58ª Marcia Nazionale per la pace – 31 dicembre 2025

58ª Marcia Nazionale per la pace. Catania, 31 dicembre 2025 |  focolaritalia.it
“La pace sia con tutti voi: verso una pace disarmata e disarmante” è il titolo del Messaggio di Papa Leone XIV per la celebrazione della 59ª Giornata Mondiale della Pace – 1° gennaio 2026
18 Dicembre 2025

In occasione della 59ª Giornata Mondiale della Pace, come di consuetudine, la Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, Azione Cattolica Italiana, Acli, Agesci, Caritas Italiana, Movimento dei Focolari Italia, Libera e Pax Christi Italia, promuovono la Marcia per la pace, giunta alla 58ª edizione, che avrà luogo il 31 dicembre 2025 nella diocesi di Catania.

La Marcia prende il via alle ore 15.30 con il ritrovo a Piazza Stesicoro con la musica del complesso Ro’ la Formichina.
Alle ore 16.00 incomincia il cammino su 5 tappe per giungere alla Chiesa di San Benedetto dove alle ore 21:00 si terminerà con la Santa Messa trasmessa su TV2000.

NOTA PASTORALE “Educare a una pace disarmata e disarmante”

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  • Messaggio del Santo Padre Leone XIV
  • Manifesto (per la stampa)
  • Manifesto (per il web)
  • Card per i social
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  • Convegno in preparazione (30 e 31 dicembre a Catania presso il Museo diocesano)

INIZIATIVE NAZIONALI E DIOCESANE

  • ACLI NazionaliLa Carovana della Pace, partenza il 2 settembre da Palermo e arrivo a Strasburgo il 15 dicembre per attraversare 57 città
  • CagliariLa mozione del Comune. Città di dialogo
  • Massa Carrara 5/8: Tavola Rotonda “Scegliere la pace”
  • 1-3/9 a Frascati: Seminario Nazionale su “Educare alla pace in tempi di guerra”
  • cei

Lettura e Vangelo del giorno 25 Dicembre 2025 Natale del Signore

Letture del Giorno

Prima Lettura

Dal libro del profeta Isaìa
Is 52,7-10

Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.

Seconda Lettura

Dalla lettera agli Ebrei
Eb 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

Vangelo del Giorno

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 1,1-18

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

Natale del Signore

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Solennità
Trascorsi molti secoli dalla creazione del mondo, quando in principio Dio creò il cielo e la terra e plasmò l’uomo a sua immagine; e molti secoli da quando, dopo il diluvio, l’Altissimo aveva fatto risplendere tra le nubi l’arcobaleno, segno di alleanza e di pace; ventuno secoli dopo che Abramo, nostro Padre nella fede, migrò dalla terra di Ur dei Caldei; tredici secoli dopo l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto sotto la guida di Mosè; circa mille anni dopo l’unzione regale di Davide; nella sessantacinquesima settimana secondo la profezia di Daniele; all’epoca della centonovantaquattresima Olimpiade; nell’anno settecentocinquantadue dalla fondazione di Roma; nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto, mentre su tutta la terra regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo con la sua piissima venuta, concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, fatto uomo: Natale di nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne.

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). L’Incarnazione è un dialogo di prossimità

L’Incarnazione è un dialogo di prossimità

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Ogni anno il Natale ripropone questo annuncio, e ogni anno rischiamo di ascoltarlo come un evento remoto, accaduto una volta per tutte in un luogo lontano. Eppure, la formula giovannea non descrive solo un fatto storico: indica una struttura permanente della vicinanza. Il Verbo non attraversa lo spazio per raggiungerci dall’esterno, non getta un ponte tra il cielo e la terra: viene ad abitare, si fa interno a ciò che già siamo. La Parola, prima di essere pronunciata, accade — e accade precisamente là dove meno ce l’aspettiamo: nel mezzo, nello spazio che credevamo vuoto tra noi e l’altro.
È forse per questo che il Natale, nella sua essenza, non parla anzitutto di un Dio che finalmente si comunica, ma di una comunicazione che scopriamo già in atto, di una presenza che non doveva essere costruita perché era già operante. La domanda, allora, non riguarda il come del dialogo, ma il dove: dove accade realmente la parola che ci raggiunge? Dove si colloca quella voce che, nei momenti di autentica comprensione, sentiamo non appartenere interamente né a noi né all’altro?
È una domanda che attraversa la storia del pensiero occidentale, ma che trova una formulazione sorprendente — e sorprendentemente sobria — in un testo del Cinquecento spagnolo. Nel ventinovesimo capitolo del Cammino di perfezione, Teresa d’Avila si rivolge alle monache del suo monastero per insegnare loro a pregare senza sforzo e senza artificio. A un certo punto scrive: «Se parla, dovrà ricordarsi che l’interlocutore è presente in se stessa; se ascolta, dovrà ricordarsi di dover ascoltare una voce più vicina».
“Se parla”, “se ascolta”: non atti straordinari, ma le operazioni più quotidiane dell’esistenza. È proprio in esse che Teresa scorge qualcosa che abitualmente ci sfugge: l’interlocutore non va cercato altrove, non va costruito attraverso uno sforzo di interiorizzazione. È già presente, più vicino di qualunque contenuto mentale. Come il Verbo giovanneo, la “voce più vicina” di Teresa non colma una distanza: rivela che la distanza era illusoria.
Teresa parla a chiunque abbia fatto esperienza del fatto che la parola, prima di appartenere a qualcuno, accade. Chi ha vissuto un dialogo autentico sa che i momenti di reale comprensione non sono quelli in cui si riesce a “trasferire” il proprio pensiero nella mente dell’altro, ma quelli in cui qualcosa emerge che nessuno dei due aveva previsto, come se la conversazione attingesse a una sorgente che né l’uno né l’altro possedevano in partenza. E se la solitudine fosse già abitata? Forse il dialogo non comincia quando decidiamo di aprirci, ma quando smettiamo di difenderci da una vicinanza che era già lì.
Nell’esperienza quotidiana tendiamo a concepirci come territori distinti, dotati di un interno da custodire e di confini da sorvegliare. Questa rappresentazione introduce un errore silenzioso: ci porta a immaginare l’incontro come un ponte tra due interiorità chiuse, quasi che ciascuno dovesse prima presidiare il proprio perimetro e solo poi decidere se aprirlo. Nel vissuto, questa impostazione rende difficile riconoscere che molte delle esperienze che consideriamo più intime emergono da un fondo umano che non è mai interamente nostro.
Quando attraversiamo momenti di intensità o di chiarezza improvvisa, li viviamo come eventi profondamente personali. Nonostante ciò, queste esperienze non si lasciano mai possedere del tutto, come se portassero con sé un’origine che non coincide con la nostra biografia. C’è in esse qualcosa di impersonale — non nel senso della freddezza, ma nel senso di una comune possibilità di accadere che ci precede.
L’errore più diffuso nasce dal modo in cui intendiamo l’interiorità: trattandola come uno spazio recintato da proteggere. In questa prospettiva, parlare diventa un atto di trasferimento, come se dovessimo estrarre qualcosa dal nostro territorio per consegnarlo all’altro. Ma quando riconosciamo che ciò che chiamiamo interno non è un possesso esclusivo, bensì una modulazione singolare di un fondo comune, il dialogo cambia natura: non espone un interno, rende visibile una continuità che era già operante.
Nel vissuto, questa esperienza è riconoscibile quando, parlando con qualcuno, sentiamo che le parole non appartengono pienamente né a noi né all’altro, come se affiorassero da una zona intermedia che nessuno dei due controlla. Il continuum umano introduce un’asimmetria radicale: ciò che parla non coincide mai completamente con chi parla. Lo avvertiamo quando ciò che diciamo ci sorprende, o quando le parole dell’altro risuonano in noi non come informazioni nuove, ma come riconoscimenti inattesi.
Riconoscere il continuum umano non significa dissolvere i soggetti in un indistinto, ma abitare una dimensione in cui la differenza non è separazione assoluta. Molti ostacoli al dialogo nascono dalla paura di perdere se stessi, come se aprirsi al comune comportasse una dissoluzione. In realtà, ciò che viene messo in questione non è la singolarità, ma l’illusione della sua autosufficienza. Quando questa illusione cade, il dialogo può emergere come esperienza in cui ciò che ci attraversa prende parola — non per annullare gli io, ma per mostrarli come punti di passaggio di un umano che li precede e li eccede.
Esiste un momento, nel dialogo autentico, in cui qualcosa tace: non il discorso, ma la domanda su chi stia parlando. La parola smette di essere un possesso da esibire e diventa puro transito — attraversamento di una voce che non appartiene a nessuno perché non è appropriabile da nessuno. L’umano, allora, non è ciò che ciascuno custodisce nel proprio recinto, ma ciò che accade tra noi, prima ancora che esistano un io e un tu da separare. Il dialogo, nella sua forma più propria, non crea ponti tra isole: rivela che le isole sono sempre state penisole, prolungamenti di una terra comune che il mare dell’abitudine ci aveva fatto dimenticare.
In questa prospettiva, il compito più difficile non è costruire la comunicazione, ma smettere di ostacolarla. Giovanni, Teresa, e — quattro secoli dopo — una poetessa americana hanno detto, ciascuno a suo modo, la stessa cosa: la parola autentica non è quella che produciamo, ma quella che ci trova già in ascolto. Quando la pretesa di possesso si ritrae, ciò che resta non è il silenzio, ma una forma di colloquio già in atto. Come scrive Sylvia Plath: «Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio».
Avvenire

I bambini per strada, le luci, i turisti: Natale a Betlemme, che s’è rialzata

Donne fanno acquisti davanti a una gigantesca stella e a un albero di Natale, sullo sfondo il muro della Basilica della Natività

Avvenire

Fino a sera i bambini si rincorrono nella piazza della Mangiatoia, dando con gioia calci a un pallone. Intorno, i carretti degli ultimi ambulanti continuano a esalare i fumi del mais; sotto i portici, i proprietari dei negozi di souvenir si ostinano a restare seduti sulla soglia o chiudono lentamente i battenti. I poliziotti parlano e scherzano, mentre un turista si contorce nel tentativo di cogliere nella stessa inquadratura la compagna, il Presepio, il grande albero di Natale e l’oro silenzioso della Basilica della Natività. È la Betlemme della vigilia, con la sua luce mite e antica che torna ad affiorare dopo oltre due anni di guerra e oscurità. Ora la piazza si riempie di lingue diverse, di passi, di giornalisti affannati. «Hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est», si legge nel cerchio della stella a quattordici punte che indica il luogo della grotta dove nacque il Messia, a poche spanne dallo spazio che ospitò la mangiatoia, sotto l’altare maggiore della Basilica. Johnny, guida turistica locale, si addentra nella simbologia della stella e poi, più prosaicamente, annuncia: «Siete fortunati, qui in condizioni normali è difficile anche farsi fare una foto». Il suo sparuto gruppo di pellegrini è composto da cinesi, sudcoreani, americani. «È il mio quinto lavoro in due anni, temo che passato il Natale sarà tutto finito», aggiunge, mentre aiuta una signora a rialzarsi dalla posa.
È un sentimento che pervade la città, come tutta la Cisgiordania trascinata in un nuovo girone di miseria e di lutto dal conflitto di Gaza e dal conseguente inasprimento dell’occupazione israeliana. Imprigionata dai check-point, privata dei pellegrini, Betlemme è stata per due anni un deserto. La fragile tregua iniziata in ottobre ha però facilitato i movimenti: come una breve pioggia su un terreno arido, ha nutrito l’insopprimibile istinto alla rinascita. Luce, dunque, e ombre. «Siamo circondati da 134 barriere. L’economia della città, che dipende all’80 per cento dal turismo, è collassata. La disoccupazione ha raggiunto il 65 per cento. Chi può emigra. Ma abbiamo deciso di riaccendere lo spirito del Natale, nonostante le difficili condizioni. Le persone devono poter immaginare un futuro. Voglio che Betlemme mandi il messaggio giusto al mondo: sosteneteci, sostenete la Palestina, la giustizia. Solo con la giustizia potremo ottenere una pace durevole», spiega ad Avvenire Maher Canawati, il sindaco cristiano della città. Dopo la visita in Vaticano di settembre, papa Leone gli ha inviato una lettera, letta pubblicamente il 6 dicembre, il giorno dell’accensione dell’albero.
«In questi giorni ci sono stati centinaia di turisti, gli alberghi hanno riaperto, i ristoranti hanno ricominciato a lavorare. L’Autorità Palestinese ci sta aiutando a rendere le strade sicure. Betlemme è viva, abbiamo risposto», afferma Canawati. Oggi la piazza della Mangiatoia ospita parate, canti, danze, una grande festa che culminerà con la Messa di mezzanotte celebrata dal patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, appena rientrato da Gaza. Uno spettacolo per i betlemiti e per il mondo, per i suoi popoli e i loro governi, chiamati a discernere fra distruzione e giustizia, verità e oblio, redenzione e tenebra, mentre restano spettatori dell’immensa solitudine delle vittime. Nel campo profughi di Aida, alla periferia di Betlemme, una piccola bicicletta prende velocità in discesa; la ruota s’incastra in una crepa dell’asfalto logoro e lo scolaro rovina a terra. Sopraggiungono i compagni, lo rincuorano. Si rialza con una smorfia rigida, sintesi di pianto e orgoglio. Il Natale arriva anche qui, dove la tendopoli del 1950 è diventata un asfittico labirinto di edifici irregolari, poveri carruggi segnati dai murales di pace e resistenza, circondati dal grande muro di separazione, dalle sue torrette occhiute e da un’area di addestramento dell’esercito israeliano che dista pochi metri dall’ingresso del campo: un grande buco di serratura sovrastato da una chiave, simbolo delle case perdute nella Nakba del 1948 e del mai sopito desiderio di ritorno.
Le scuole, i centri educativi, le Ong organizzano attività culturali e ludiche per bambini e adolescenti, coinvolgendoli nel colore della festa natalizia, oltre il grigiore del cemento. «Siamo qui da 77 anni, in uno spazio ormai senza regole. L’esercito israeliano entra quando vuole, terrorizza, arresta. Nessuno riesce a proteggerci, né l’Autorità Palestinese né la comunità internazionale. Ma dobbiamo preservare la nostra umanità: continuiamo a resistere come se l’occupazione non ci fosse. Non possiamo vivere nella paura. Loro fanno il loro peggio, noi il nostro meglio. Loro distruggono, noi creiamo», spiega nel suo ufficio Abdel Fattah Abu Srour, fondatore di al-Rowwad, centro culturale che ha scelto teatro, musica e danza come forme di resistenza nonviolenta. Negli ultimi mesi il centro ha dovuto destinare molte energie alla distribuzione di beni di prima necessità: fra i settemila abitanti, la disoccupazione supera il 75 per cento. Abu Srour chiama sumud la natura profonda dell’animo palestinese: perseveranza, capacità di sopportazione, resistenza ostinata. Un altro esempio vive nella selva di souvenir e articoli religiosi del Nativity Store, situato a «cinque metri da dove è nato Gesù», racconta con entusiasmo Rony Tabash, erede di una lunga tradizione. «Mio nonno ha aperto il negozio nel 1927, fra poco saranno cento anni. Tre generazioni», dice in un italiano limpido, con un’allegria che si attenua solo quando ricorda che ormai da Betlemme non emigrano più singoli individui, ma famiglie intere. La storica bottega coinvolge venticinque artigiani e non si è arresa a quattro anni di pandemia e guerra. «Nell’ultimo periodo mio padre è stato malato, ma ogni giorno mi diceva: vai, Rony, apri il negozio. Anche se c’è la guerra, anche se non c’è nessuno. Apri la porta, aprila alla speranza. Abbiamo bisogno del mondo per resistere, ma senza di noi questo posto diventerà un museo. Ce lo ha insegnato Gesù: siamo noi la pietra viva».

Parrocchia dei Santi Agostino, Stefano e Teresa in Reggio Emilia. CALENDARIO DELLE FESTE FINO AL 1° GENNAIO

CALENDARIO DELLE FESTE FINO AL 1° GENNAIO

SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE


Venerdì 19 dicembre                     dalle 17.30 alle 19.30      S. Stefano      don Luca

Domenica 21 dicembre                 dalle 16.30 alle 18.30     S. Teresa         don Luca
Lunedì 22 dicembre                      dalle 10.00 alle 12.00     S. Stefano      don Luca
                                                          dalle 16.30 alle 18.00     S. Agostino    don Mauro

Mercoledì 24 dicembre                dalle 09.00 alle 13.00   S. Agostino    don Luca
                                                          dalle 15.00 alle 18.30     S. Agostino    don Mauro

                                      CELEBRAZIONI DELLE SOLENNITA’


Mercoledì 24 dicembre                                  ore 24.00     Messa di Natale di mezzanotte

Giovedì 25 dicembre – S. Natale                  Orario Festivo

                                                                             ore  8.45       S. Agostino

                                                                             ore 10.00     S. Stefano

                                                                             ore 11.00       S. Teresa

                                                                             ore 11.30       S. Agostino

Venerdì 26 dicembre – S. Stefano                ore  8.45       S. Agostino

                                                                             ore 10.00     S. Stefano

                                                                             ore 11.00       S. Teresa

Sabato 27 dicembre – S. Messa prefestiva  ore 18.30 S. Agostino

Domenica 28 dicembre – Santa Famiglia    Orario Festivo

                                                                             Nel pomeriggio chiusura dell’anno giubilare con il Vescovo

Mercoledì 31 dicembre                                    ore 18.30 S. Messa con Te Deum – unica messa

Giovedì 1 gennaio Santa Madre di Dio          Orario Festivo

Non dobbiamo stancarci di chiedere una Pace vera

Non dobbiamo stancarci di chiedere una Pace vera

Il 13 dicembre Leone XIV ha ricevuto in udienza i partecipanti al Giubileo della diplomazia, rivolgendo loro un discorso centrato sull’idea che è la speranza la virtù necessaria per cercare e raggiungere accordi di pace fra i popoli. Le parole finali pronunciate dal Successore di Pietro sono state un appassionato appello alla ricerca della pace: «La pace è il dovere che unisce l’umanità in una comune ricerca di giustizia. La pace è l’intento che dalla notte di Natale accompagna tutta la vita di Cristo, fino alla sua Pasqua di morte e risurrezione. La pace è il bene definitivo ed eterno, che speriamo per tutti». È su queste tre caratteristiche attribuite dal Papa a ogni serio impegno per promuovere la pace ‒ un dovere universale, un aspetto centrale della sequela di Cristo e un bene cui tendere tutti ‒ che vorrei soffermarmi brevemente nelle riflessioni che seguono. Che la pace sia un dovere inseparabile dalla ricerca della giustizia non è una verità scontata: nella storia la volontà della maggior parte dei vincitori è stata quella di imporre la pace ai vinti nel segno di un ordine spesso del tutto iniquo, fatto passare come giustizia riparativa per le ferite e i disastri prodotti dalla guerra. Solo una pace che assicuri il rispetto della dignità di tutti e sia fondata su patti che non umilino nessuno, cercando anzi di salvaguardare i diritti fondamentali di ciascuna parte, anche di quella sconfitta nel conflitto, potrà assicurare un futuro di bene ai popoli. Una soluzione costruita sul principio dell’annientamento degli uni per consentire il benessere vittorioso degli altri non ha mai portato a stabilità, giustizia e pace. Le guerre coloniali o quelle volute dai folli disegni delle ideologie asservite al capo di turno hanno solo prodotto sofferenza, ingiustizia e volontà di riscatto negli sconfitti. Non sarà allora mai abbastanza intenso l’impegno da profondere affinché i patti di pace siano giusti, tali cioè da non sancire lo stravincere degli uni a scapito degli altri, puntando a garantire condizioni eque per il futuro di tutti, pur nella diversità prodotta dalle sorti del conflitto. Un organismo come le Nazioni Unite avrebbe dovuto assolvere a un tale compito: la timidezza con cui si è mosso, il compromesso di volta in volta giustificato o addirittura cercato a favore del più forte, ne hanno fatto una voce debole, inascoltata e non di rado del tutto inefficace
Che l’impegno per la pace sia un aspetto centrale della sequela di Cristo lo ha ricordato alla Chiesa e al mondo San Giovanni XXIII con l’indimenticabile Enciclica Pacem in terris, pubblicata l’11 aprile 1963, cui contribuì non poco anche il Suo segretario, Loris Francesco Capovilla, che sarebbe poi stato mio amato predecessore sulla cattedra episcopale a Chieti. L’Enciclica costituì una sfida forte in un mondo dominato dalla guerra fredda e diviso tra capitalismo e socialismo, precisamente perché richiamava il fondamentale valore della pace e il dovere di servirne la causa con responsabilità e dedizione da parte di tutti. Rivolgendosi agli “uomini di buona volontà”, credenti e non credenti, con lo sguardo ad un mondo senza confini e senza blocchi, l’appello del Papa era pressante: «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato». Bisogna cercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide: proprio così la Pacem in terris lanciava a tutti un messaggio di speranza per combattere la paura dell’avvenire ed offriva l’inestimabile patrimonio etico, culturale e spirituale di cui la Chiesa è portatrice a chiunque accettasse di farsi promotore e costruttore di “una nuova, migliore umanità». I successori di Giovanni XXIII sono tutti restati all’altezza di una simile offerta, fino alla voce di Leone XIV che sin dal primo istante del suo ministero petrino ha proposto la ricerca della pace quale priorità del suo servizio alla Chiesa e al mondo.
Che la pace sia un bene cui tendere tutti, infine, è un auspicio alto, esigente, non per questo scontato. Chi intende la politica come ricerca del maggior vantaggio per la propria parte, come sembra sia il caso dei più fra i responsabili delle nazioni, non considererà mai la pace come un bene verso cui muoversi concordemente tutti. Al massimo tenderà a costruire patti di pace con chi risulti affine ai propri calcoli e ai propri interessi. Ricordare che il bene comune da cercare sarà veramente tale se risulterà un bene per tutti è impresa pressoché titanica, cui i Papi non hanno mai rinunciato di attenersi, spesso soli nel farlo e inascoltati. Come promuovere, allora, una visione della pace che possa accomunare le parti convincendole a rinunciare al loro utile esclusivo, per mirare a un ordine di giustizia che sia tale per tutti a partire dai più deboli? Sta qui la sfida di ogni progetto intorno alla pace che voglia tendere a un mondo migliore: quanti fra i grandi della terra lo capiranno? Quanto ancora la voce del Successore di Pietro resterà “clamans in deserto” come quella del Battista?
Monsignor Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto
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