Vita dietro le sbarre. Un film per capire

Il documentario del giovane Santarelli racconta le storie dei detenuti del carcere di Bologna

Luca Pellegrini
Non c’è nulla di meraviglioso, non è Sherazade che racconta le sue favole al principe. È la vita di Agnes, “dentro” da quattro anni per droga e che scrive una lettera a casa nella sua notte numero mille e uno dietro le sbarre. Una delle storie che Marco Santarelli ha scoperto incontrando Ignazio, monaco della comunità religiosa Piccola Famiglia dell’Annunziata fondata da don Giuseppe Dossetti, volontario impegnato al penitenziario Dozza di Bologna. Tra speranza e rassegnazione, però, anche lì scorre la vita. Nasce così l’idea di filmare i colloqui degli educatori e dei mediatori culturali con i detenuti, molti maghrebini analfabeti, e alcune donne. «Non è stato facile – spiega il regista – ma alla fine sono riuscito a trovare il giusto equilibrio tra quello che volevo raccontare e quello che avevo la possibilità di filmare. Lo spunto di partenza è stato conoscere qualche cosa dei detenuti e del loro mondo attraverso il sistema delle “domandine”, quelle che inoltrano alle autorità per chiedere un colloquio coi parenti, incontrare l’avvocato, trovare un lavoro nella sezione. Mi ha colpito questo termine regressivo: non una domanda, ma il suo diminutivo. Così come i lavori che lì dentro si danno: scopino, spesino. È l’immagine di un sistema in cui la persona, che deve scontare una pena, viene fatta regredire a livelli quasi infantili».
Il titolo del documentario, Milleunanotte – in concorso nella sezione Prospettive Italia al Festival del Film di Roma che si apre il 9 novembre – fa riferimento allo scorrere del tempo. È una mia personale ossessione. Ma ho scoperto che lo diventa anche per chi vive in carcere: si contano i giorni, le notti, le ore e i minuti. È la percezione di un tempo che non passa mai, diversa da quella di chi sta fuori.
La vita del carcere ha attirato l’interesse del cinema italiano: i fratelli Taviani, poi Vincenzo Marra, ora lei.
Il mio cammino verso la Dozza ha seguito strade diverse, perché mi è sempre interessato raccontare la vita delle persone all’interno di istituzioni e di regole, riprodurre la realtà di questi microcosmi, come nel mio primo documentario, girato in una scuola.
Gli episodi che più l’hanno colpita?
Le tre detenute dell’Est che si proteggono dal freddo sigillando la finestra della cella con ritagli di assorbenti; il tunisino rapper Missoui che dedica alla figlia di nove anni, che non ha mai visto, una canzone; Armand che aspetta di sposarsi con la fidanzata, anche lei detenuta; Ibrahim, che sul braccio è tutto un taglio per i diversi tentativi di suicidio: è solo al mondo e non ce la fa più.
Ha trovato in loro disponibilità a farsi riprendere?
Non avevano nulla da perdere. Ho iniziato costruendo rapporti di fiducia e nel momento in cui si sono fidati di me mi hanno dato la possibilità di filmare la loro vita da reclusi.
Alla fine di questa esperienza ritiene che il carcere possa aiutare il reinserimento nella società?
Sicuramente non è un sistema che facilita l’integrazione, anche perché dentro vivono difficoltà che poi si portano fuori. Sono convinto che il reinserimento dei detenuti sia un problema enorme, che non può risolvere l’istituzione carceraria da sola.
Il documentario inizia e finisce con due immagini particolari: dei piedi su una pedaliera di un organo e una serie di arnie piene di api.
I piedi aprono le due parti in cui è suddiviso il documentario, quella girata all’interno della Dozza e quella all’esterno, seguendo la storia di Agnes. I piedi sono i suoi: nel breve viaggio di ritorno alla normalità, per cinque giorni, ho scoperto quanto sia importante per lei suonare l’organo della chiesa del suo villaggio in Alto Adige. Le arnie le avevo notate lungo il muro di cinta del carcere e avevo scoperto che in realtà è una attività svolta dai detenuti. Mi sembrava che il carcere dove vivono assomigliasse, con le sue regole e il suo affollamento, proprio a un grande alveare.
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