Vissuti ecclesiali e intelligenza della fede nel contesto del Mediterraneo

Sabato 11 giugno di quest’anno, presso la Sezione San Luigi della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale si è tenuto un incontro di studio in cui i vescovi del Meridione italiano e i docenti delle facoltà teologiche che sono attive a Napoli, a Bari e a Palermo, si sono confrontati sul tema: Vissuti ecclesiali e intelligenza della fede nel contesto del Mediterraneo.

All’incontro ho avuto la preziosa opportunità di partecipare anch’io, con la riflessione che mi permetto di riproporre qui.

Ministero pastorale e teologico
Reputo necessario, oltre che utile, interrogarsi su cosa possa significare una teologia in contesto mediterraneo e, per ciò stesso, una teologia peculiarmente pastorale (è la considerazione seria e attenta del contesto a rendere effettivamente pastorale l’esercizio teologico).

Direi che il contesto si deve intendere come ciò che risulta dall’intreccio fra spazio e tempo, tra scenario geografico e orizzonte storico. Il papa, lo scorso 9 giugno, parlando ai vescovi e ai preti siciliani da lui accolti in udienza, ha dato per buona – tra le righe del suo discorso – proprio un’accezione precipuamente storica del contesto: l’odierno contesto è anche l’odierna congiuntura, quella del cambiamento d’epoca, come Francesco dice spesso.

Dentro il contesto e dentro la congiuntura si trova un’amalgama di tradizioni religiose, esperienze ecclesiali, elaborazioni culturali, emergenze sociali. È una sorta di matassa intrecciata di fili di vario colore, che sintetizza densamente il passato, che configura magmaticamente il presente, che prospetta enigmaticamente vari sviluppi futuri.

Proprio in riferimento a questi ultimi vale la pena discernere e ponderare come intervenire pastoralmente (e includo nell’avverbio anche l’ispirazione teologica, dato che l’autentica pastoralità non può che essere teologicamente consapevole e chiaroveggente).

I temi su cui a tal riguardo esercitarsi sono peculiari del nostro sud mediterraneo (e meridiano, avrebbe detto il compianto sociologo Franco Cassano). Sono peculiari non tanto perché siano temi che non toccano altri contesti regionali. Persino il fenomeno delle mafie ormai è riscontrabile anche nel Settentrione d’Italia: ciò che nel 1961, ne Il giorno della civetta, Leonardo Sciascia preconizzava, e cioè che la «linea della palma» – vale a dire il fronte della desertificazione morale e della illegalità – si spingeva sempre più a nord ed era già giunta a Roma, è un fatto compiuto.

Ma le mafie restano nel nostro sud un fatto specifico, che si complica risucchiando in sé altre dimensioni tipicamente meridionali, di per sé belle e buone, come per esempio la pietà popolare (cui ha fatto cenno il papa sempre parlando ai vescovi e ai presbiteri siciliani in Vaticano).

A proposito di mafie, in particolare, quale riflessione elaborare nelle facoltà teologiche che operano a Napoli, a Bari e a Palermo? E cosa fare nelle nostre diocesi? Fra le varie piste di ricerca da perlustrare a mio parere resta interessante la rivisitazione della martiriologia, per smarcarci dall’esclusività dell’odium fidei e valorizzare una buona volta il motivo dell’odium iustitiae.

Non voglio dire che la teologia del martirio classicamente impostata a partire dal motivo dell’odium fidei non sia stata e non rimanga oggi, in molte parti nel mondo, valida e attuale; voglio semmai dire che in un contesto infiltrato dalla presenza delle mafie (spesso sedicenti “ligie alle tradizioni religiose”), i credenti in Cristo non vengono uccisi soltanto perché dichiarano la loro fede nella divino-umanità del Figlio eterno, o nell’uni-trinità dell’Agape divina, ma perché – ispirati dal vangelo e orientati dalle sue esigenze spirituali ed etiche – resistono pacificamente e nondimeno tenacemente a coloro che violano le leggi della convivenza sociale e violentano i diritti degli altri, specialmente dei più deboli.

In questa prospettiva, a suo tempo peraltro suggerita da Giovanni Paolo II, sulla scorta di una riflessione teologica che riuscisse a valorizzare questo dato, assunto sotto la cifra della “giustizia” che già Tommaso d’Aquino segnalava come un fattore martiriologico indissociabile dalla fede, cosa comunicherebbe un don Puglisi, dall’altare dov’è stato innalzato? E cosa potrebbe comunicare un beato Livatino a tanti magistrati suoi colleghi credenti e non? E come si evolverebbe il processo canonico per la beatificazione di don Peppe Diana?

Ma, per fare un altro esempio in riferimento a un tema ultimamente collegato a quello dei fenomeni mafiosi, come ripensare la prassi liturgico-sacramentale del padrinaggio e madrinaggio al battesimo e alla cresima? È davvero sensato venga abolita una prassi che non è affatto ornamentale o accessoria? Non è accessoria né ornamentale perché esprime piuttosto la portata ecclesiale e comunitaria del sacramento dell’iniziazione, che consiste in azioni sacramentali comunitarie e non private, in feste di “famiglia” parrocchiale e non di famiglie private.

Perché non cominciare a scegliere, dunque, i padrini e le madrine non dall’interno delle famiglie dei battezzandi bensì dal di dentro delle “famiglie” parrocchiali? Si potrebbe eccepire che non abbiamo nelle nostre parrocchie “personale” adatto: un motivo in più per riformare senza indugio gli itinerari di formazione catechistica e quelli catechetici di formazione dei catechisti, o per valorizzare risorse che sono talvolta pregiudizialmente scartate (per esempio alcuni presbiteri che sono tornati allo stato laicale mantenendo un esemplare tenore di vita, in privato come in pubblico).

Trasmissione della fede e qualità della vita credente
Contesto, dicevo, ha anche un significato storico, congiunturale: vuol dire cambiamento d’epoca. Metamorfosi epocale che il papa suggerisce di affrontare con una «fiduciosa presa in carico della realtà, ancorata alla sapiente Tradizione viva e vivente della Chiesa, che può permettersi di prendere il largo senza paura», com’egli ha ribadito parlando con i vescovi e i preti siciliani nell’incontro recente cui sopra ho già accennato.

Parafraserei questo suggerimento del papa con un binomio su cui insisteva già l’arcivescovo Cataldo Naro sia quand’era preside della Facoltà Teologica di Sicilia sia durante il suo episcopato a Monreale: si tratta del problema della trasmissione della fede e della qualità della vita credente.

La trasmissione della fede, storicamente, ha avuto una sua sintassi comunicativa ben precisa. Émile Poulat, uno dei più lucidi intellettuali europei contemporanei, ha indicato nei suoi numerosi studi le tre forme più emblematiche di tale sintassi: la dottrina certamente, ma anche e soprattutto la testimonianza e il simbolo.

La fede cristiana, infatti, non è arrivata a noi solamente nelle formule del dogma e attraverso la tematizzazione teologica degli interrogativi sull’identità di Cristo e del Dio da lui annunciato. Essa è giunta fino a noi innanzitutto in forza della testimonianza di coloro che hanno sperimentato l’incontro con Cristo e hanno appreso da lui a ricomprendere e a rivivere il loro rapporto con Dio, a trasformare il proprio vissuto, a dare nuova forma alla propria esistenza.

All’inizio si trattò della testimonianza dei primi compagni di viaggio del Maestro di Nazaret, dei pescatori di Galilea, e della testimonianza di coloro che accettarono di essere compagni di viaggio del Risorto: i due discepoli lungo la strada di Emmaus, Saulo lungo la via di Damasco. Poi è venuta la testimonianza di quelli che come Paolo hanno potuto affermare: «Non io, ma Cristo in me». È la testimonianza dei santi, che trasmette − in una sorta di vivificante «contagio», come scrisse Yves Congar − il nucleo principiale del credere cristiano, cioè la disponibilità a riconoscersi in Cristo come figli che ne condividono il rapporto con il Dio ch’egli chiamava Padre suo.

La fede cristiana, inoltre, è giunta fino a noi grazie alla forza dei simboli, cioè delle celebrazioni e delle raffigurazioni capaci di dire la contemporaneità di Cristo a ogni generazione di credenti. Si tratta dei segni liturgici, che permettono di ricevere continuamente ciò che i primi discepoli ebbero in dono e trasmisero, cioè l’annuncio evangelico della Pasqua, in memoria di Cristo, come accade nella celebrazione eucaristica sin dal tempo di Paolo.

Ma si tratta anche di ciò che fa da contesto all’azione liturgica. Le opere d’arte cristiana, per esempio, specialmente quelle destinate ad adornare i luoghi in cui si celebra la liturgia, sono sempre state come delle traduzioni figurali del messaggio biblico proclamato all’interno della liturgia stessa: rievocare le vicende dei patriarchi d’Israele o narrare i miracoli compiuti da Gesù e proclamare la memoria evangelica della sua Pasqua in una chiesa come la Palatina di Palermo o il Duomo di Monreale, i cui interni sono ricoperti da mosaici che illustrano le pagine della Scrittura, significa partecipare di una formidabile riscrittura del messaggio biblico-cristiano che interpella il fedele e accanto a lui ormai anche il turista, mentre essi se ne stanno lì ‒ più o meno consapevolmente ‒ ad ascoltare ma pure a guardare l’annuncio evangelico.

Non sto qui vagheggiando una teologia semplicemente erudita – nostalgica del passato – e di conseguenza una pastorale di conservazione. La trasmissione della fede non consiste nel restaurare il passato dottrinale, simbolico e spirituale del cristianesimo, ma nell’attualizzarlo.

La tradizione ecclesiale stessa non è una specie di archivio o di museo della Chiesa. Prima e più che uno scrigno contenente bellezze e simboli antichi, essa è un’azione vitale, tramite cui si realizza il rapporto fra le generazioni dei credenti. Essa è l’atto stesso del trasmettersi credente da una generazione all’altra.

In questo senso, trasmettere la fede significa formare le nuove generazioni di credenti. La Chiesa − con le sue guide e con i suoi operatori pastorali, con i fedeli laici che la costituiscono, con le sue parrocchie, con i suoi gruppi e movimenti − è difatti come una famiglia, la cui prima vocazione è quella di curare, in modi adeguati alle cangianti situazioni, l’educazione alla fede.

Da questa dipende non solo la trasmissione della fede, ma anche lo stimolo a maturare una qualità alta della vita credente, di cui sono testimoni, ancor oggi, i santi delle nostre terre (penso, appunto, ai martiri della giustizia caduti – in vario modo – sotto la violenza mafiosa). Insegnare la fede nel solco della loro memoria ha un’efficacia performativa: vuol dire illustrare a tutti, specialmente ai più giovani, il vangelo e la vita ecclesiale in forme così belle, e perciò convincenti, da poter essere da loro riprese e rivissute.

La forma della vita come tema teologico-pastorale
Possiamo chiederci: che significato dare ‒ nel nostro caso ‒ al termine forma? Vuol dire, forse, definizione visibile della nostra esistenza? Vuol dire tratto esteriore, profilo evidente, aspetto riconoscibile, appeal? Si possono dare per buone queste risposte.

Ma, ancor più radicalmente, al termine forma dobbiamo qui attribuire un significato gestaltico (nell’accezione con cui l’intesero Guardini e Balthasar, oppure con cui l’intende Christoph Theobald che ne deriva la sua nozione di «stile cristiano»), per dire che la forma non è semplicemente l’aspetto esterno del nostro essere, la posa con cui esso s’atteggia, bensì l’essere umano stesso nella sua capacità di mettersi in rapporto, di esprimersi nella relazione, di comunicarsi senza riserve e senza parzialità, ma anche senza smentirsi o dileguarsi.

Se vogliamo, possiamo considerare la forma come il punto in cui fondamento e fenomeno sono ancora saldamente innestati. Perciò la forma è l’immagine che corrisponde all’intima nostra verità, cioè una dimensione costitutiva, propria, peculiare e, quindi, connotativa della nostra vita.

E di quale vita si tratta? Della vita credente, certamente: quella comunitaria e quella personale. Perciò quella che, comunemente, chiamiamo vita spirituale. Tuttavia la vita spirituale è tale in senso forte, direi in senso pneumatico, giacché ha a che fare con l’azione dello Spirito Santo in noi.

E lo Spirito, benché si distingua dalla carne, così come ‒ nel testo biblico ‒ si distingue dalla lettera, nondimeno non se ne distacca mai: lo Spirito è sempre nella lettera, così come è sempre nella carne, vale a dire che resterebbe etereo, astratto, se non si rendesse presente nella disponibilità e nella capacità degli esseri umani d’ascoltare e di riecheggiare il dirsi divino, nella loro esistenza storica, nel loro vissuto quotidiano.

Ecco: una teologia dello Spirito nella carne, o dello Spirito nel vissuto feriale, ovvero una teologia della storia di questi nostri giorni, mi pare possa essere – nelle nostre Chiese meridionali – una maniera peculiare di pensare e ripensare lo stile cristiano come compito e prerogativa di tutti: del vescovo come dell’amministratore pubblico, del prete non meno dell’operaio o del medico, del religioso non meno del laico, del professionista e dell’artista, e così via senza escludere o esentare più nessuno.

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