Un pallone per sognare

DI ANNA POZZI  – avvenire

Lui, quel Christian Caulker, non ricordava neppure chi fosse. «A quei tempi me ne saranno passati tra le mani tremila di Christian Caulker!».

Senonché, quel Christian Caulker, da qualche mese, è portiere di riserva del Manchester United. Padre Bepi Berton, missionario saveriano da quarant’anni in Sierra Leone, prova a ricordare quel ragazzino ferito e pieno di droga, ma con l’arma ben stretta in mano, che gli hanno portato una sera di dieci anni fa, quando la guerra trasformava, con perversa alchimia, i bambini in soldati.

Padre Bepi ne ha salvati molti come Christian, che presso la Family Home ha ritrovato se stesso e Dio. Anche grazie a un campetto sassoso dove tirare quattro calci a un pallone, e intanto imparare a stare insieme e a rispettare qualche regola.

«Anche questo è un bel sogno ­dice padre Bepi – potere mettere a posto quel campetto, dargli una dignità, non foss’altro perché ha il merito di avere partecipato alla cura terapeutica di tanti ragazzi, che sfogavano la loro aggressività nella competizione».

«Father, father, a ball! Padre, padre, una palla!». I ragazzi di Freetown conoscono tutti padre Bepi. Lui tiene sempre una palla in macchina, che lancia dal finestrino. «Basta una pallina da tennis per far sognare il Manchester United!», dice scherzando. E continua: «Ti lascia incantato in città, dove il traffico è intenso e caotico, vedere come se la cavano a giostrare quella palla tra il passaggio di una macchina o di una moto e perlopiù in salita o in discesa, dipende da che lato ti ha assegnato la monetina. E la palla è sempre floscia, perché se fosse ben gonfia non la troveresti più». Ora padre Bepi è impegnato a cambiare gli orari della Messa, in vista dei Mondiali di calcio. «Se coincidono con le partite ­scherza, ma non troppo – , in chiesa non ci viene più nessuno!

Una soluzione però la troviamo.

Specialmente se il calcio ci può aiutare a vivere meglio insieme.

Anche la fede.» L’Africa è piena di esempi come questo. Missionari, associazioni, ong, persino le Nazioni Unite, stanno usando utilmente il calcio come strumento di educazione, formazione, risoluzione dei conflitti e di dialogo.

In Camerun, padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime, non solo non si perde mai la partita settimanale con i suoi ragazzi di strada, ma usa il calcio per ‘reclutare’ i suoi formatori ed educatori. «Quando qualcuno vuole lavorare con me ­racconta dal centro Edimar di Yaoundé. – gli chiedo innanzitutto di venire a giocare a calcio con noi il sabato mattina, per quattro settimane. Lì vedo la loro capacità di stare con i ragazzi, di gestire le tensioni e le possibili risse, di reagire agli insulti. Se superano questo test, sono arruolati. Dopodiché, cominciamo insieme percorso di formazione».

Dall’altra padre dell’Africa, in Kenya, padre Kizito Sesana, missionario comboniano, si occupa da più di vent’anni bambini di strada. E alla periferia di Nairobi ha creato una piccola squadra di street children.

«Una cosa semplice e informale – racconta il missionario – ; qui il calcio è popolarissimo e molto amato da tutti. I ragazzi giocano ovunque, in strada e nei posti più impensabili. È stato del tutto spontaneo, quindi, pensare di creare una squadretta con i nostri bambini».

Solo che un po’ alla volta quella ‘squadretta’ ha scalato inaspettatamente le classifiche di tutti i gironi a cui ha partecipato, sino a che lo Yassets Football Club è riuscito ad aggiudicarsi addirittura il campionato di serie B.

«Avremmo potuto andare in prima divisione ­spiega padre Kizito – , ma a quel punto abbiamo deciso di fermarci, sia per ragioni economiche, sia perché si rischiava di perdere il senso di questa esperienza, che voleva mantenere innanzitutto un valore educativo».

«Più le condizioni di vita sono difficili più le emozioni che regala lo sport sono immediate e vere».

Ne è convinto il presidente nazionale del Centro sportivo italiano (Csi), Massimo Achini, non solo a partire dalla decennale esperienza italiana del Csi, ma proprio da un’’avventura’ africana. A metà degli anni Novanta, infatti, il Csi è ‘sbarcato’ in Camerun, dove ha cominciato una nuova esperienza al fianco del Centro Orientamento Educativo (Coe), che in questo Paese ha un’esperienza di quarant’anni.

«Abbiamo trovato grande entusiasmo e motivazione ­racconta Achini – sia negli operatori che nei ragazzi.

Abbiamo così deciso di organizzare un corso per allenatori e un primo torneo che si è svolto per lo più nei villaggi in foresta. Un’esperienza bellissima. Abbiamo constatato che lo sport, e il calcio in particolare per il quale c’è una grandissima passione, funziona tantissimo come strumento di aggregazione e di educazione».

Da questa prima esperienza è nato, nel 1998, il Centro sportivo camerunese (Csc), che oggi conta più di 1.500 iscritti e coinvolge migliaia di bambini e giovani in attività sportive, e specialmente nel calcio, con una precisa valenza educativa.

«Quello che cerchiamo innanzitutto di fare – spiega il responsabile del Csc, Francis Kammogne – è quello di sviluppare, accanto ai valori fondamentali dello sport, quelli del progresso sociale, culturale ed economico della società camerunese. In questo modo, riusciamo a mobilitare bambini, giovani e adulti anche sui diritti e doveri di cittadinanza».