Una liturgia tutta parole finisce per nascondere l’effetto emotivo della Parola fatta carne, morta e risorta

“Ma se è risorto, perché non si vede?”. Veronica ha 8 anni. E nel bel mezzo del Vangelo di Luca sulla resurrezione mi fulmina con questa domanda. Che finalmente mi fa percepire una strana irritazione che ho dentro fin dall’inizio della veglia.

Alle 21,30 sono iniziate le prove dei canti, con mezza chiesa vuota. Il prete insiste più volte sul senso e sul modo del canto: “È un canto di gioia, non potete cantarlo come se aveste il mal di pancia… No!! Un po’ di gioia… metteteci dentro un po’ di gioia”. Ma l’assemblea, nonostante la buona volontà, mostra di non “ritrovarsi” con quei canti… “Eh, certo che chi non sa il gregoriano non sa cantare bene queste cose…” , chiosa il prete, ma lo stile e la scelta dei canti non sembra proprio adatta a quel tipo di assemblea, mentre a lui piace proprio.

Ma l’irritazione mi assale in pieno quando, alle 22 precise, inizia la veglia. Un commentatore introduce la liturgia con una spiegazione che è un trattato di teologia di circa dieci minuti. E nel tentativo di far comprendere i segni di quella liturgia ne spegne l’attrattiva emozionale per chi, vivendoli direttamente, si sarebbe potuto stupire e interrogare su quei segni, che invece così vengono vissuti come già scontati. E infatti, durante la processione della luce il prete richiama due volte ad alta voce: “Non accendete le candele con gli accendini, se no il senso si perde!!”.

Poi all’inizio della liturgia della parola, ancora il commentatore che cerca di riassumere il senso delle nove letture. Senso che viene poi ripetuto esattamente uguale dal celebrante nella esortazione prevista dal rito prima della prima lettura. Siamo al paradosso: la spiegazione della spiegazione. Poi le sette letture. A metà delle quali Adriana, la mia fidanzata e madre di Veronica, mi dice nel suo splendido napoletano: “Ma il Vangelo che r’è? Nà litania passaguai?” Che dice tutta l’emozione noiosa e affaticata che aleggia nell’assemblea durante la lettura, per il modo molto “triste e controllato” che hanno i lettori. E nemmeno i canti dei salmi riescono a far “salire il tono”, perché tutti salmodiati in rettotono. (Ma il cantico di esultanza dell’Esodo non viene nemmeno cantato!)

Però l’apice della stonatura emotiva arriva al gloria. “Ecco, fratelli – introduce il prete – ci siamo preparati per 40 giorni per esplodere in questo canto di gioia…”. E attacca il gloria in latino sul quarto modo gregoriano, che nessuno canta, sia perché nel foglietto di ben 36 pagine stampate al computer non c’è, sia perché la melodia è davvero complessa. E pure le luci accese d’improvviso e le campane slegate a festa non riescono a dare il senso della gioia. Cosi, mentre il sacrista accende (con l’accendino!!) le candele dell’altare, Veronica se ne esce con la sua domanda innocente che svela la contraddizione.

Ho tenuto i tempi. Due ore esatte dall’inizio della veglia all’inizio della liturgia eucaristica. E 19 minuti dall’inizio della liturgia eucaristica all’uscita della Chiesa. Anche i tempi hanno un senso. Una liturgia tutta parole finisce per nascondere l’effetto emotivo della Parola fatta carne, morta e risorta. Celebriamo un fatto, storico e fisico: un corpo risorto. Eppure il nostro corpo resta quasi passivo e immobile per due ore e passa. Solo al Padre nostro, con quel gesto della mani aperte, l’assemblea sembra risvegliarsi fisicamente, che però sembra come strappato dall’assemblea al ferreo controllo del celebrante. E poi il segno della pace, in cui sale un movimento di incontro e sorriso.

Ma come? Proprio in una liturgia che sarebbe tutta piena di segni di movimento riusciamo a mettere in secondo piano ancora una volta il vissuto sensoriale ed emotivo. E a voler a tutti costi far passare un mistero che ci sovrasta infinitamente, attraverso la nostra limitata comprensione razionale e consapevole. Invece di essere chiamati a viverlo, “tirati” dentro al mistero dall’emozione e dalla sorpresa dei gesti e delle azioni, tipiche di questa notte!

All’uscita dalla Chiesa Adriana mi dice: “L’unico momento che mi ha commosso è stato il canto della comunione”. E infatti, lì l’assemblea si è “sentita” e si è “accesa”. Un canto evidentemente conosciuto e già “vissuto” altre volte, che ha permesso di esprimere il desiderio di ringraziamento e di abbandono a Dio in modo anche emotivo. Finalmente!

Mi ha fatto venire in mente una frase dell’introduzione di un bellissimo testo: M. C. Jacobelli – Il risus paschalis – Queriniana”. Mostra come la strana abitudine dei preti tedeschi, dal 1500 al 1800, di far ridere i fedeli nella Messa di pasqua, anche in modo un po’ volgare, in verità sia il segno di un bisogno di “tradurre” la gioia pasquale in qualcosa di percepibile anche dai sensi, quindi di qualcosa che si avvicina al piacere, anche del corpo. L’autrice, allieva del grande teologo domenicano Marie Dominique Chenu, nel presentargli il lavoro prima della pubblicazione riceve questa risposta di Chenu: «Non parlate mai di gioia, madame, parlate sempre di piacere, altrimenti lo interpreteranno in modo spiritualizzato e sarebbe il più grande tradimento di Gesù!».

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