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Irriverente, sarcastico, a volte perfino osceno, tuttavia animato da profondo e autentico senso religioso. Ancora oggi il poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) addita con sagacia i conti che non tornano. Nessuno scampava alla sua penna appuntita, nemmeno il papa che era suo sovrano e datore di lavoro. Nel suo mirino c’erano anche alcuni aspetti della predicazione e della catechesi del tempo, che gli sembravano incongruenti con la vita, col buon senso e quindi con Dio. In un sonetto urticante, La morte co la coda, composto nel 1846, egli prende a bersaglio l’immagine di eternità allora diffusa (solo allora?). La poesia parla della movimentata, complessa vicenda umana: dolori, amori, ricchi e poveri, astuti e sfruttati, tormenti e piaceri… Tutto precipita nel medesimo imbuto: la morte. Ma ecco una differenza: l’Inferno e il Paradiso che diversificano i destini. Eppure proprio qui cominciano «i guai», perché la vita dell’altro mondo dura sempre e non finisce «mai». È esattamente quel «mai» a sconcertare il poeta. Insomma, a dannati e beati è riservata ancora una medesima sorte, «sta cana eternità» che «ddev’esse eterna!»: questa cagna eternità, purtroppo eterna.
Per il Belli il problema non è che l’aldilà duri per sempre, ma che sia totalmente opposto al carattere “mosso” e mutevole della pur faticosa esistenza terrena. In aggiunta tale immobilità durerà sempre, un’immutabilità perenne. Sinceramente, come dargli torto? Nel sonetto lo spirito insorge e si ribella contro un esito così spento e fisso. È l’assenza di movimento, e quindi di tempo, a terrorizzare il Belli. Il suo spavento deriva dall’identificazione, allora diffusa (solo allora?), tra eternità, assenza di tempo e mancanza di cambiamento.
Tale coincidenza però ha poco a che vedere con il Dio cristiano. Certo, egli è immutabile, ed entrare nella sua vita significa goderne l’immutabilità. Tuttavia, per le Sacre Scritture “immutabilità” non indica assenza di cambiamento, ma “fedeltà”. Dio è immutabile perché, una volta stabilito un legame, non cambia, rimanendo fedele a ogni costo, perfino a costo della morte del Figlio. È risaputo che bisogna cambiare, proprio per restare fedeli a una persona o a una situazione. Perciò Dio è diventato addirittura carne.
Secondo la Bibbia, il cambiamento, e quindi il movimento, è requisito dell’immutabilità. La Rivelazione ebraico-cristiana giudica e converte le categorie filosofiche e culturali alla luce dei legami, poiché Dio è colui che ama legarsi. Questo vale anche per l’aggettivo “eterno” che non significa “senza tempo”, “fuori dal tempo”, bensì “un tempo che dura”, un tempo così gravido da non potersi misurare con minuti, ore, giorni e anni.
Qualcosa del genere capita quando siamo felici. Da un punto di vista strettamente cronologico magari siamo felici solo per brevi momenti – parliamo di “attimi di felicità”. Eppure, il tempo della felicità è così intenso da insaporire a lungo il palato dell’anima. Un istante di felicità è più vitale, energico, denso di molti anni messi insieme. L’eternità è un tempo altro, e i momenti di felicità permettono d’immaginarlo fin d’ora. Non solo: senza il tempo Dio potrebbe essere, come san Giovanni lo definisce nella sua prima lettera (1Gv 4,8), “amore”? L’attesa della persona amata – quanto sta attendendo Dio? – non si misura con l’orologio, poiché quel tempo è amore. La memoria dell’amata o dell’amato non si calcola con i giorni trascorsi dall’evento ricordato, perché quel tempo è amore.
Se non ci fosse il tempo non ci sarebbe nessuna sorpresa: un’immobile conoscenza che sa già tutto in anticipo non si aspetterebbe niente di nuovo da nessuno. Chi osa negare a Dio la capacità di sorprendersi, quando fin dalla prima pagina delle Sacre Scritture (Gen 1,4-31), si legge che egli stesso si stupì davanti alla meravigliosa bellezza dell’opera delle sue mani? Com’è possibile amare ed essere incapaci di stupore e sorpresa? Si potrà mai amare senza il coraggio che è l’imprevedibile inizio di tutto e inaugura qualcosa di nuovo nell’istante di una decisione che protesta contro ogni inerzia e alibi? L’istante del coraggio non si misura in secondi e minuti, perché è amore. E noi, in nome di una stramba idea di eternità, vorremmo negare a Dio l’attesa, la memoria, la sorpresa e il coraggio? Con la sua poetica graffiante, Belli non ci sta. E nemmeno Dio.
*Il testo di Giovanni Cesare Pagazzi, teologo e segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, è l’editoriale del numero 287 di Luoghi dell’Infinito, in edicola da martedì 3 ottobre, dal titolo “Sguardi sull’eternità”.