Francesco a sorpresa in un quartiere di Roma per salutare un’anziana impossibilitata ad uscire di casa

La Stampa

Nuova sorpresa di Papa Francesco che oggi pomeriggio, intorno alle 18.30, si è recato in Via Alessandria, a Roma, per andare a trovare una anziana signora che conosce ma che è impossibilitata a muoversi. Il Pontefice conosce bene il quartiere: a poche centinaia di metri, in piazza Buenos Aires, c’è infatti la Chiesa argentina di Santa Maria Addolorata dove da cardinale si recava in autobus a trovare i confratelli.

 

La notizia della improvvisata papale è riportata da Dire e rilanciata dall’agenzia Sir.Il Pontefice è giunto a bordo di una Ford blu davanti al Palazzo dove, prima di entrare, ha salutato i presenti del tutto increduli di vedere arrivare all’improvviso il Papa sotto le loro case.

 

Bergoglio ha stretto la mano a tutti, ha accarezzato un bambino in carrozzina e gli ha chiesto come si chiama, ha abbracciato un uomo malato. Ad una donna  commossa che gli diceva: «Un piacere immenso Santo Padre», il Papa ha risposto: «Anche per me». Un altro signore gli ha regalato un crocifisso che è stato benedetto sul momento. L’ultimo abbraccio è per chi, avvertito all’ultimo momento, è sceso da un palazzo di fronte nonostante stesse male, proprio per ricevere un saluto dal Papa.

 

Francesco è andato poi a salutare la sua amica per uscire dopo un’ora. Rientrato in macchina e continuando a salutare tutti dall’auto, si è infine diretto verso il Vaticano.

Come si sono mossi gli occhi di Gesù dentro la luce solare? Quale traccia del Padre è stato capace di cogliere dentro le cose create?

Quale possibilità di parlare di lui con efficacia ne ha tratto? Il primo a scrivere il vangelo è stato Marco. Egli non ha dedicato all’insegnamento di Gesù tanta attenzione quanto i suoi due colleghi Matteo e Luca. Le parabole da lui riportate sono dunque particolarmente preziose. Tra esse si trova quella del seme che cresce da solo (4,26-29). Gesù la apre parlando del Regno di Dio, cioè di tutto l’impegno che Dio mette in campo per liberare l’uomo dal male. Da ciò che succede in campagna, il Maestro ha potuto indicare che l’azione di Dio per sgominare il male è segreta e inesorabile quanto la crescita del seme nel terreno. Bisogna fidarsi come fa il contadino. Subito dopo Gesù narra la parabola del granello di senape (4,30-32). Il seme di questa pianta è inferiore a quello di un puntino lasciato su un foglio da una matita. La partenza è modestissima, ma il risultato finale grandioso. Chi avrebbe potuto immaginare che da una cosa tanto minuscola sarebbero venuti ombra e solidità che invitano gli uccelli a nidificare? Oltre naturalmente alla gradita spezia con cui l’uomo insaporisce il suo cibo. Erbe e alberi sono per Gesù il primo alfabeto con cui si può parlare del Padre.

Avvenire

Una vita che vale non pretende un affanno continuo

Di fronte a me un folto bosco di larici e pini, fitto nel suo verde cupo, aspetta i raggi del sole del mattino che lo riscaldino dall’umidità della notte. Queste ore oscure che non fanno dormire aumentano la misura del problemi del giorno passato. Non ragionano i sogni, ma regalano soluzioni che al mattino scompaiono, si rivelano impossibili o inadatti alla nostra vita. Allora ti scopri solo nelle decisioni e vorresti quasi non avere scelta ed essere costretto a prendere l’unica strada che ti sembra vedere davanti a te. Più passano gli anni, più la via sembra stringersi e, più ti viene chiesto, meno ti sembra facile rispondere, così i piccoli malanni del corpo rendono aspro il carattere. Bisogna scoprire di ogni età la propria bellezza e saper scegliere tra ciò che si amerebbe fare, quello che ancora ci è possibile. La vita, questa cosa che non sappiamo racchiudere in confini precisi, né descrivere con parole che diano risposta certa, ci renderà interessante ogni nostro giorno fino alla sua fine se avremo saputo rispettarla. Quante volte ne gettiamo via le ore migliori, non ascoltando quello che la sua voce ci suggerisce mentre, come diceva nelle sue poesie Cardarelli, «facciamo orge di tempo». Una vita che vale non pretende un affanno continuo, un’attività senza pace, ma fermarsi ad ammirare i petali di un fiore di campo o ad ascoltare il respiro delle onde del mare, ci insegna il valore che ha ogni istante che passa. E di questo dovremmo renderei conto quando ci lamentiamo delle nostre piccole cose, dei guai di famiglia, delle difficoltà del lavoro senza guardare a chi soffre nella povertà senza limiti che troppo spesso questo tempo offre a chi perde anche il senso dell’esistenza. L’abbandono della terra, degli amici, della propria lingua, di una comunità nella certezza di trovare una civiltà migliore, spinge intere popolazioni a lasciare i luoghi dove sono nati e affrontare quel mare che spesso ingoia la loro vita. E qui nasce agli uomini di fede il problema dell’accettare o meno l’arrivo di questi profughi che cercano un futuro che in realtà neppure noi possiamo loro offrire. Fino a che punto è giusto mandare indietro le barche che gridano pietà e qual è il confine entro il quale dobbiamo accettare di perdere anche una parte delle nostre comodità per condividere la pena, il dolore di aver lasciato la propria gente senza speranza di un possibile ritorno? Quanti di noi hanno avuto i propri nonni così sofferenti per la povertà e l’incertezza di un futuro possibile, da essere pronti ad affrontare viaggi difficili per ottenere un pezzo di terra dove dar da mangiare ai propri figli. E non parlo di un tempo antico, ma dei primi mesi dopo questa nostra guerra perduta quando la politica stessa del nostro Paese incitava i più poveri a cercare lavoro anche lontano, fuori d’Italia pur di sopravvivere alla povertà del momento. Quella di oggi è un’epoca difficile da affrontare se non sappiamo, nemmeno noi popoli europei, trovare una conclusione accettabile a un problema così vasto e difficile che non ha un suo limite nella volontà politica, ma pretende un suo spazio anche nel senso profondo della pietà.
avvenire

Storia. Archimede, Siracusa riscopre il suo genio

da Avvenire

Archimede, Siracusa riscopre il suo genio

Non se n’è mai andato, ma in qualche modo è come se fosse tornato. Ritrovato. Dopo secoli di silenzio, di abbandono, di indifferenza, Siracusa sembra finalmente riscoprire e riappropriarsi del suo concittadino più illustre di sempre. A prendere coscienza del suo genio, a mostrarlo con orgoglio, a studiarlo, a promuoverlo, a farlo conoscere alle nuove generazioni. Parliamo del più grande scienziato dell’antichità, l’inventore del Pi greco, di macchine e di strumenti che usiamo ancora oggi. Parliamo di Archimede. Il “padre” di Galileo e di Leonardo. Eppure Siracusa ha incredibilmente dimenticato di onorare il suo genio nel tempo, per millenni potremmo dire – visto che Archimede è morto, ucciso da un soldato romano durante la presa di Siracusa, nel 212 a.C.. Una morte ancora avvolta dal dubbio: fu errore o delitto di stato? Come per la sua tomba, su cui persiste un atteggiamento al limite dell’imbarazzo, considerato che si continua – vox populi – a indicare come tale un sepolcro romano nel parco archeologico della Neapolis, alle Grotticelle, di due secoli dopo. Quella vera, quella che descrive Marco Tullio Cicerone nel primo secolo a.C. quand’era questore in Sicilia, non si è in realtà mai trovata. E forse mai veramente cercata.

Ad Archimede sono intitolate oggi due scuole, una piazza, ma al cui centro c’è la fontana dedicata a Diana, la dea della caccia, protettrice di Ortigia in epoca greca. Solo da qualche anno si può parlare di una riscoperta da parte della città. Come se uno spirito illuminato stesse risvegliando la sua memoria fra iniziative, mostre, pubblicazioni, nuovi monumenti, che riportano l’attenzione sullo scienziato di Siracusa e sulle sue innumerevoli e meravigliose scoperte. Una figura e delle invenzioni che Stefano Amato in Archimede di Siracusa(LetteraVentidue, pagine 96, euro 12,00) ripercorre in maniera documentata ed eclettica, dai testi antichi di Plutarco alla pellicola Assedio di Siracusa del 1960 di Pietro Francisci esportata anche in America: il tutto con l’obiettivo di dirci chi è veramente Archimede, l’«uomo in anticipo di 2500 anni».

Dal 2016 una statua di Archimede con il suo specchio ustore e lo Stomachion ai piedi accoglie i visitatori che percorrono il ponte Umbertino per entrare sull’isola di Ortigia, mentre nell’aiuola al centro di largo Calipari, alla fine di corso Gelone, è spuntata l’anno scorso la scultura di un grande Pi greco. All’ex convento del Ritiro in via Mirabella, troviamo – dopo la breve parentesi (2011-2014) dell’“Arkimedeion” – un nuovo museo: è quello dedicato a “Leonardo da Vinci e Archimede da Siracusa” voluto dalla famiglia mecena- te, Niccolai – Artisans of Florence, ha sostenuto la riproduzione delle macchine di Leonardo da Vinci e Archimede da Siracusa, tutte funzionanti nei minimi dettagli e ricostruite con procedimenti speciali: l’incontro di due geni in un’esposizione permanente curata da Maria Gabriella Capizzi, con le ricerche storiche di Gabriele Niccolai.

A 200 metri dal Teatro greco ecco poi il “Tecnoparco Archimede” dov’è possibile, attraverso un interessante percorso didattico all’aria aperta, vedere e provare le invenzioni e le macchine archimedee riprodotte in scala: un’idea nata nel 2008 e realizzata pian piano nel tempo, con passione e dedizione, dal professore Antonino Vittorio per ricordare e onorare il grande personaggio siracusano. La costruzione delle macchine è stata affidata a maestranze locali su disegni e schemi sviluppati dalla figlia, l’architetto Cinzia Vittorio, rileggendo le indicazioni di antichi scienziati e meccanici del periodo ellenistico- romano e seguendo le ricostruzioni fatte da Leonardo e da altri ingegneri vissuti fra il XV e il XVII secolo. È lei ora a occuparsi del parco, della sua promozione e della didattica, diventando di certo un interessante indirizzo per chi vuole scoprire Archimede e le sue creazioni: dalle gru alle mani ferree, dai vasi comunicanti alla vite, dalla livella alla catapulta, dalla coclea alla leva, senza dimenticare due orologi ad acqua, un torchio per la spremitura dell’uva e gli specchi ustori.

Ora una ulteriore e importante vetrina: la mostra “Archimede a Siracusa” alla Galleria Montevergini (fino al 31 dicembre del 2019, catalogo Giunti), ideata dal Museo Galileo di Firenze e prodotta da Civita con Opera Laboratori Fiorentini e la collaborazione di UnitàC1 e dell’Inda (Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa). L’esposizione – curata da Giovanni Di Pasquale con la consulenza scientifica di Giuseppe Voza e Cettina Pipitone Voza – dà ai visitatori, ai cittadini e alle migliaia di turisti che soprattutto nei mesi estivi affollano l’isolotto di Ortigia, l’occasione unica, di conoscere da vicino e in maniera inusuale una delle più geniali figure dell’intera storia dell’umanità. Un articolato percorso di approfondimento interattivo presenta oltre venti modelli funzionanti di macchine e dispositivi che la tradizione attribuisce ad Archimede. Ma a colpire è soprattutto una visione multimediale a 360 gradi, che conduce il visitatore in un vero e proprio viaggio nel tempo, a “immergersi” nella città di Archimede, nel terzo secolo avanti Cristo. Una ricostruzione spettacolare e filologicamente accurata mostra alcuni degli edifici simbolo (dal Castello di Eurialo al Teatro Greco e al tempio di Atena) che fecero di Siracusa, capitale della Magna Grecia, uno dei più importanti centri del Mediterraneo anche dal punto di vista artistico e culturale. Una serie di animazioni progettate da Lorenzo Lopane e realizzate con gli allievi dell’Inda rendono viva la presenza degli antichi siracusani e tra loro del grande scienziato.

Emerge così l’importanza della città e del contesto, troppo spesso trascurato, in cui si è formata la personalità di Archimede. Basata sulle fonti storiche e archeologiche, una suggestiva narrazione (disponibile in quattro lingue e affidata in italiano alla voce di Massimo Popolizio), consente di seguire gli eventi che portarono, sul finire della seconda guerra punica, allo scontro con Roma. Le sorprendenti macchine da guerra ideate da Archimede e messe in atto nella battaglia scoppiata nelle acque di fronte a Ortigia, diventano le protagoniste della parte terminale del viaggio, che si conclude con l’uccisione del «gigante della scienza dell’Antichità», come lo definisce lo studioso ed ex soprintendente ai Beni culturali e archeologici di Siracusa, Giuseppe Voza. Così dopo le celebrazioni dello scorso anno di “Siracusa 2750”, ecco che il 2018 – lo dice il neosindaco Francesco Italia – può certamente essere «l’anno di Archimede». Finalmente. Dopo due millenni. Come un ritorno a casa. Da profeta.

Afghanistan. Terroristi senza pietà: attaccata una scuola per ostetriche

Militari afghani nella zona dell'attacco a Jalalabad: sullo sfondo il fumo dell'esplosione seguita all'attacco terroristico (Ansa)

Militari afghani nella zona dell’attacco a Jalalabad: sullo sfondo il fumo dell’esplosione seguita all’attacco terroristico (Ansa)

Un commando di uomini armati ha attaccato una scuola per ostetriche a Jalalabad, nell’Afghanistan orientale. Il bilancio provvisorio dell’assalto, durato sei ore, è di almeno cinque morti e otto feriti. “L’attacco ha colpito il nostro centro di formazione per ostetriche“, ha confermato il portavoce del ministero della Salute provinciale, Inamullah Miakhil. Tra studenti e insegnanti, nel centro erano presenti poco meno di 70 persone.

Anche Ehsan Niazi, che lavorava nel dipartimento del Lavoro e degli Affari Sociali vicino alla scuola, ha raccontato di aver visto una colonna di fumo uscire dall’edificio. “Dopo la prima esplosione ne ho sentite altre tre e ho visto tre aggressori precipitarsi nella strada che portava al dipartimento“, ha detto. Un altro testimone, che ha preferito restare anonimo, ha aggiunto di aver sentito diversi colpi d’arma da fuoco. “Ho sentito sparare e ho visto assalitori che sparpagliano mine. Le forze afghane poi le stanno disinnescando”.

Secondo il portavoce del governatore di Nangarhar Attaullah Khogyani, l’esplosione è avvenuta alle 11.30 (intorno alle 8.30 italiane). “A questo punto, tre feriti sono stati mandati in ospedale, diverse ostetriche sono state salvate”, ha aggiunto senza specificare la natura dell’attacco. Jalalabad, la capitale regionale dell’Est, è spesso teatro di attacchi perpetrati dai taleban o dal Daesh che da tempo ha messo radici nella zona arruolando fuoriusciti dalle file dei taleban.

L’ultimo assalto era datato 11 luglio, contro un edificio del Dipartimento della Pubblica Istruzione.L’operazione, che non era stata rivendicata, era stata segnata da uccisi vittime. Il giorno prima, un attacco suicida del Daesh su un convoglio di servizi di intelligence afghani aveva ucciso 12 persone, per lo più civili incendiati in una stazione di servizio scatenata dall’esplosione.

Avvenire

Aosta. Disabili a scuola nella fattoria solidale

da Avvenire

Potatura "verde" nelle vigne dell’Istituto. A destra Paolo Griffa. Al  centro, calvo con occhiali scuri, René Benzo

Potatura “verde” nelle vigne dell’Istituto. A destra Paolo Griffa. Al centro, calvo con occhiali scuri, René Benzo

Cosa succede d’estate in una scuola d’agricoltura che produce anche quintali di pomodori, di carote, di cipolle, di zucchine, di meloni? E poi fagioli, finocchi, insalate, peperoni, porri e tante altre varietà di verdure. E poi frutta di ogni tipo. E poi cereali e patate. E poi ci sono i vitigni con una cantina sperimentale tra le più prestigiose in Italia. E poi l’alpeggio con sessanta mucche al pascolo. Chi sostiene tutto questo lavoro quando gli oltre duecento studenti, giustamente, sono in vacanza?

René Benzo, vice presidente dell’Institut Agricole Régional di Aosta, è anche direttore della Fondazione Sistema Ollignan onlus che si occupa di persone disabili. Sommando le due competenze non è gli stato difficile trovare la soluzione. Così è nato nel Comune di Quart, a pochi chilometri da Aosta, il Centro agricolo per disabili voluto e sostenuto dalla Regione Val d’Aosta. Una realtà che permette a persone con disabilità psichiche, intellettive, sensoriali ma con residue capacità lavorative e produttive di trovare nel lavoro dei campi e nelle altre attività che rappresentano da sempre il cuore pulsante di quella che è a tutti gli effetti una grande fattoria, occasioni di apprendimento, spunti formativi, situazioni favorevoli alla socializzazione ma anche offerte di inserimento lavorativo.

Dal mese scorso uno stimolo ulteriore è rappresentato dall’incontro settimanale con la brigata di cucina dell’hotel “Royal e Golf” di Courmayeur guidata dallo chef Paolo Griffa. Per un pomeriggio intero, cuochi e persone assistite dalla Fondazione lavorano fianco a fianco nei campi del Centro agricolo per individuare erbe spontanee commestibili e altri ortaggi da valorizzare. La biodiversità valdostana è sorprendente, con oltre duemila specie tra cui decine di piante officinali e aromatiche tipiche delle aree alpine (Calendula, Arnica, Rhodiola rosa, Issopo). Ma tantissime possono anche essere consumate, offrono sapori inattesi e Griffa, maestro tra i fornelli nonostante i suoi 26 anni, è anche botanico appassionato e competente. Così non è raro che tra i suoi menù creativi finiscano anche piante spontanee oppure frutti e foglie di arbusti considerati ordinari ma di straordinaria versatilità, scovati e raccolti con l’aiuto degli amici della Fondazione Ollignan. «Per noi un arricchimento professionale straordinario – spiega lo chef – ma è anche un momento solidale importante. Dopo pochi incontri abbiamo capito che c’è tanto da imparare in una logica di reciprocità che ci fa crescere tutti».

D’altra parte l’Institut agricole ha da sempre nel suo dna l’impegno a favore della collettività. Quando nel dopoguerra la Giunta regionale della Valle d’Aosta decise di fondare una “scuola pratica di agricoltura”, affidò il compito alla Congregazione dei Canonici regolari del Gran San Bernardo. Anni difficili. C’era una società da ricostruire ma, soprattutto tra queste valli imponenti, da preservare e custodire. Si pensò giustamente che i giovani destinati a diventare agricoltori – soprattutto a confrontarsi con un’agricoltura particolare com’è quella montana – avessero bisogno di competenze capaci di integrare tradizione e innovazione. Fu scelta lungimirante e di buon senso.

La scuola, che negli anni è diventata istituto professionale paritario con piano di studi quinquennale e rilascia il diploma di Stato, si occupa anche di ricerca e sperimentazione, di tutela ambientale e di difesa del territorio. «Direi che la sperimentazione rappresenta il nostro fiore all’occhiello, con una serie di colture davvero importanti per testimoniare questa biodiversità», osserva René Benzo. Succede per le produzioni cerealicole, per la frutticoltura, per la viticoltura, ma anche per il settore zootecnico. «Per la segale per esempio – prosegue – abbiamo realizzato già nel 2014-2015 sette campi di moltiplicazione per un totale di 9mila metri quadrati e coltiviamo ecotipi dai nomi tipicamente valdostani (Arnad-Crest, Brusson-Graines, La Salle-Remondey), ma lo stesso succede per il grano tenero e con il mais. Cerchiamo sempre di recuperare, attraverso le colture, la storia delle nostre terre».

Dove la produzione legata all’Institut regionale diventa davvero d’eccellenza è nel settore viticolo. Nella cantina Joseph Vaudan, che ha obiettivi sperimentali e didattici, si producono bianchi e rossi con vitigni autoctoni e internazionali, ma con tecnologie d’avanguardia. Davvero qui la sapienza della tradizione si mescola alla sperimentazione più avanzata. Nel 2017, tra 16mila vini italiani in concorso, il “Petite Arvine” dell’Institut agricole, un bianco elegante dal sapore tipicamente alpino, è stato selezionato tra le prime dieci etichette per il “Sole” nell’ambito del Premio Veronelli, una sorta di Nobel del settore.

Ma la cantina offre altre meraviglie, come i vini “speciali”, tra tutti il “Monchoisi”, che sarebbe riduttivo definire spumante. E poi, per ricordare i canonici del Gran san Bernardo, il “Vin du prevot” (rosso), il “Blanc du prieur” (“Bianco del priore”), il “Vin des chanoines” (“Vino dei canonici”). Insomma, in alto i calici per brindare a una realtà che sa amalgamare ingredienti preziosi come la formazione scolastica, l’inclusione sociale, la valorizzazione dei prodotti della terra e della tradizione, la salvaguardia dell’ambiente. Prosit.

Tg1. Padre Dall’Oglio, i segreti della sua scomparsa

Cinque anni fa il sacerdote sparì da Raqqa, in Siria. Il giornalista del Tg1 Amedeo Ricucci si è messo sulle sue tracce. Spunta il nome di un emiro, l’ultimo che lo vide. In onda domenica alle 23.30

Domenica 29 luglio, saranno cinque anni esatti da quando padre Paolo Dall’Oglio è sparito a Raqqa, in Siria.Cinque lunghissimi anni nel corso dei quali i familiari e gli amici del gesuita sequestrato non hanno perso la speranza, nonostante le numerose notizie contraddittorie sulla sua sorte.

Un’inchiesta giornalistica condotta in Siria dall’inviato del Tg1 Amedeo Ricucci, rivela ora una serie di particolari inediti. A cominciare dal nome di un emiro del Daesh, capo di una potente tribù locale e perciò lasciato in libertà dalle autorità siriane dopo la cacciata dell’esercito del califfo. Il suo nome è Abd al-Rahman al Faysal Abu Faysal. “Abbiamo appurato che fu con questo emiro, figura importante del Daesh che ha gestito i prigionieri, che padre Dall’Oglio andò a parlare il 29 luglio del 2013, nel quartier generale dell’Isis, a Raqqa”, spiega Ricucci. Il reportage di Amedeo Ricucci sarà trasmesso domenica 29 luglio alle 23.30 su Raiuno.

Secondo diverse fonti locali che per la prima volta hanno mostrato il proprio volto e mostrato i luoghi e le abitazioni frequentate dal gesuita romano, padre Paolo si recò nella tana del lupo per chiedere il rilascio di un attivista siriano, oppositore del regime di Assad, ma fatto prigioniero dallo Stato Islamico. “Da quel momento – aggiunge Ricucci – padre Dall’Oglio è sparito.

Bisogna quindi agire adesso, cercando di ottenere informazioni dai testimoni diretti, in primis da questo emiro”.Lo speciale “Abuna (che in arabo significa “padre”, ndr): sulle tracce di padre Dall’Oglio”, raccoglie fra le altre le testimonianze di padre Federico Lombardi, già portavoce di Ratzinger e Bergoglio, che ben conosceva padre Paolo; del cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e di alcuni giovani islamici siriani molto legati ad “Abuna Paolo”.

Riccardo Cristiano, dell’associazione “Giornalisti amici di padre Dall’Oglio”, ha sottolineato nel corso dello speciale che “ciò che caratterizza Paolo – ne parlo al presente perchè è giusto così – è il suo duplice binario: un mistico con l’urgenza di fare sul piano sociale”. Le immagini, in gran parte girate in luoghi mai mostrati alla stampa, portano fin dentro alle prigioni del Daesh e lungo le aree nelle quali la protezione civile di Raqqa sta estraendo centinaia di corpi gettati dal Daesh nelle fosse comuni. “Dall’Italia – ha dichiarato il responsabile delle operazioni di ricerca – non abbiamo ricevuto alcuna richiesta riguardo l’eventuale recupero dei resti di padre Dall’Oglio”.

da Avvenire

Il colloquio. «Mio fratello Pino Puglisi, non eroe ma prete di strada»

La tomba di padre Pino Puglisi nella Cattedrale di Palermo

La tomba di padre Pino Puglisi nella Cattedrale di Palermo

Quando Francesco Puglisi apre la porta di casa, alle sue spalle compare un ritratto del fratello. È quello di don Pino, il prete martire ucciso dalla mafia venticinque anni fa. Sorride il “sacerdote scomodo” nel dipinto che gli hanno regalato. Come faceva sempre. Questo condominio bianco alla periferia di Palermo non è lontano da Brancaccio, la roccaforte di Cosa Nostra dove la famiglia Puglisi abitava. Proprio di fronte alla casa dei genitori don Pino è stato assassinato nel giorno del suo 56° compleanno, il 15 settembre 1993. «È una piaga sempre viva», sussurra Francesco che tutti chiamano Franco. Ha 73 anni. Il fratello sacerdote ne aveva otto più di lui. «Lo hanno ammazzato – prosegue Francesco – perché, prima che arrivasse lui nella chiesa di San Gaetano, i riferimenti di Brancaccio erano i boss. Poi il perno è diventato il parroco. Ma non chiamatelo “prete antimafia”. No, lui non è mai stato “anti”: è sempre stato “pro”. A cominciare dai bambini. Aveva iniziato da loro nel quartiere. Insegnava ai ragazzini a dire “per favore”, “grazie”, “prego”. Parole sconosciute e assurde in un ambiente segnato dalla malavita. Parole di civiltà che hanno fatto paura alla mafia».

La famiglia Puglisi: da destra il nipote Carmelo, il fratello Francesco e la cognata Angelina

La famiglia Puglisi: da destra il nipote Carmelo, il fratello Francesco e la cognata Angelina

Non è un appartamento-santuario quello di Francesco, oggi pensionato con un passato da bancario. Sono poche le foto di don Pino, per lo più in bianco e nero. Una è nel grande mobile del soggiorno dove tutto è pronto per il pranzo della festa. «Ogni domenica lo zio Pino mangiava qui», racconta Carmelo, figlio di Francesco e nipote del prete dell’“insurrezione evangelica”. Al suo fianco ha la moglie e il bimbo di pochi mesi. «Spesso arrivava in ritardo – continua –. Celebrava l’ultima Messa del mattino a mezzogiorno e poi si fermava fra la gente che chiedeva di lui. “Non sono un ufficio comunale. Quando le persone ti cercano, devi essere disponibile”, ripeteva. Poi si sedeva fra noi. Scherzava. Magari ascoltava le radiocronache delle partire o vedeva in tv il Gran Premio. Sosteneva che in famiglia si ricaricava». Il volto di Carmelo si fa scuro. «Ci manca lo zio. Ci manca molto». E Francesco aggiunge: «Avremmo preferito che fosse ancora fra noi…». Oggi è beato. «Però la sua assenza ci provoca un immenso dolore». E, quasi per smorzare la tensione, cambia tono. «Certo, non ci siamo mai accorti di avere un santo in casa», dice accennando un sorriso.

Padre Pino Puglisi fra i ragazzi in una foto d'epoca

Padre Pino Puglisi fra i ragazzi in una foto d’epoca

Papa Francesco gli renderà omaggio il prossimo 15 settembre durante la sua visita a Palermo nel giorno del 25° anniversario della morte. Lo hanno invitato proprio i fratelli Puglisi, Francesco e Gaetano, con una lettera dello scorso novembre. «Gli raccontavamo il nostro sogno di accoglierlo in quella che è stata la nostra abitazione a Brancaccio e che oggi è la casa-museo di don Pino dove giungono pellegrini da tante parti del mondo», rivela Francesco. Così accadrà. I fratelli daranno il benvenuto al Papa all’ingresso del condominio al civico 5 di piazza Anita Garibaldi dove padre Puglisi è stato colpito dai sicari dei fratelli Graviano. «Siamo quasi imbarazzati – ammette Francesco –. È un grande onore poterlo incontrare come famiglia Puglisi nel luogo del martirio di nostro fratello». E la mente torna a quando Pino decise di entrare in Seminario. «Era già alle superiori, faceva le magistrali. Siamo cresciuti in una famiglia di profonda fede. Mia mamma pregava perché un figlio diventasse sacerdote. Quando Pino aveva quattordici anni, venne in visita nella parrocchia l’allora arcivescovo di Palermo. Pino era catechista. L’arcivescovo gli chiese: “Perché non ti fai prete?”. E lui gli rispose: “Non sento la vocazione”». Due anni dopo la chiamata del Signore sarebbe stata definitivamente evidente.

La casa di padre Puglisi di fronte alla quale è stato ucciso, nel punto dove si trova il medaglione

La casa di padre Puglisi di fronte alla quale è stato ucciso, nel punto dove si trova il medaglione

Se c’è una priorità che padre Puglisi ha avuto chiara fin dall’inizio del suo ministero, era quella dei giovani. «Aveva la passione per l’insegnamento. E amava i ragazzi. Poi sui ragazzi ha sempre fatto breccia. A Brancaccio tutto ciò ha dato fastidio», afferma il fratello. «Lo accusavano anche di essere amico degli atei. Ma lui replicava: “Guardiamo a ciò che ci unisce”. Era un uomo del dialogo, della riconciliazione, della pazienza». Francesco lo definisce un «prete di strada», non sicuramente un «eroe». E sottolinea: «Anche per questo ha fondato il Centro di Accoglienza Padre Nostro a Brancaccio. Non era un presidio con una connotazione ecclesiale ma una porta aperta a chiunque, soprattutto ai lontani e a chi era nel bisogno». Oggi Francesco Puglisi fa parte del consiglio direttivo. «Per acquistare la sede, pagata 290 milioni di lire, Pino fece un mutuo che garantì con il suo stipendio di insegnante. Non riuscì mai a estinguerlo. Venne ucciso prima…». Una pausa. «Comunque per raccogliere un po’ di fondi ideò una lotteria. Il primo premio era una cucina. Andò dalla Guardia di Finanza e si fece vidimare tutti i biglietti: così un terzo del ricavato andò in tasse. “Perché lo hai fatto?”, gli domandammo. “Devo dare l’esempio. Anche così mostriamo che cos’è la legalità”, rispose secco».

La chiesa di San Gaetano a Brancaccio che padre Puglisi guidò per quasi tre anni prima di essere ucciso

La chiesa di San Gaetano a Brancaccio che padre Puglisi guidò per quasi tre anni prima di essere ucciso

Oggi il Centro ha contribuito a realizzare i segni di “3P” fra le macerie sociali di un agglomerato che è stato in mano alle cosche: i campi sportivi, gli sportelli di aiuto, le case di accoglienza.

«Quando vedo i bambini giocare in quelle strutture, mi commuovo perché penso che senza la lungimiranza di don Pino sarebbero rimasti per strada», mormora Angelina, moglie di Francesco.

E lui precisa: «Mio fratello voleva rivoluzionare Brancaccio con il Vangelo in mano. E oggi il Centro prosegue sulla stessa strada anche attraverso il progetto dell’asilo nido» che sorgerà per ricordare il beato a un quarto di secolo dal delitto.

Il parco giochi “Padre Puglisi - Padre Kolbe” voluto dal Centro Padre Nostro a Brancaccio

Il parco giochi “Padre Puglisi – Padre Kolbe” voluto dal Centro Padre Nostro a Brancaccio

Nei mesi che precedettero l’uccisione le minacce della mafia si erano intensificate. «Ma in famiglia lui non ne parlava», spiega Francesco. Adesso uno dei killer, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ha chiesto perdono e ha detto di essersi convertito. «Se è sincero, sarà il Signore a giudicarlo con misericordia. E, sempre se è sincero, come fratelli Puglisi potremmo anche essere disposti a perdonarlo». Lo sguardo di Francesco si posa su un’immagine del fratello con la talare, ancora giovane sacerdote. «Ormai la vita della nostra famiglia – conclude con un filo di voce – non è più soltanto nostra. Siamo chiamati a testimoniare la profezia di Pino, prete semplice e umile che ha donato la vita per il riscatto della sua gente anche a costo di finire nel mirino della mafia».

Come contribuire al nuovo asilo di 3P

Un gesto concreto di solidarietà per celebrare il 25° anniversario del martirio del beato Pino Puglisi, il prete siciliano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 di fronte alla sua casa di Palermo. Il Centro di Accoglienza Padre Nostro, voluto dallo stesso padre Puglisi nel capoluogo siciliano, e la Fondazione Giovanni Paolo II, insieme con l’arcidiocesi di Palermo, il Comune di Palermo e Avvenire intendono realizzare l’ultimo sogno del sacerdote “profeta” per il suo quartiere Brancaccio a Palermo: la costruzione del nuovo asilo nido. Posiamo insieme la prima pietra.

È possibile contribuire al “sogno” di padre Pino Puglisi attraverso:
– bonifico bancario intestato a Fondazione Giovanni Paolo II utilizzando il seguente IBAN IT84U0503403259000000160407 (va inserito anche l’indirizzo di chi versa nel campo causale);
– bollettino sul conto corrente postale n. 95695854 intestato a Fondazione Giovanni Paolo II, via Roma, 3 – 52015 Pratovecchio Stia (AR). Causale: “Asilo Don Puglisi”;
– carta di credito o PayPal sul sito www.ipiccolidi3p.it.
Partecipa al progetto con la tua parrocchia o associazione, con i tuoi familiari o amici. Facendo una donazione si avrà diritto alle agevolazioni fiscali previste dalla legge. I dati saranno trattati ai sensi dell’art.13, regolamento europeo 679/2016 (c.d. “GDPR”).

in Avvenire