L’umanità che fa la differenza

 L'umanità che fa la differenza  DCM-011

Osservatore Romano

Bebe Vio ha 28 anni, una laurea in Comunicazione e Relazioni Internazionali, la patente di guida e un elenco di medaglie per scherma in carrozzina che non finisce più. Campionessa mondiale, testimonial dello sport ai massimi livelli, fondatrice, con i genitori, di una Onlus, la Art4Sport, che aiuta i bambini con necessità di protesi a un arto ad averle e a poter praticare ogni sport, Bebe è un’esplosione di vita, di entusiasmo, di energia, di montagne superate o che ha in programma di superare. La guardi, la senti parlare e ti sembra l’incarnazione di chi non si fa fermare da nulla. Come dice il titolo di un suo libro: Se sembra impossibile, allora si può fare (Rizzoli). Eppure – o forse proprio grazie a questo – la sua vita è stata segnata da una malattia che, a 11 anni, le ha reso impossibile quasi tutto quello che, normalmente, pensiamo sia necessario per vivere bene: l’amputazione di tutti e quattro gli arti. Bebe non solo non si è fermata. Ma da quel momento, la sua vita ha iniziato a correre. In tutti i sensi.

Qual è il suo segreto? Perché uno la guarda e dice: vorrei essere così.

Non credo ci sia alcun segreto, è solo che scelgo di guardare le cose in un certo modo. Non è sempre facile, ma se ti concentri su quello che puoi fare, invece che su quello che hai perso, la vita diventa subito più leggera. E poi non sono sola, ho la fortuna di avere intorno a me persone straordinarie!.

Cosa possono insegnare le donne al mondo su come affrontare le sfide apparentemente impossibili?

Le donne sanno rialzarsi, ricominciare, riorganizzarsi e trovare nuove soluzioni. Sono in grado di adattarsi e affrontare le difficoltà senza lasciarsi fermare. Credo che al mondo manchi proprio questo, ovvero la capacità di non farsi limitare da quello che sembra impossibile e andare avanti comunque.

C’è una “sapienza femminile” diversa nel modo di reagire alle avversità? Cosa ha imparato dalle donne che le sono state vicine?

Penso che ci sia un modo femminile di affrontare le difficoltà, più legato all’attenzione, all’intuizione e alla capacità di leggere le situazioni. Nella mia vita ho avuto tanti esempi importanti. Mia madre, mia sorella, le donne della mia famiglia mi hanno insegnato che non serve solo lottare, ma a volte occorre osservare, ascoltare, capire dove mettere le energie e trovare soluzioni pratiche.

In un mondo che spesso sembra impazzito nella corsa alla competizione, quale saggezza pensa sia necessaria per mantenere l’equilibrio?

La vera saggezza oggi è non farsi schiacciare dalla pressione di dover dimostrare qualcosa a tutti in ogni momento. L’equilibrio viene dal ricordarsi perché si fa quello che si fa. Serve grande consapevolezza, in questo senso, per non farsi travolgere.

Tutti parlano di lei come di chi ha “superato i limiti”. Come vive questa immagine che il mondo ha di lei?

I limiti non sono muri, sono uno stimolo a fare meglio, a provare cose nuove, a crescere e capire fino a dove si può arrivare. Il punto fondamentale è affrontarli con curiosità e determinazione.

C’è un punto in cui il superamento dei limiti diventa un’ossessione pericolosa?

Il confine è sottile. Quando il superamento dei limiti diventa l’unica cosa che conta, si smette di essere liberi e si rischia di finire intrappolati in una sorta di “gabbia”. Per me è importante ricordarsi che la libertà autentica viene dal misurarsi con se stessi, non dal cercare l’approvazione degli altri.

Cosa differenzia l’ambizione sana dalla ricerca ossessiva di andare sempre oltre?

L’ambizione sana ti nutre, mentre l’ossessione ti brucia e ti svuota. Il campanello d’allarme scatta nel momento in cui sparisce la gioia nel fare ciò che si ama, lì si capisce che si sta superando il confine e che non ci si sta più ascoltando.

Ha mai sentito il peso di dover sempre superare se stessa agli occhi degli altri?

Io non penso a stupire gli altri, penso a essere vera e a fare le cose con autenticità, dentro e fuori dagli impegni agonistici. Attraverso i progetti che porto avanti e che mi stanno particolarmente a cuore, come l’Associazione art4sport e la Bebe Vio Academy, cerco semplicemente di trasmettere energia, motivazione e strumenti agli altri, mostrando che si può affrontare la vita con coraggio e passione.

Il suo corpo ha subito una trasformazione radicale e traumatica. Come ha fatto i conti con l’idea di perfezione fisica che la società impone, soprattutto alle donne?

Il mio corpo di oggi è mio, per questo lo considero perfetto. Ho capito che la perfezione non è avere un corpo simmetrico o seguire gli standard della società, ma accettarsi e amarsi per ciò che si è e sentirsi in pace con la propria identità.

Nello sport l’ossessione per il corpo perfetto può diventare distruttiva. Lei che ha un rapporto diverso con il suo corpo, cosa pensa di questa ricerca della perfezione?

Nello sport non esiste il corpo perfetto, esiste il corpo che permette di realizzare i propri obiettivi. Il problema arriva se si inizia a considerarlo un nemico, invece che un compagno di squadra.

Il suo corpo racconta una storia di sopravvivenza e rinascita. Pensa che la sua storia possa aiutare altre persone, specialmente giovani donne, a liberarsi dalla tirannia della perfezione estetica?

Spero che la mia esperienza possa far capire soprattutto alle giovani donne che la bellezza non sta nei canoni imposti dall’esterno, ma in come una donna si sente con se stessa. Sentirsi in pace con il proprio essere e con il proprio corpo è quello che ci rende davvero belle e sicure nella vita.

Lei è l’esempio di chi non si è arresa, ma c’è anche stata un’accettazione. Cosa ha dovuto accettare per poi poter ripartire?

Accettare che non sarei tornata “come prima” mi ha permesso di capire che sarei potuta diventare qualcosa che non avevo mai immaginato, scoprendo nuove possibilità dentro di me.

La sapienza sta anche nel riconoscere quando fermarsi?

Dire basta, quando necessario, è un atto di intelligenza e di forza, è saper scegliere con consapevolezza cosa vale la pena fare e cosa no.

Accettare non significa arrendersi: che differenza vede tra questi due atteggiamenti?

Arrendersi significa lasciare che qualcosa ci definisca. Accettare invece vuol dire capire dove ci si trova, riconoscere la realtà, e da lì ripartire. L’accettazione è l’inizio del movimento, non la fine.

Dopo tutto quello che ha passato, dopo aver oltrepassato limiti che sembravano invalicabili, cosa significa per lei “restare umana”?

Non perdere mai la capacità di meravigliarsi, di emozionarsi, di piangere o di ridere, anche quando tutto sembra impossibile. La tecnologia mi permette di fare quello che amo, ma la vera umanità sta nelle emozioni provate e condivise.

In un mondo dove il confine tra umano e artificiale si sfuma, cosa non dovremmo perdere?

Non dobbiamo mai perdere la capacità di prenderci cura degli altri, di ascoltare davvero, di essere generosi ed empatici. Questi valori rappresentano la nostra essenza di esseri umani.

Lei ha letteralmente integrato la tecnologia nel suo corpo: l’umanità può andare oltre il corpo fisico?

Il corpo fisico è imprescindibile, ma è solo una parte di noi. La tecnologia che porto non mi ha tolto nulla, anzi, mi ha dato una grande possibilità. L’umanità però sta soprattutto in quello che si fa e si è nel profondo.

Come vive la sua fragilità? È ancora concesso essere fragili quando tutti ti vedono come un’eroina?

La fragilità va vissuta e accettata, non c’è motivo di nasconderla. Non sono una supereroina, sono una persona. E credo sia importante mostrare che essere forti non significa non cadere mai.

Se dovesse dare un consiglio a una giovane donna che si sente schiacciata dalle aspettative cosa le direbbe?

Non cercare di essere perfetta, cerca di essere te stessa. Il mondo ha bisogno di persone vere, vive, che non hanno paura di sbagliare, guardarsi dentro e ricominciare.

Che peso ha la fede nella sua vita?

Quando penso alla fede, mi torna in mente un ricordo di don Pippo, il mio insegnante di religione. Un giorno, dopo la malattia, mi rivolsi a lui per parlare dei miei dubbi. Mi chiese quali fossero per me le cose belle della vita e io risposi “gli amici, lo sport, la scuola”. Mi disse allora: “Ecco, Dio è in ognuna delle cose belle che fai e che vivi”. Quelle parole mi hanno insegnato che la fede non è solo regole o riti, ma saper vedere il bello intorno a noi, prenderci cura degli altri e trovare senso anche nei momenti difficili.

di Elisa Calessi

art4sport, lo sport come terapia

L’associazione art4sport, ispirata da Bebe Vio, nasce nel 2009 per volontà dei suoi genitori Teresa Grandis e Ruggero Vio con una convinzione forte e luminosa: lo sport può essere una terapia, un ponte tra il corpo e la vita. Sostiene bambini e ragazzi portatori di protesi di arto nel loro percorso di crescita fisica e psicologica, aiutandoli a scoprire nello sport una via di libertà, di forza e di socialità. L’obiettivo è migliorare la qualità della vita dei ragazzi e, insieme, quella delle loro famiglie, offrendo supporto nell’acquisto di protesi sportive e ausili tecnici spesso non coperti dal sistema sanitario. Ma art4sport è molto di più: un laboratorio di energie, un luogo in cui la disabilità si trasforma in potenza. Bebe Vio ne incarna lo spirito: entusiasmo, creatività, fiducia nel cambiamento. Il nome “art for sport” unisce due mondi che si nutrono a vicenda – arte e sport – e nasce dal talento artistico di Bebe, i cui disegni e progetti hanno ispirato la creazione di magliette e gadget per sostenere le attività dell’associazione.

Figli, non fotocopie: la guida per i genitori tentati dal “percorso perfetto”

Una ragazza davanti al bivio della scelta dell'università

Avvenire

Quando si pone la domanda a Google appare subito una sfilata di almeno venti e più siti che propongono investimenti, piani assicurativi, consigli pratici per il risparmio guidato. Come se per preparare il futuro dei nostri figli la prima e unica preoccupazione fosse di natura economica. Desolante deriva di una mentalità, purtroppo ben radicata, secondo cui, una volta sistemato il conto in banca, tutto il resto arriva di conseguenza. Sarebbe troppo facile. Tutti i genitori che hanno fatto crescere i loro figli, li hanno accompagnati alla laurea, al primo lavoro, alle prime esperienze da adulti, sanno bene che non è così, non è “solo” così. Non significa che gli aspetti economici non esistano e non siano, nella maggior parte dei casi, fonte di preoccupazione. I soldi servono, eccome. Ma non bastano. C’è altro, molto altro. Eppure troppo spesso anche l’associazionismo familiare concentra su questo aspetto la maggior parte delle sue rivendicazioni. Gli studi sul “costo dei figli” sono una delle passioni preferite di quegli studiosi – sociologhi, economisti e altro – che da decenni si battono per dimostrare che le politiche familiari riservano ai nuclei con figli soltanto le briciole e che, una volta invertita la tendenza – semmai si riuscirà – le famiglie riprenderanno a prosperare, a fare tanti figli, ad azzerare i conflitti, a risolvere le tante emergenze educative, ad aggirare senza difficoltà i contrasti generazionali e quelli con le famiglie d’origine. Possibile? No, certamente, come dimostrano le esperienze di altri Paesi occidentali, come Francia e Germania che, pur molto più generosi di noi sul piano delle politiche familiari, si trovano a confrontarsi con gli stessi drammatici problemi esistenziali e di senso. Tra cui quello relativo al ruolo dei genitori nell’accompagnare, guidare, orientare le scelte dei figli con tante altre domande correlate: come attrezzarli per affrontare le tante sfide di una società sempre più complessa? Come preparare il loro futuro? Come offrire loro le migliori opportunità in una logica di buon senso e di rispetto? Il buon senso rimanda alle disponibilità – economiche, esperienziali, conoscitive e tanto altro – che ciascuna famiglia può mettere in campo. Il rispetto lo si deve innanzi tutto ai figli ma poi anche alla storia personale di ciascun genitore che non può essere del tutto cancellata. Un bilanciamento difficile ma che va sempre fatto con attenzione e umiltà. Vediamo come.

Dove fermarsi per evitare il rischio fotocopia sbadita?

Ogni genitore, alla nascita dei figli, si misura con un duplice rischio. Il primo è quello di sognare per loro un futuro ricalcato e modellato sulle proprie esperienze. Il ragionamento è più o meno questo: se noi abbiamo già tracciato la strada e se quello sforzo è costato tanti sacrifici, perché mai i nostri figli non dovrebbero calpestare le nostre orme, ripetere il percorso che noi abbiamo già compiuto? Si risparmierebbero molte fatiche e il nostro impegno non sarà stato vano. All’opposto c’è la tendenza che sottolinea il dono inestimabile della libertà e l’impegno a concedere loro tutto lo spazio possibile perché possano fare le esperienze più opportune, anche quando ciò dovesse costare il loro allontanamento dai nostri schemi mentali. È un confine sottile, a cui occorre guardare senza schemi prefissati, senza stereotipi, senza preconcetti. Perché è facile cadere nell’illusione di accompagnare un figlio in modo libero e, allo stesso tempo, fornirgli tutta una serie di condizionamenti involontari ma fin troppo espliciti. Come è altrettanto facile, nella convinzione che il futuro migliore per loro sia quello che noi prepariamo, immaginare che ogni variazione sul tema si possa tradure nel rischio di un fallimento. Il condizionamento è una tentazione lieve, persistente, che si infiltra leggera in mille discorsi e in mille esempi, fin da quando i figli sono piccoli. Le situazioni possono davvero essere infinite. Mio padre è stato un buon calciatore tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta. Giocava come difensore centrale – la definizione dell’epoca era centromediano – nella Pro Patria di Busto Arsizio che allora arrivò a disputare alcuni campionati di serie A. I ricordi della mia infanzia sono popolati e talvolta tormentati dal racconto dei duelli affrontati da mio padre con alcuni tra i grandi centravanti dell’epoca, a cominciare da Silvio Piola, attaccante mitico della Juve e della Nazionale. Quella storia da bambino la ascoltai decine e decine di volte con un risultato fin troppo scontato. Anch’io avrei giocato a calcio e anch’io sarei stato un difensore implacabile come mio padre. Cosa che infatti si verificò fino ai 13-14 anni quando, per opposizione adolescenziale, scelsi di dedicarmi al basket, con silenziosa disapprovazione e tacita delusione del papà. Ma io non volevo diventare una sua “fotocopia sbadita” e non potevo accontentarmi di ripetere quello che lui aveva già fatto, senza peraltro sperare di eguagliare i suoi successi. Non capita sempre così, naturalmente. Esistono grandi sportivi che hanno ricalcato al meglio le orme dei padri. Come esistono ottimi medici, avvocati, architetti, giornalisti, imprenditori che hanno raccolto l’eredità di famiglia e sono pienamente soddisfatti di aver proseguito nella tradizione che era stata per loro preparata. E allora? Quali sono gli elementi che concorrono a rendere opportuno una strada piuttosto che un’altra? Dov’è il confine tra educazione e condizionamento? Vediamo di capire.

Ma quando il passato della famiglia è troppo pesante?

Diciamo subito che anche in ambito educativo non esistono comportamenti asettici. Non sarebbero neppure umani. Ogni genitore non trasmette solo saperi e valori, ma anche storia, esperienze, vissuti. Anche errori, naturalmente. Anche visioni della vita che, più o meno esplicitamente, influenzano anche molto problematicamente il destino dei figli. Nella grande stagione delle ideologie tanti ragazzi si schierarono da una parte e dall’altra delle barricate – i “rossi” e i “neri” – perché già i genitori o un altro membro della famiglia militava in quella fazione. Ho frequentato il liceo nella prima metà degli anni Settanta, periodo caldissimo di tensioni e di divisioni. Nella nostra classe, tra una maggioranza di simpatizzanti di sinistra, alcuni più accesi, altri più o meno tiepidi, c’era S. un ragazzo il cui padre, reduce delle formazioni fasciste di Salò, ricopriva un ruolo importante nella sezione provinciale del Msi. Tutti lo sapevano e tutti consideravano inevitabile che quel ragazzo fosse di destra. Non ci furono mai grandi scontri, ma era considerato quasi normale che lui si opponesse sempre alle proposte dei vari collettivi legati alla cosiddetta sinistra extraparlamentare con manifesti alternativi che, affissi accanto a quelli partoriti dalle frequentissime assemblee studentesche – ogni due o tre giorni le lezioni si bloccavano per i più diversi motivi – resistevano pochi minuti e poi finivano regolarmente in mille pezzi. Quando nel novembre 1975 morì Francisco Franco, si presentò in classe con il lutto al braccio e il professore di latino, che aveva un passato partigiano, lo pose di fronte una semplice alternativa: togliere quella fascia nera o uscire dalla classe. Lui, in silenzio, senza clamori, prese la porta e rimase tutta la mattina in corridoio. Un gesto estremo ma che, come apparve a tanti di noi – pur nel dissenso sulle convinzioni politiche – aveva una sua intrinseca dignità, come una risposta inevitabile, normale per uno come lui, con quel padre così ingombrante. Come se il suo destino, le sue scelte, le sue decisioni non potessero in alcun modo prescindere da quel passato, da quella famiglia che aveva finito per condizionarlo a tal punto da non offrirgli alcuna via d’uscita se non quella rappresentata dalla fedeltà ad oltranza. L’anno successivo S. non si presentò più in classe, si trasferì a Roma e di lui non ho più saputo nulla. Ma, ripensando alle scelte di tanti ragazzi di quegli anni, ho capito che la sua condizione era tutt’altro che inconsueta. Il passato, in modi diversi e con intensità variabile, non è mai un viatico semplice e neppure asettico in qualsiasi processo educativo. Si può accettarlo e rifiutarlo, nella consapevolezza che ogni scelta comporta aspetti positivi e negativi. Pensiamoci, noi genitori, quando siamo convinti di aver “suggerito” la strada migliore per costruire il futuro dei nostri figli.

Quando occorre fermarsi e rispettare le scelte dei nostri figli?

Facilissimo rispondere in linea teorica. Meno agevole affrontare in modo sereno le varie questioni quando si presentano nella realtà. Diciamo subito che mai, in nessun caso, esiste una scelta – pilotata o autonoma – che possa mettere al riparo un figlio dalle incertezze e dalle sorprese. Nel lungo percorso educativo che ci porta a traghettare un ragazzo o una ragazza dall’infanzia all’età adulta, il fallimento totale o parziale è sempre un’ipotesi da considerare. Ma dobbiamo considerare che da qualsiasi fallimento – anche il peggiore – ci si può rialzare. E che non è mai opportuno ricercare in modo ossessivo colpe, carenze, errori educativi. Tutti noi genitori qualche volta sbagliamo, tutti in buona fede abbiamo talvolta esagerato nel caricare una scelta di significati particolari e decisivi, talvolta nell’alleggerirla a tal punto da farla apparire trascurabile e insignificante. Solo più tardi, di fronte a un esito inatteso, ci siamo accorti di quanto le nostre parole e il nostro atteggiamento siano stati determinanti nell’orientare i comportamenti dei nostri figli. «Accidenti, se avessi parlato in modo diverso, se fossi stato più incisivo nel sottolineare questo aspetto, nel metterlo in guardia da questo o quel pericolo, le cose sarebbero andate in modo diverso». Succede per le piccole e per le grandi questioni ma, guarda caso, riusciamo a mettere a fuoco il problema solo a posteriori. A dimostrazione che qualsiasi percorso educativo, anche il più meditato e il più “cautelato”, ha sempre risvolti imponderabili, esiti che si riescono a individuare con precisione sono nel tempo. «Abbiamo scelto per nostro figlio la scuola migliore, quella più costosa e meglio frequentata, abbiamo cercato di dargli tutto il possibile, l’abbiamo tenuto al riparo da amicizie inopportune e questo è il risultato. Ma cosa abbiamo sbagliato?». Stiamo generalizzando, evidentemente, ma sono domande che in modi diversi tutti i genitori qualche volta si sono posti. La risposta più semplice e più scontata, anche se non sempre è facile convincersene, è che non abbiamo sbagliato proprio nulla. Perché in quel momento, in quella circostanza, in quella condizione specifica abbiamo dato a nostro figlio il suggerimento che ci appariva più opportuno, il più saggio – apparentemente – oppure il meno rischioso. E il fatto di averlo convinto a seguire la nostra opinione ha determinato un risultato inferiore alle attese? Se avesse fatto di testa sua tutto sarebbe andato meglio? Sono domande senza risposta. Né noi genitori né i nostri figli disponiamo di una vita di riserva, in cui realizzare un ipotetico “piano B”, ma questo non significa che quanto avvenuto nella realtà sia da considerare sempre e solo sbagliato.

E quando la scelta dei genitori è “sbagliata”, chi può intervenire?

Finora abbiamo ragionato insieme su scelte ordinarie, quelle che si prendono in ogni famiglia che si interroga sul futuro dei propri figli. Ma esistono anche situazioni limite, casi in cui i genitori scelgono per i propri figli percorsi considerati azzardati oppure talmente estremi da suscitare perplessità e sollevare proteste. Il caso più clamoroso è quello di cui stiamo discutendo da giorni, anche su questi spazi, quello della “famiglia nel bosco”. Fino a che punto due genitori hanno il diritto di pretendere che i figli seguano le proprie convinzioni, anche quando si tratta di scelte tanto radicali da apparire in contrasto – secondo i giudici minorili – con alcuni diritti fondamentali dei bambini, come la scolarizzazione e la socializzazione? Ma anche quello di vivere in ambienti per quanto possibili salubri e confortevoli. Nella casetta del bosco senza acqua corrente, senza gas, senza elettricità, senza contatti quotidiani con il resto del mondo tutte queste condizioni erano assicurate? Il dibattito andrà avanti ancora lungo e non è questa la sede per tornare sulla questione. Ma l’esempio ci pare opportuno per riflettere su un ipotetico conflitto di diritti – quelli dei genitori e quelli dei figli – che, anche se in modo meno drammatico, si pone in qualsiasi scelta educativa. Proviamo a pensarci con un esempio in cui tante mamme e tanti papà si ritroveranno. I genitori che ogni giorno accompagnano il figlio o la figlia alla lezione di tennis e che insistono, anche di fronte alle ritrosie e alle resistenze dei loro ragazzi, perché l’impegno sia sempre ai massimi livelli, perché non si perda neppure un istante, perché le indicazioni del maestro anche per quanto riguarda tempi di riposo, alimentazione e abbigliamento vengano seguite con assoluto scrupolo, stanno davvero contribuendo a costruire il futuro dei loro figli o stanno solo inseguendo un sogno? Certo, l’esempio di Jannik Sinner e di altri campioni di quel livello nei diversi sport può apparire fuorviante. Se i loro genitori non avessero insistito e non si fossero mostrati fermi negli inevitabili momenti di stanchezza che ogni ragazzo prima o poi deve affrontare, avremmo avuto ugualmente atleti capaci di vincere trofei mondiali e di accumulare tanti premi milionari? Possiamo chiedercelo, certamente, ma dobbiamo essere consapevoli che la risposta non esiste. Anche perché, per pochi campioni che esplodono a livello internazionale, ci sono migliaia e migliaia di ragazzi che, nonostante l’impegno e la dedizione, loro e dei loro genitori, rimangono nell’anonimato e finiscono per abbandonare lo sport agonistico. Hanno sprecato il loro tempo? Avrebbero potuto dedicarsi più utilmente ad altre attività, lo studio innanzi tutto? Facile dirlo quando tutto è già chiaro e definito. Ma prima? Esistono elementi che dovrebbero indurci ad abbracciare questa o quella soluzione? A nostro parere, se proprio vogliamo trovare un criterio per capire quando è opportuno insistere e quando invece è meglio fermarsi, potremmo indicare tre elementi: consapevolezza, soddisfazione, risultati. Il primo punto può essere sintetizzato nell’invito alla riflessione che ogni genitore, di fronte a qualsiasi scelta impegnativa, deve sempre rivolgere ai figli con l’obiettivo di valutare insieme vantaggi e svantaggi, di informarli sulle possibili conseguenze, di valutare “se ne vale la pena”. Il secondo riguarda l’aspetto psicologico e punta a verificare gli esiti emozionali di un determinato impegno: è contento? Ha un rapporto sereno con l’istruttore e con gli altri compagni? Mostra un desiderio reale di prendere parte alla lezione o all’allenamento, oppure lo fa soltanto per non deludere noi genitori? Stesso discorso per i risultati che non vanno intesi soltanto nel senso del successo sportivo. Si può vincere anche quando si perde, si può crescere dentro anche con un esito tecnico sfavorevole se abbiamo avuto l’accortezza di dare la preferenza agli aspetti umani, dall’amicizia alla condivisione, dal rispetto alla lealtà. Certo, tutte queste indicazioni vanno poi calate nella realtà, adattate alle diverse situazioni della vita, senza mai dimenticare che noi genitori non siamo onnipotenti. Anche le mamme più attente e più impegnate, anche i padri più presenti e più lungimiranti sanno che, a un certo punto della vita, i figli cammineranno con le proprie gambe e non potremmo essere sempre presenti per indicare loro il cammino. Le scelte a cui avremmo saputo indirizzarli, anche quelle segnate da condizionamenti, da esperienze negative o più semplicemente dalle tante e imponderabili circostanze della vita, certamente peseranno. Ma peserà anche la carica di bene e di positività che avremmo saputo costruire, al di là dell’esito finale, con il nostro impegno e il nostro amore. E quello nessuno potrà mai cancellarlo nel cuore dei nostri figli. Il resto, con l’aiuto del Cielo, toccherà a loro.

Il germoglio del Concilio, sessant’anni dopo. L’annuncio della fede e la coscienza di una Chiesa che sa di non risplendere di luce propria

Il Concilio Vaticano II

di Andrea Tornielli

In una memorabile omelia, pronunciata l’11 maggio 2010 a Lisbona, Benedetto XVI aveva osservato: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia e ciò, purtroppo, è sempre meno realista”. È proprio questa constatazione, che fa i conti con la realtà della secolarizzazione e della scristianizzazione, all’origine del Concilio Ecumenico Vaticano II di cui abbiamo appena celebrato il sessantesimo anniversario dalla sua conclusione. Già in molti, dentro la Chiesa, fin dai primi anni del Novecento, avevano avvertito la difficoltà crescente nella trasmissione della fede nelle società della prima evangelizzazione, quelle della cosiddetta “cristianità”. Una difficoltà che non si scontrava di per sé con un’avversione aperta e frontale al cristianesimo, quanto piuttosto con un disinteresse. È la percezione acuta che ha l’arcivescovo Giovanni Battista Montini quando a metà degli anni Cinquanta arriva a Milano e si ritrova a fare i conti con ambienti sempre più impermeabili e distaccati rispetto all’annuncio evangelico: quello operaio, quello della finanza, quello dell’alta moda. La grande domanda, che sta all’origine della coraggiosa decisione di Giovanni XXIII di indire il Concilio, e della sapiente conduzione di Paolo VI che compie il miracolo di portarlo a conclusione praticamente all’unanimità, è dunque una sola: come si torna ad annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi? Era evidente, allora, che la “cristianità”, caratterizzata da società imbevute di cultura cristiana in ogni loro espressione, era al tramonto, e che la trasmissione della fede aveva bisogno di linguaggi nuovi per riscoprire ciò che è davvero essenziale e per testimoniarlo al mondo.

Nei decenni successivi alla conclusione del Vaticano II i suoi effetti sono stati al centro di dibattiti e polemiche ideologiche, molte delle quali non ancora sopite, tra chi imputa al Concilio la crisi della Chiesa e la stessa scristianizzazione, e chi pensa che la soluzione sia adattarsi al mondo. I primi non si accorgono che la crisi era cominciata ben prima del 1962 e continuano a inseguire il sogno di un’impossibile restaurazione, offrendo l’immagine di una Chiesa assediata la cui unica difesa è quella di chiudersi in un fortino. I secondi vagheggiano riforme partorite a tavolino dagli esperti per adattarsi ai cambiamenti della società ma che non partono dall’esperienza quotidiana del popolo santo di Dio.
Ciò che l’ultimo concilio ha insegnato e che si ritrova nel magistero dei Successori di Pietro dal 1965 a oggi, è ben sintetizzato nelle prime righe della Costituzione dogmatica Lumen gentium: “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa”. Si ritrova qui, un nucleo centrale che non si può mai dare per scontato nell’agire ecclesiale, neanche in quello post-conciliare, neanche in quello dei giorni nostri. La Chiesa non risplende di luce propria, non irradia una luce propria, non è la fonte dell’annuncio. La Chiesa può soltanto cercare di essere trasparente, cioè di far trasparire, balenare, la luce di Cristo. È la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa.

Questa constatazione, così evidente nel magistero dei Padri della Chiesa, è densa di conseguenze. Una Chiesa che sa di non essere la fonte né la “padrona” della fede, fugge infatti ogni autosufficienza e autoreferenzialità, non vive con lo sguardo rivolto al passato, non cerca il puntello dei potenti di turno, non cerca di imporre la fede, non la fa consistere nelle regole, nelle tradizioni, nelle strategie o nei progetti umani, sa riconoscere le proprie inadeguatezze chiedendo perdono, dialoga con tutti nella libertà, va alla ricerca del Volto del suo Signore lasciandosi evangelizzare dai lontani e lo riconosce là dove liberamente si manifesta. Vive la misericordia, l’accoglienza, la vicinanza ai poveri e agli scartati, l’impegno per la pace e la giustizia come un modo per essere sale della terra e far risplendere la luce di Cristo nel mondo, testimoniando la logica di un Dio che – ci ha ricordato Leone XIV nella cattedrale di Istanbul lo scorso 28 novembre – “ha scelto la via della piccolezza per discendere in mezzo a noi”, che “non si impone attirando l’attenzione” e che dunque non ha bisogno dei nostri proclami, delle nostre invettive o delle nostre strategie per farsi conoscere. Parlando del Regno di Dio e del modo in cui si manifesta in Gesù Cristo, il Vescovo di Roma all’Angelus del 7 dicembre scorso ha detto: “Il profeta Isaia lo paragona a un germoglio: un’immagine non di potenza o di distruzione, ma di nascita e di novità. Sul germoglio che spunta da un tronco apparentemente morto, inizia a soffiare lo Spirito Santo con i suoi doni. Ognuno di noi può pensare a una sorpresa simile che gli è capitata nella vita. È l’esperienza che la Chiesa ha vissuto con il Concilio Vaticano II, che si concludeva proprio sessant’anni fa: un’esperienza che si rinnova quando camminiamo insieme verso il Regno di Dio, tutti protesi ad accoglierlo e a servirlo. Allora non soltanto germogliano realtà che parevano deboli o marginali, ma si realizza ciò che umanamente si sarebbe detto impossibile”.

Questa Chiesa che vive nel mondo il mistero di Cristo, è già in atto in tante persone e comunità, come ci testimoniano le storie di speranza emerse in quest’anno giubilare. Sessant’anni dopo siamo ancora alle fasi iniziali del percorso che il Concilio ci ha indicato e che siamo tutti chiamati a far germogliare.

Vatican News

Parola di Dio del giorno 11 Dicembre 2025

Dal libro del profeta Isaìa
Is 41,13-20

Io sono il Signore, tuo Dio,
che ti tengo per la destra
e ti dico: «Non temere, io ti vengo in aiuto».
Non temere, vermiciattolo di Giacobbe,
larva d’Israele;
io vengo in tuo aiuto – oràcolo del Signore -,
tuo redentore è il Santo d’Israele.
Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova,
munita di molte punte;
tu trebbierai i monti e li stritolerai,
ridurrai i colli in pula.
Li vaglierai e il vento li porterà via,
il turbine li disperderà.
Tu, invece, gioirai nel Signore,
ti vanterai del Santo d’Israele.
I miseri e i poveri cercano acqua ma non c’è;
la loro lingua è riarsa per la sete.
Io, il Signore, risponderò loro,
io, Dio d’Israele, non li abbandonerò.
Farò scaturire fiumi su brulle colline,
fontane in mezzo alle valli;
cambierò il deserto in un lago d’acqua,
la terra arida in zona di sorgenti.
Nel deserto pianterò cedri,
acacie, mirti e ulivi;
nella steppa porrò cipressi,
olmi e abeti;
perché vedano e sappiano,
considerino e comprendano a un tempo
che questo ha fatto la mano del Signore,
lo ha creato il Santo d’Israele.

Vangelo del Giorno
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,11-15

In quel tempo, Gesù disse alle folle:
«In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.
Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono.
Tutti i Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elìa che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti!».