Testimoni della speranza

di Antonio Tarzia

All’inizio del secondo secolo, nell’estate del 107, il vescovo di Antiochia, Ignazio, successore di Pietro, era in viaggio verso Roma. Come Paolo di Tarso quarant’anni prima, viaggiava sotto scorta armata verso un martirio annunciato. A piedi, con gli altri compagni, percorse la via Egnatia e l’Appia. Si era imbarcato ad Antiochia e si reimbarcò a Durazzo. A Smirne, dove era vescovo Policarpo, ebbe una sosta prolungata e scrisse quattro lettere: ai cristiani di Roma e di Efeso (già destinatari di due epistole paoline) e ad altre due Chiese dell’Anatolia. La lettera ai Romani è un capolavoro di spiritualità e un’apologia del martirio: egli cerca di dissuadere i fratelli che hanno influenza alla corte dell’imperatore dal cercare sconti o privilegi perché si dice pronto a versare il suo sangue per Cristo. Pronto ad affrontare le belve dell’arena ed essere stritolato dai loro denti, macinato come frumento per diventare pane di Cristo. Il 14 giugno scorso, nel Duomo di Milano, si sono celebrati i funerali del vescovo Luigi Padovese, vicario apostolico per l’Anatolia, barbaramente trucidato in un rituale esecrabile. Il vescovo di Smirne, successore di Policarpo (a cui Ignazio di Antiochia aveva inviato una lettera da Troade, sempre lungo il viaggio per Roma), verso la fine del rito funebre si è avvicinato al microfono: «Ho detto che non avrei parlato della morte di monsignor Padovese e non lo farò. Del resto, cosa volete che vi dica di un vescovo missionario ucciso nella solennità del Corpus Domini? Per lui parlano il suo corpo spezzato e il suo sangue versato "per tutti!"». Nel 110 si è fatto grano Ignazio per essere "macinato" dalle fiere. E nel 2010, come ha detto il cardinale Tettamanzi nella sua omelia, «chicco di grano si è fatto padre Luigi, diventando guida della Chiesa di Anatolia, una Chiesa di minoranza, spesso sofferente e provata…». In questi duemila anni di cristianesimo, la testimonianza estrema del proprio credo, firmata col sangue, è stata chiesta a tanti vescovi, esempi d’altruismo e pastori in prima linea. Solo negli ultimi quindici anni ben dieci vescovi sono stati uccisi barbaramente. Il primo della lista è monsignor Pierre Lucien Claverie, morto nel 1996 per l’esplosione di una bomba nel suo episcopio in Algeria. Aveva appena commemorato l’eccidio dei sette monaci trappisti di Tibhirine. Nello stesso anno, altri due vescovi, uno nel Burundi e uno nello Zaire, hanno perso la vita in due diversi agguati. L’Africa, in questi quindici anni, ha visto la morte di ben cinque vescovi, due l’America latina, due il Medio Oriente, il più giovane nelle Filippine: aveva solo 56 anni monsignor Benjamin De Jesus. Nella lettera pastorale 2006-2007 dal titolo Siate sempre pronti a testimoniare la speranza che è in voi, monsignor Luigi Padovese scriveva ai suoi fedeli: «Ora voglio invitarvi a guardare in alto e a vincere la tristezza e lo scoramento, dal momento che la nostra speranza cristiana è più forte di ogni certezza, perché fondata su Cristo, morto e risorto per noi». Antonio Tarzia in Jesus luglio 2010