Vent'anni della convenzione sui diritti dell'infanzia. I bambini invisibili

di Carlo Bellieni

Il 2 settembre 1990 entrava in vigore la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia. Vent’anni e un triste bilancio, a leggere la rivista "Lancet" del maggio 2010: nonostante le dichiarazioni di intenti – vi si legge – i bambini restano ancora "invisibili". A cosa si deve questo fallimento? Alla mancata attuazione di politiche transnazionali, certo. Ma soprattutto al fatto che respiriamo ovunque propagande antinatalistiche, trasformiamo il figlio in un "diritto", lo accettiamo solo se è "su misura", prima che nasca e dopo che è nato. Insomma, il bambino ha diritti solo se è "conforme" e sa scimmiottare gli adulti: pessima premessa per dei diritti universali. Ma da dove viene quest’incapacità ad accettare il bimbo come tale? Dal fatto che il bambino – dall’embrione in poi – ci obbliga a riconoscere l’essenza della natura umana che è dipendenza dall’altro: eresia, nell’epoca che sacralizza l’autodeterminazione solitaria; e obbliga dunque a riconoscere la nostra personale fragilità e dipendenza, cosa che al fondo ci spaventa. Viviamo infatti in una società intimorita dalla stessa idea di "figlio", come scriveva Bob Dylan in Masters of War (1963): "Avete sparso la peggior paura: paura di mettere figli al mondo. Poiché insidiate il mio figlio non nato e senza nome, voi non meritate il sangue che scorre nelle vostre vene". È una società spaventata e fobica quella che rifiuta il bambino. La pedofobia si vede in mille segnali. I bimbi una volta erano i padroni delle strade; oggi al massimo li lasciamo partecipare a feste o fare sport quando loro vorrebbero semplicemente giocare. Non c’è più spazio per i bambini neanche nelle case, dato che spesso non è permesso loro toccare nulla e soprattutto non è permesso loro sporcarsi, che in misura giusta serve alla loro crescita. Ed è una società pedofobica perché lascia nascere i bimbi solo dopo che hanno passato esami prenatali di massa, perché li vede come un diritto dei genitori, che arrivano a congelarli quando sono piccoli embrioni ma poi a soffocarli di giocattoli per coprire la propria incapacità di essere presenti, determinando patologie di ansia o di rabbia nei piccoli. La pedofobia culturale è ben rappresentata da un mondo senza alberi ma pieno di computer, dove le scuole elementari moltiplicano le cose da insegnare come se i bimbi fossero degli apprendisti adulti invece che individui disperatamente alla ricerca del gioco gratuito sociale e creativo; tanto che in Inghilterra rivalutano per le elementari il ritorno a quelle che con ironia chiamano le tre r: reading, riting, ritmethic ("leggere", "scrivere", "far di conto"). Ma non basta: i bambini crescono con modelli di affettività alterati da immagini mediatiche fatte per colpire e vendere prodotti, con la libertà massima di fare tutte le esperienze sessuali sempre più precoci ma con il divieto assoluto di pensare a far famiglia e figli. Un terrorismo antinatalista li deruba di vent’anni di vita riproduttiva avviandoli alla sterilità per anzianità. Ci possiamo stupire quindi che in una società pedofobica, che guarda il bimbo come un oggetto e in cui lo sviluppo affettivo degli adulti viene ritardato e spesso alterato da modelli maniacali, proliferino pedofilia e bullismo? Le carte dei diritti lasciano il bambino invisibile quando non obbligano a un cambiamento di mentalità degli adulti, che sono i primi a considerarsi ingranaggi di un meccanismo produttivo in cui si devono precocemente inserire, in cui ci si sente accettati solo se si passa al vaglio dell’omologazione genetica e culturale. Non stupiamoci allora se non riescono ad accettare il bimbo, il non ancora omologato per eccellenza: la società pedofobica per sua natura seleziona e discrimina; e se riconosce dei diritti, finisce per riconoscerli in maniera selettiva, pur a fronte di buone dichiarazioni di intenti. Non ci stupiamo dunque dell’insuccesso denunciato da "Lancet": buone dichiarazioni, appunto, ma lanciate in un mondo culturale impreparato. Non si possono affermare i diritti dei bambini senza capire che la prima violenza è la pretesa che l’altro risponda al nostro progetto, certamente una pretesa che va al di là del mondo infantile. Se manca questo, si distinguono paradossalmente i diritti del bimbo non ancora nato da quelli del neonato, e quelli di quest’ultimo da quelli del bambino più grande, e si finisce col distinguere i diritti del bimbo occidentale da quello dei Paesi in via di sviluppo. La politica deve capire, prima di scrivere carte di diritti e creare politiche per i minori, che essi non sono un riflesso dei desideri dei genitori che generosamente li accettano solo dopo esami genetici prenatali, o cui fanno spazio in città e scuole fatte esclusivamente a misura dei grandi. Il bambino ha pieni diritti umani e il primo diritto è saperlo ascoltare, e capirne le vere richieste, anche quando non può parlare. La violenza – dal concepimento ai banchi scolastici – ha varie gradazioni e sfumature, ma ha una matrice culturale unica: dimenticare che i figli nascono da noi ma non sono nostri. (©L’Osservatore Romano – 2 settembre 2010)