voce supplico il Signore;
davanti a lui effondo il mio lamento,
al tuo cospetto sfogo la mia angoscia».

Quando preghiamo un salmo, diamo voce allo stato di prostrazione che affligge molti, che spesso non trova le parole o le formule per potersi dire.

La lamentazione esprime in modo radicale, persino violento, una dimensione dell’esistenza che riguarda tutti: la sua realtà contingente e precaria, priva di ogni sicurezza, segnata dalla mortalità, la presenza di catene fisiche e psichiche che la costringono in situazioni indesiderate dalle quali non ci si riesce a liberare.

I Salmi mostrano l’essere umano come creatura bisognosa d’aiuto e desiderante la liberazione, disillusa da ogni tentativo di autoaffermazione, fiduciosa soltanto nella giustizia di Dio, dopo che tutte le altre forme di giustizia umana hanno rivelato i propri limiti e le proprie contraddizioni.

Essi non si muovono nel campo della semplice devozione né in quello dell’esortazione morale: sono testimonianze di esperienze reali, spesso spietate, che non escludono nulla dell’esistenza umana, nemmeno la paura, l’odio, l’assurdità e la collera di fronte alla violenza e all’oppressione.

I Salmi articolano, per così dire, l’inconscio della coscienza credente, ciò che nel pensiero religioso resta non detto: quel che tende a essere rimosso, negato, o per cui semplicemente non si trovano parole: il dolore, l’abbandono, l’alienazione, l’esperienza di sentirsi oggetto di scherno da parte degli altri.

«Guarda a destra e vedi:
nessuno mi riconosce.
Non c’è per me via di scampo,
nessuno ha cura della mia vita».

Si potrebbe dire che la preghiera dei Salmi – in particolare i salmi di lamentazione e di supplica – svolga una funzione imprescindibile all’interno di una spiritualità altrimenti piuttosto devota e senza inquietudine: i salmisti esprimono, in modo vicario, come per rappresentanza, la violenza, la contingenza e l’esposizione della nostra esistenza umana, articolando il rimosso dalla nostra coscienza, avviando un processo di conoscenza di sé e delle proprie affezioni che faticano a trovare un linguaggio umano e religioso che sappia esprimerle senza addomesticarle.

La violenza realmente esistente non viene taciuta, ma presa sul serio: la minaccia rimane, la vita è imprigionata, l’angoscia continua ad assalirci.

Anche se tali parole possono risultare sconcertanti, esse rivelano qualcosa di decisivo: nei Salmi tutto può essere portato davanti a Dio, anche le esperienze di violenza e il desiderio di vendetta. Devono essere dette, perché non abbiano l’ultima parola.

Così diventa chiaro: nella preghiera tutti i sentimenti possono essere pronunciati: non come atto distruttivo, ma come supplica autentica che sceglie la via della parola, e non del gesto violento.

Il salmista espone a Dio la propria rabbia e impotenza, sapendo di essere compreso invece che condannato. Accolto entro uno spazio di ascolto e di fiducia, ogni sentimento negativo può essere affrontato e compreso, e un processo di trasformazione può iniziare.

Qui si affaccia un elemento decisivo che non può essere taciuto quando si parla di giustizia, soprattutto in relazione alla realtà del carcere: il processo, arduo ma necessario, dell’attraversamento della propria condizione, il cammino che conduce alla presa di coscienza della colpa, a quel tribunale interiore che, kantianamente, non dovrebbe mai essere spento, perché è il luogo in cui si misura la possibilità di un’autentica riparazione.

È il cammino necessario che richiede di dare voce alla rabbia, al dolore e persino alla violenza, entro il quale diviene possibile nominare il groviglio di ferite e di emozioni che hanno nutrito il disagio, segnato a fuoco l’esperienza e le relazioni e, ogni volta, reso possibile il passaggio all’atto.

Senza questo attraversamento della colpa – possibile attraverso una presa di coscienza della propria storia, della propria angoscia e dei propri errori – non può avvenire alcuna metamorfosi, e non può spuntare alcun germoglio di giustizia. Perché ciò avvenga, anche i Salmi possono aiutare.

La pena
Siamo consapevoli che l’istituzione totale del carcere, concepita come risposta al male commesso e come strumento di ristabilimento della giustizia, sia raramente in grado di favorire un autentico processo di consapevolezza e di cambiamento interiore.

In quanto luogo di pena finalizzato esclusivamente a sancire il reato, il carcere non riesce a essere uno spazio di riparazione: al contrario, tende a trasformarsi in un dispositivo che riproduce le ferite originarie, reiterando ciò che vorrebbe redimere, ossia la trasgressione.

Entro una logica di giustizia puramente punitiva, in cui il carcere diviene il “luogo del dolore inflitto”, si sviluppa, piuttosto, un processo di deresponsabilizzazione: non soltanto non vi è spazio per l’elaborazione interiore e l’autocritica, per confrontarsi con le proprie colpe e la propria storia, per verbalizzare la sofferenza e ricostruire le relazioni infrante; accade piuttosto un movimento in direzione contraria di autoassoluzione e di fuga da sé, di separazione dalle proprie azioni ed emozioni, che impedisce ogni vera crescita di umanità e possibilità di risocializzazione.

Il carcere è il luogo in cui la pena corre il rischio di perdere il proprio senso, trasformandosi in una trama di restrizioni che umiliano la dignità personale, in dinamiche insensate di mortificazione che nessuna ragione etica o giuridica può giustificare.

Con il tempo, la reclusione può mutare la privazione della libertà – che dovrebbe costituire il significato stesso della pena – in mera negazione dell’umanità. La negazione della libertà non dovrebbe infatti rappresentare un semplice accidente della pena, ma la sua sostanza più profonda: oltrepassarne il confine significa tradire la giustizia, fino a renderla irriconoscibile.

Nello stesso tempo, la privazione della libertà – la condizione di segregazione – produce una frattura profonda tra l’individuo e il mondo esterno, che umilia il sé, controlla, smonta e deforma l’identità, entro un tempo che si dilata infinitamente e uno spazio che si contrae enormemente. Entro questa dimensione spaziale che tende alla riduzione, tutto conduce alla regressione e alla deresponsabilizzazione: a partire dal linguaggio, carico di vezzeggiativi, che sembra uscito da un libro di favole per bambini (domandina, bilancetta, i secondini, il braccialetto… un mondo in -ino), in cui nulla sembra progettato per un vero percorso di consapevolezza e di maturazione.

La persona detenuta non è più riconosciuta nella sua complessità biografica, ma viene ridotta al ruolo istituzionale che gli viene attribuito – un “internato”, una “detenuta”, un numero –, cioè identificata con la propria colpa, schiacciata sul suo reato.

Così, in una realtà che chiede alle persone di cambiare, di prendere coscienza dei propri errori, tutti vengono in certo modo fissati a ciò che è stato commesso, impedendo ogni possibilità di rinascita o di trasformazione.

Come pensare una forma di pena che miri non a neutralizzare e a contenere, ma a risanare ciò che è stato distrutto, il sé, l’altro, il legame sociale? Come può una pena condurre alla consapevolezza psichica, fisica e spirituale che la distruzione della vita corrisponde alla distruzione della propria vita? Come è possibile far nascere una coscienza drammatica della perdita, una sorta di nostalgia drammatica per quel che è stato perduto?

Nostalgia ha qui il senso forte di un presentimento intimo di un’unità lacerata, dell’essersi auto-esclusi dal circuito dei viventi, di essersi alienati da sé stessi ed estraniati dal mondo sociale.

Significa percepire su di sé la propria colpa come un grave gesto di rottura dell’intero in cui si abita: un passaggio necessario verso ogni possibile riconciliazione.

Per questo la giustizia, se vuole essere umana, non può limitarsi a punire: deve sapere custodire quella dignità che sopravvive anche nel colpevole, riconoscendolo come soggetto ferito, non come essere degradato.

L’essere umano è infatti sempre più della sua azione, così come il peccatore è sempre più del peccato che ha commesso. Nessun delitto può avere una personalità, cioè, giungere a identificarsi, a sovrapporsi alla totalità di una storia di vita, come fosse una seconda pelle impossibile da eliminare.

Questo è senz’altro un tema giubilare: «chi non crede alla redimibilità di una creatura umana non è cristiano»: secondo don Primo Mazzolari, due volte arrestato dai fascisti e sempre disposto al perdono, al confronto, alla consolazione, non si può pensare la realtà del carcere eludendo le categorie della fraternità e della misericordia (Lc 15), perché “solo chi ama il lupo può parlare del lupo”; quelle che qualcuno chiama “vite storte” – esistenze difficili, segnate da scelte sbagliate o da strade interrotte – non vanno vittimizzate, ma accompagnate nella possibilità di un nuovo inizio, che può passare soltanto attraverso la tessitura di legami.

Come pensare istituzioni che non annullino, ma accompagnino l’identità nella sua complessità e nella sua possibilità di cambiamento? Come pensare una forma di pena capace di suscitare una nostalgia per ciò che, attraverso la colpa, è stato distrutto, per ciò che attraverso il reato è andato perduto? Una forma di pena che non punti a slacciare i legami e deformare il sé in un processo di quotidiana mortificazione, ma che, al contrario, si faccia una scuola di relazione, un luogo «di forte e austera risocializzazione» (C.M. Martini).

La tenerezza
Può la tenerezza essere un nome della giustizia, proprio in quanto nostalgia per ciò che è andato perduto o per ciò che sembra sul punto di perdersi? La tenerezza non è, infatti, una debolezza sentimentale, ma un affetto penetrante che illumina il mondo. È una forza vitale che alimenta la resistenza – e persino la lotta – contro tutto ciò che è troppo rigido e ottuso.

Parlare di tenerezza significa riflettere su qualcosa di essenziale che manca e per questo viene invocato: significa porre la questione dell’esigenza del nostro tempo, attraverso uno dei suoi significanti decisivi che faticano a incarnarsi nel presente.

Per comprendere il significato paradossale del rapporto fra carcere e tenerezza, ma anche per interpretare la tenerezza come un nome della giustizia, occorre allora comprendere l’esigenza iscritta in essa, insieme a quello che il filosofo tedesco Klaus Heinrich definirebbe l’«elemento di protesta» che essa vorrebbe tradurre, per mostrarne gli effetti emancipativi.

Per illuminare, infatti, il senso di un concetto è necessario individuare e tradurre la forma di protesta che vuole esprimere, rompendo il silenzio che si è formato in un determinato tempo storico intorno ad esso. «Protestari, nell’antica accezione giudiziaria del termine, significa: rompere il silenzio davanti ai testimoni, affinché il silenzio non venga frainteso come consenso».

Parlare di tenerezza – una categoria divenuta quasi oscena nella nostra epoca – può allora rappresentare un gesto di resistenza entro il regime prestazionale, sanzionatorio e muscolare che stiamo patendo, come singoli, ma soprattutto come collettività.

Tenerezza diviene qui espressione di un desiderio di mettere al mondo, almeno attraverso il pensiero e il linguaggio, attraverso la potenza della parola, qualcosa che manca e che tutti desideriamo. Per questo, parlarne non rappresenta soltanto un gesto di protesta ma anche di risurrezione, che vuole far passare dalla potenza all’atto qualcosa che spinge per venire al mondo, ma non ci riesce.

Soprattutto dove la realtà si fa più dura e violenta, dove le relazioni divengono impossibili e fanno male, dove l’angoscia a ogni chiusura metallica e impietosa di porte si sente più forte, ecco forse è proprio qui che occorre parlare di tenerezza. Proprio nei luoghi dove si rischia maggiormente di incattivirsi, di irrigidirsi: per mancanza di spazio, per mancanza d’affetto, per mancanza di fiducia in sé stessi e nel mondo, per mancanza di libertà, per mancanza di futuro; la tenerezza deve diventare un nome della giustizia.

I nostri corpi e le nostre menti sono, infatti, centri ad alta densità affettiva: ogni incontro, ogni gesto, ogni parola ne trasforma l’intensità e ne varia il gradiente.

La tenerezza ha il potere di modificare il nostro elementare incontro con il mondo, perché ha la capacità di accogliere e non rimuovere la condizione di vulnerabilità e fragilità che segna ogni esistenza. È da questo sguardo che l’altro emerge nella sua alterità, nella sua singolarità e, soprattutto nella sua finitezza e mortalità.

«Questa tenerezza della miseria umana – scrive Pasolini a Sandro Penna in una lettera del febbraio 1970 – ti circonda come un’aureola terrestre intorno a un capo celeste». Pasolini osserva l’amico poeta con uno sguardo intensivo e affettivo grazie a cui si apre una zona di indistinzione fra mondo terrestre e mondo celeste: qui la tenerezza è come un’aureola che rende indeterminati i limiti fra i due mondi, come effetto dell’incontro con la vulnerabilità della singolarità individuale.

La percezione della miseria umana non radicalizza la dispersione e l’alienazione, bensì, al contrario, intensifica la cura e la protezione. La tenerezza corrisponde allora a una speciale sensibilità e affezione per le vite precarie, capace di resistere a ogni tentazione di fissazione paranoica e di giudizio senza appello.

In ciò che era fino a quel momento un corpo estraneo, realmente o potenzialmente violento, portatore di disturbo, tollerato o mal sopportato, iniziamo a scorgere un soggetto con i suoi desideri infranti e i suoi sogni andati in fumo. È così che l’estraneo – il vero prossimo – viene accolto, oltre ogni idealizzazione, nel punto singolare della sua soggettività, nel suo nome proprio, nella dimensione non sacrificabile della sua singolarità.

Questa è la potenza segreta della tenerezza, che punta, per così dire, al realismo dell’umano, con una particolare sensibilità per le situazioni di marginalizzazione e di povertà sociale e psicologica. Oltre ogni retorica sentimentale, il suo è un lavoro duro e artigianale, che si impegna sulle storie più particolari, per preservarne quel resto di umanità che nemmeno la colpa più grave può dissolvere. Per questo si può chiamare anche quella “nostalgia del finito” – quell’affetto profondo che nasce nei confronti della vulnerabilità della vita – da cui può generarsi un processo di riparazione.

Non a caso, nella tradizione biblica come in quella coranica, la misericordia (rachamim) è il nome centrale di Dio: tale parola significa letteralmente una tenerezza profonda che scaturisce nel “grembo materno” di Dio al cospetto della sofferenza del suo popolo.

Per questo può alzarsi sempre di nuovo il grido del salmista, sapendo di essere ascoltato almeno da Lui:

«Strappa dal carcere la mia vita,
perché io renda grazie al tuo nome:
i giusti mi faranno corona
quando mi concederai la tua grazia».