Ucraina-Russia: per un realismo politico

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Ospitiamo un intervento di Danilo Breschi sulla guerra russa contro l’Ucraina. Il prof. Breschi è docente associato di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma, dove insegna Teorie dei conflitti, Fondamenti di politologia ed Elementi di politica internazionale.

Se vuoi la guerra, predica e pratica idealismo e assolutismo morale nelle relazioni internazionali. Se vuoi la pace, teorizza e applica realismo e relativismo morale. In giuste dosi. Questa è regola aurea in quell’arte difficilissima che è la diplomazia.

Oggi più difficile che mai in tempi di cancel culture, perché l’arte della risoluzione pacifica dei conflitti internazionali tramite la mediazione e il compromesso richiede, fra l’altro, ampie conoscenze storiche e rispetto per le tradizioni altrui. Recupero e analisi approfondita del passato e delle culture altre, non certo la loro rimozione e cancellazione.

Rispetto non significa condivisione o approvazione. Significa che avverti tutta la distanza che ti separa dall’interlocutore, autentico “diverso”, perturbante “Altro” da te. Fastidioso e urticante, persino. Opposto fino al limite dello scontro fisico. Ma è proprio qui il punto. Delicatissimo.

L’Europa

Se vuoi evitarlo, quello scontro, cosa fare? Si vis pacem para bellum, dicevano gli antichi Romani. E questa pare la via intrapresa dall’Unione Europea da quando Putin ha deciso l’aggressione militare all’Ucraina, uno Stato democratico libero e indipendente.

Ad esser precisi, la massima latina intende dire che il modo migliore per dissuadere eventuali propositi aggressivi degli avversari è quello di armarsi e prepararsi a combattere. Ora, a fatto compiuto, si tratterebbe semmai di far capire all’aggressore che deve fermarsi quanto prima perché da parte europea, se i russi perseverano nell’errore, si è pronti persino a scendere in campo a fianco dell’aggredito. Armi in pugno. Ora, dato che l’aggressore è una potenza nucleare, la massima latina, peraltro introdotta fuori contesto, ovvero a guerra ormai scoppiata, rischia di peggiorare la situazione. E in modo tragico, se non catastrofico. Dunque, resta inevasa la domanda: che fare?

Se quanto finora dichiarato e attuato dai vertici dell’UE è motivato dalla tattica riassunta nel messaggio chiaro e forte: «sappi Putin che siamo uniti e risoluti a non concederti annessioni con l’uso delle armi», va bene. Si tratterebbe di una prima fase, doverosa e intelligente. Proporre subito un negoziato equivarrebbe a dire: «ok, Putin, tu vuoi porzioni di Ucraina o la sua neutralità; te la concediamo nonostante tu abbia palesemente violato il diritto internazionale». Ciò non è ammissibile, ma soprattutto propedeutico ad un compromesso che sia davvero tale, ossia non vantaggioso per la sola Russia.

C’è però la necessità di non prolungare troppo a lungo una simile fase atta a contenere la prepotenza putiniana. In tempi di enfasi mass mediatica e idealismo nella politica estera occidentale, concezione per cui le categorie di bene e male sostituiscono quelle di utile e dannoso, è assai elevato il rischio di una escalation che diventi irrefrenabile fino a precipitare in un’estensione del conflitto armato.

Questione ucraina

Nel 2014, sulle colonne del Washington Post, Henry Kissinger esordiva con le seguenti considerazioni: «La discussione pubblica sull’Ucraina è tutta incentrata sul confronto. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita ho visto quattro guerre iniziate con grande entusiasmo e sostegno pubblico, senza sapere, per tutte, come sarebbero finite e da tre delle quali ci siamo ritirati unilateralmente. Il test della politica è come finisce una guerra, non come inizia».

Nello specifico, «troppo spesso la questione ucraina è presentata come una resa dei conti: se l’Ucraina si unisce all’Est o all’Ovest. Ma se l’Ucraina deve sopravvivere e prosperare, non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra – dovrebbe funzionare come un ponte tra loro». Inoltre, l’ex segretario di Stato americano aggiungeva che, da una parte, «la Russia deve accettare che tentare di costringere l’Ucraina a diventare un satellite, e quindi spostare di nuovo i confini della Russia, condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia di cicli che si autoavverano di pressioni reciproche con Europa e Stati Uniti»; dall’altra parte, «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero. La storia russa è iniziata in quella che era chiamata la Rus’ di Kiev. La religione russa si è diffusa da lì.

L’Ucraina ha fatto parte della Russia per secoli, e le loro storie erano intrecciate prima di allora. Alcune delle più importanti battaglie per la libertà russa, a partire da quella di Poltava nel 1709, furono combattute sul suolo ucraino. […] Persino dissidenti famosi come Aleksandr Solgenitsin e Iosif Brodskij hanno insistito che l’Ucraina era parte integrante della storia russa e, in effetti, della Russia».

Globalismo americano

La configurazione ideale per lo Stato ucraino in termini di politica dell’equilibrio sarebbe dunque, concludeva Kissinger, una posizione paragonabile a quella della Finlandia. Nazione indipendente e neutrale rispetto al confronto che si è riacceso, tra Est e Ovest.

Il peso della storia, dunque. E della geografia. Geopolitica, appunto. Ecco che cosa sembra mancare alla politica internazionale occidentale: la consapevolezza di quanto soggetti geopolitici imponenti, come la Cina e la Russia, siano guidati da leadership che ragionano secondo una logica di potenza che sfida quella statunitense. Talvolta pare residuare nella mentalità europea un’idea unipolare del sistema delle relazioni internazionali, incentivata quando alla presidenza americana vi sono esponenti del partito democratico. One World, One People. La globalizzazione come americanizzazione.

Sempre in quell’illuminante articolo del 2014, Kissinger ribadiva che «la politica estera è l’arte di stabilire le priorità». A guidare le scelte deve essere il principio di realtà, ossia il calcolo oggettivo dei rapporti di forza in campo. Se ci avete fatto caso, ciò che al momento è assente dal dibattito sulla guerra in corso è il concetto di «equilibrio di potenza». Concetto, ma anche pratica politica, dalle radici lontanissime, tanto che taluni ravvisano nelle relazioni esistenti tra le città-stato italiane del XV-XVI secolo. Oggi la sola espressione suscita riprovazione morale.

Una forma di puritanesimo che non aiuta affatto le politiche di distensione sul piano internazionale. Il mondo è oggi governato da più potenze, almeno tre (USA, Cina e Russia), tutte dotate di armi nucleari e tutte desiderose del proprio «spazio vitale» e delle proprie «sfere di influenza». Può dispiacere, ma dire che nel ventunesimo secolo queste due formule sono solo anacronismi significa negare la realtà e gettare benzina sul fuoco. Rispondere alle paranoie di Putin con altre paranoie non serve a nulla, anzi. Intransigenza su intransigenza porta allo scontro frontale e precipita tutti i contendenti nel disastro.

Realismo o moralismo?

In Occidente prevale il moralismo sul realismo. L’assolutismo morale soppianta il principio di realtà. Ci sono segnali che lasciano interdetti. È notizia di questi giorni di una censura che si è tentato di praticare da parte di una prestigiosa università milanese.

Censura preoccupante, se non fosse anzitutto ridicola. Lo scrittore Paolo Nori, autore di un apprezzato e fortunato libro su Dostoevskij, a metà tra romanzo e biografia, finalista al Campiello, ha ricevuto il primo marzo la seguente email dall’Università Bicocca di Milano: «Caro professore, stamattina il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione presa con la rettrice di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».

Annullato così un ciclo di quattro lezioni dal titolo «La grande Russia portatile. Viaggio sentimentale nel paese degli zar, dei soviet, dei nuovi ricchi e nella più bella letteratura del mondo». Il clamore suscitato dal provvedimento, reso noto dallo stesso Nori attraverso i propri canali social, pareva aver riportato in poche ore il senno nei vertici della Bicocca.

Il corso si farà. Anzi no, perché il prorettore Casiraghi motiva così la sospensione: «ristrutturare il corso e ampliare il messaggio per aprire la mente degli studenti. Aggiungendo a Dostoevskij alcuni autori ucraini». Una sorta di par condicio in letteratura. La toppa è peggiore del buco. Al che Nori ha risposto: «Io purtroppo non conosco autori ucraini, per cui li libero dall’impegno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove». Fine (brutta) della vicenda.

Forse bisognerebbe leggerlo di più, non di meno, il nostro Dostoevskij. «Nostro», perché lo scrittore russo, che peraltro nacque socialista, quasi rivoluzionario, e morì reazionario, sostanzialmente nazionalista e slavofilo, appartiene al patrimonio della cultura mondiale, non solo europea. Quanta influenza ha avuto, ad esempio, sulla letteratura giapponese prima e dopo la seconda guerra mondiale? Enorme.

La sua figura e la sua arte ci dicono della complessità umana, della sua contraddittorietà spesso insanabile, esplosiva. La stessa che si mostra in queste settimane di angoscia. Se è palesemente errato, oltreché controproducente, sospendere un corso di letteratura russa, quanto meno discutibile resta l’estromissione da manifestazioni ed eventi già programmati di artisti o sportivi russi che non prendano pubblicamente le distanze da Putin e dalla politica del proprio Paese. È il fatto di chiederlo, pena la rescissione di un contratto, che desta qualche perplessità, ferma restando la nostra condanna dell’aggressione russa. Siamo o non siamo democrazie fondate sulla libertà di espressione e sul dissenso?

La si potrebbe forse valutare come una forma di boicottaggio e di sanzione culturale, non secondaria forma di pressione sull’opinione pubblica russa, tale da spingere Putin a desistere dal violento disegno espansionistico che ha messo in atto. Il dubbio resta. Altro discorso merita una decisione come quella presa autonomamente da Elena Kovalskaya, direttrice del teatro statale Meyerhold di Mosca. Il giorno dopo l’attacco russo in Ucraina ha rassegnato le dimissioni affermando che «è impossibile lavorare per un assassino e riscuotere uno stipendio da lui». Scelta libera e coraggiosa.

Scienza della politica

L’impressione è che l’attuale crisi internazionale sia figlia anche di un deficit culturale in termini di scienza della politica internazionale.

Se davvero vuoi la pace, non solo devi costruirla per tempo dimostrando che i tuoi confini sono protetti e la tua comunità interna è solida. Devi saper costantemente adoperare un principio di realtà, il solo con cui è possibile far convivere su uno stesso pianeta due superpotenze e mezzo, assieme ad altre potenze regionali, gran parte delle quali non rette in forma democratica.

Forse, la stessa Russia è una potenza regionale con velleità da superpotenza mondiale; ed è questa la minaccia maggiore che Putin incarna. Ciò significa, come insegna Kant, che per favorire una pace duratura, se non perpetua, aiuterebbe avere un maggior numero di regimi rappresentativi, liberalmente eletti, in cui i cittadini sono davvero sovrani, o comunque influenti?

Può darsi, ma in politica occorre fare i conti con la realtà e i rapporti di forza esistenti. La globalizzazione ha aumentato il dislivello tra aree del mondo e ha favorito alcuni e svantaggiato altri. Interventi scomposti degli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 hanno creato vuoti e squilibri in alcune regioni. Il Medio Oriente soprattutto. Le vicine di casa, Cina e Russia, non sono state a guardare. Urge la virtù della negoziazione. L’Europa dovrebbe esserne l’incarnazione, culturale e politica.

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