In Terra Santa la pandemia ha trasformato i luoghi di culto in spazi deserti

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Osservatore Romano

«La pandemia di coronavirus che continua a minacciare il mondo intero si è già trasformata da semplice crisi sanitaria in una crisi economica, sociale e umana su scala mondiale. Sento il grido di uomini e donne di Israele mentre il loro mondo crolla…». Ad esprimersi così non è un semplice opinion maker, ma Reuven Rivlin, il presidente israeliano in persona, sulle pagine di un sito web di notizie locali. E continua:  «In Israele non abbiamo mai dovuto affrontare una pandemia di queste proporzioni, ma abbiamo dovuto affrontare altre sfide decisive, e ne siamo usciti forti e vincitori… In quest’ora difficile, noi tutti — guide politiche e membri della società — dobbiamo tornare ai nostri valori essenziali, alla solidarietà sociale e all’unanimità. Dobbiamo uscire insieme dalla crisi».

Di certo, la situazione non è facile. Se a marzo scorso le misure draconiane assunte dal governo israeliano erano parse a molti eccessive, di fatto avevano consentito di contenere in maniera efficace il numero dei contagi in Israele. Da maggio in poi però la situazione è cambiata drasticamente. La riapertura delle scuole per le celebrazioni conclusive dell’anno scolastico ha scatenato una nuova ondata di contagi, molto più massiccia che nei mesi precedenti. Nei giorni scorsi, nel territorio israeliano sono stati registrati oltre 1.700 casi al giorno. L’eventuale superamento della soglia dei 2.000 avrebbe comportato — così annunciavano le autorità sanitarie — un nuovo lockdown totale. Solo il 19 luglio si è scesi di nuovo sotto le mille unità; ma già il giorno seguente i nuovi casi erano 1.183. I pazienti in terapia intensiva sono più di 200, contro i 42 di due settimane fa. La situazione, del resto, non è meno preoccupante nei territori della West Bank. L’Autorità Palestinese ha recentemente dichiarato 6.566 casi: pochi, se confrontati con altri Paesi del mondo; ma sono triplicati rispetto ai primi di giugno, mentre i decessi sono passati da 7 a 58. Il maggior centro di diffusione del virus al momento è il distretto di Hebron, dove si contano il 60 per cento dei casi. Il sistema sanitario palestinese non è certo attrezzato per affrontare un’epidemia su larga scala.

Le strategie di controllo da parte del governo israeliano sono pervasive. Nelle scorse settimane in molti hanno protestato contro il tracciamento dei cellulari. Basandosi sull’analisi dei tracciati, le autorità israeliane hanno obbligato alla quarantena migliaia di persone, che si presumeva fossero entrate in contatto con persone contagiate. Le multe per chi non indossa la mascherina sono salate, e i controlli frequenti e rigorosi. Per evitare assembramenti, in molti luoghi gli accessi sono limitati. Il problema maggiore, a Gerusalemme, riguarda ovviamente i luoghi di culto. La spianata delle moschee, dopo la chiusura totale di alcuni mesi fa (peraltro in concomitanza con il ramadan) ha riaperto i battenti, con l’impegno di garantire il rispetto delle misure di sicurezza. Il Muro Occidentale rimane abbastanza frequentato, benché il piazzale sia suddiviso in settori transennati, per consentire un facile conteggio delle presenze e il relativo distanziamento.

Il Santo Sepolcro invece è formalmente aperto, ma rimane vuoto perché non ci sono pellegrini cristiani che vengono a visitarlo. Durante gli ultimi week-end si era registrato un certo incremento di turisti, quasi esclusivamente musulmani ed ebrei, che volevano approfittare della mancanza di pellegrini per visitare il sito con più libertà. Per evitare il rischio di contagi, le comunità cristiane che custodiscono il Santo Sepolcro hanno deciso di comune accordo di chiudere le porte della basilica il venerdì e il sabato (la domenica è giorno lavorativo e turisti non ne vengono), consentendo soltanto ai fedeli abituali, che conoscono gli orari delle liturgie, di parteciparvi. Nella basilica della Natività di Betlemme la situazione è ancora più triste: nonostante la riapertura ufficiale a metà maggio, per motivi di sicurezza l’accesso è ora limitato ai fedeli locali non solo nel week-end, ma ogni giorno.

La sospensione dei pellegrinaggi cristiani balza particolarmente all’occhio in questo tempo estivo, solitamente di alta stagione, e produce effetti dirompenti. Prima ancora che un problema economico, è una profonda sofferenza spirituale. «Non è la prima volta, già durante le intifade è stato così — dice l’amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, arcivescovo Pierbattista Pizzaballa — ma la novità stavolta è che siamo di fronte ad un periodo molto prolungato di azzeramento dei pellegrinaggi. Come dico sempre, la Chiesa di Terra Santa vive con due polmoni: uno è la Chiesa locale, l’altro è la Chiesa universale rappresentata dai pellegrini. La presenza dei pellegrini è costitutiva dell’identità di questa Chiesa. Il vedere Gerusalemme con le strade vuote, il Santo Sepolcro senza pellegrini, il lago di Galilea senza nessuno che scenda a toccare le acque toccate da Gesù… è come se mancasse qualcosa. Si può vivere con un solo polmone, sì, ma non si vive bene», conclude.

È difficile descrivere la desolazione di questi spazi, un tempo fin troppo affollati e ora praticamente deserti. Santuari nei quali, per trovare posto, occorreva prenotare con largo anticipo la visita o la celebrazione delle sante messe, sono ora vuoti tutto il giorno. Solamente i frati francescani della Custodia di Terra Santa continuano a presidiare i luoghi santi e a celebrarvi fedelmente la liturgia, come se nulla fosse. Con impegno lodevole trasmettono almeno alcune celebrazioni sui social media, affinché si sappia che la preghiera nei luoghi santi non viene meno. «I frati della Custodia provengono da tutto il mondo» riferisce commosso padre Francesco Patton, custode di Terra Santa. «Rimaniamo in questi luoghi come presenza internazionale per far salire a Dio la preghiera di tutta l’umanità. I frati si fanno pellegrini al posto dei pellegrini che ancora non possono arrivare».

Il Santo Sepolcro, cuore della fede cristiana, ha subìto un lockdown totale per due mesi. Racconta uno dei francescani che lo custodisce, il congolese fra Michael: «La basilica è stata chiusa il 25 marzo scorso alle 17.05, appena terminata la processione quotidiana, e riaperta solo il 24 maggio. Il nostro dovere era quello di pregare: lo abbiamo fatto fedelmente, in comunione con il mondo intero, chiedendo anche la fine di questa pandemia. Non abbiamo omesso nessuna delle liturgie previste, nemmeno durante la Settimana santa e il triduo pasquale, anche se a partecipare eravamo in pochissimi. Stiamo bene, nessuno di noi si è ammalato, non ci è mancato nulla: i confratelli del monastero di San Salvatore ci portavano il necessario, e noi lo ricevevamo attraverso la finestrella nel portone d’ingresso. Continuiamo a pregare, e chiediamo a tutti di unirsi spiritualmente alla nostra preghiera».

Ma se la provvidenza non è venuta meno ai frati del Santo Sepolcro, la crisi generale è dolorosamente tangibile. La città vecchia ha davvero un aspetto spettrale e surreale: solo i negozi del mercato locale sono aperti; volti stranieri non se ne vedono: quasi tutti sono residenti, arabi o ebrei. Le botteghe di souvenir e i ristoranti intorno al Santo Sepolcro, un tempo affollati di clienti, sono per lo più chiusi. Le strutture di accoglienza per pellegrini cristiani, nelle quali fino a pochi mesi fa non era facile trovare una camera libera, rimangono disabitate. «Per molto tempo ancora i viaggi e i pellegrinaggi — continua l’arcivescovo Pizzaballa — saranno difficili. Dovremo dunque ripensare noi stessi, in modo da custodire il legame con la Chiesa universale in altri modi, e cercare di trovare forme di supporto e di aiuto alle tante famiglie della comunità cristiana, e non solo, che a causa di questa situazione sono rimaste senza risorse e con prospettive di grande incertezza».

Un altro settore che contribuisce a generare insicurezza è l’educazione. La Chiesa cattolica in Terra Santa si spende generosamente nella formazione delle nuove generazioni, e le numerose scuole cattoliche gestite dal Patriarcato di Gerusalemme dei Latini e dai frati della Custodia di Terra Santa sono molto apprezzate. «Speriamo che le scuole possano riprendere regolarmente il prossimo anno — prosegue padre Patton — ma non ne abbiamo certezza. Per questo ci prepariamo anche alla didattica a distanza, come abbiamo fatto già nei mesi passati: grazie a questo impegno siamo riusciti a far completare l’anno scolastico a tutti, compresi i maturandi». La pandemia però ha colpito in modo assai pesante queste terre, soprattutto la Palestina e la Giordania, dove il possesso degli strumenti digitali per la didattica a distanza non è affatto scontato. E se già prima della crisi tante famiglie non erano in grado di pagare integralmente le rette, adesso il numero degli insolventi è ulteriormente accresciuto, mentre le direzioni scolastiche non possono sospendere il pagamento degli stipendi del personale. A questo si deve aggiungere che la colletta “pro Terra Sancta”, abitualmente effettuata il Venerdì santo, è stata posticipata al 13 settembre prossimo, e quindi i suoi benefici non potranno farsi sentire prima della fine dell’anno. Anche nell’ipotesi (invero alquanto ottimistica) che la raccolta si mantenga ai livelli consueti, rimangono problemi di scoperto finanziario per i mesi di posticipo rispetto agli ordinari flussi di cassa.

«Trasformare le crisi in opportunità»: è un ritornello che abbiamo ascoltato spesso, in questi mesi. Ma non è solo retorica. Così, ad esempio, il monastero Santa Chiara delle clarisse di Gerusalemme, che ha visto azzerati i suoi proventi ordinari, legati quasi esclusivamente all’accoglienza di pellegrini nella foresteria, sta vivendo questo momento difficile come un’occasione per ripensare il proprio stile di vita. «Una caratteristica fondamentale della nostra vita religiosa — dice la superiora suor Maria di Nazareth — è vivere il “privilegio della povertà”, come voleva santa Chiara. Le attuali difficoltà economiche ci invitano a ripensare cosa significa per noi essere povere davvero, e ci spronano a fare scelte di maggiore austerità. Così aumenta la nostra solidarietà con tante persone che la povertà non la scelgono, ma la subiscono».

La crisi economica, infatti, ha pesantemente colpito tutta la popolazione, penalizzando soprattutto le fasce più fragili. Si registrano nel solo Israele almeno 850.000 persone senza lavoro (più di un milione, secondo altre stime), con un tasso di disoccupazione balzato in pochi mesi dal 4 per cento al 21 per cento e oltre. Gravissima la situazione dei lavoratori stranieri, molti dei quali hanno perso l’impiego, pur dovendo affrontare le spese necessarie per vivere in un paese straniero: spesso infatti non hanno nemmeno la possibilità di tornare nella propria terra di origine. Un’emergenza sociale di cui il Patriarcato di Gerusalemme dei Latini si è fatto carico soprattutto attraverso il vicariato ebreofono di San Giacomo (per i cristiani di espressione linguistica ebraica) e il vicariato per i migranti, di recente istituzione. Ancora una volta, volendo guardare al futuro, si può sperare che la situazione di crisi possa spingere le comunità cristiane a stringere nuove reti di solidarietà e superare la logica assistenzialistica che, non di rado, affligge le Chiese più povere. Laddove la difficoltà è generale, a nessuno è consentito attendere la manna dal cielo, e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo per progredire insieme.

«Una situazione particolarmente dolorosa — riferisce con toni accorati padre Francesco Patton — è quella vissuta in questo momento dai nostri frati in Libano e Siria. In Libano, perché gli effetti della pandemia si sommano alla preesistente crisi economica dovuta alla bancarotta statale, con effetti devastanti. In Siria poi, per usare le parole dei nostri parroci, stiamo passando dalla povertà alla miseria. Un anno fa — aggiunge il custode di Terra Santa — speravamo di aver superato la fase di emergenza legata al conflitto tra milizie jihadiste e potere statale, in cui l’impegno pastorale si doveva concentrare sugli aiuti alimentari e progettavamo di poterci occupare anche della ripresa e dello sviluppo… Invece siamo piombati nuovamente in una situazione in cui dobbiamo concentrare ogni sforzo sulle opere di carità relative ai bisogni primari, perché la gente si trova ridotta alla fame».

Ma il malessere sociale è sensibile e crescente anche in Israele. E non solo tra i cristiani: le manifestazioni di insofferenza da parte della popolazione locale, stretta tra i disagi delle misure anti-contagio e l’incalzante crisi economica, si fanno sempre più diffuse.  Nell’ultima settimana quasi ogni sera le strade di Gerusalemme intorno all’abitazione del premier Netanyhau sono state teatro di manifestazioni di protesta, più o meno affollate, e in diverse occasioni disperse dalle forze dell’ordine. Difficile dire se si tratti di contestazioni di politica interna nei confronti del leader, o più semplicemente di esplosioni di malcontento da parte di gente che sta male. Ma certamente il futuro della nazione non si profila sereno. Senza l’apporto del turismo — e i pellegrinaggi cristiani sono certamente una porzione non irrilevante di questo settore — è difficile formulare previsioni ottimistiche. Si può almeno sperare che le pesanti limitazioni, attualmente in vigore per l’ingresso in Israele a chi non è in possesso di passaporto israeliano, siano presto accantonate. Il termine per la riapertura delle frontiere è fissato all’1 di settembre, ma — come già si è verificato più volte — potrebbe essere prorogato.

Nel frattempo, non pochi italiani che vivono in Terra Santa, sia religiosi che laici, registrano difficoltà a rientrare in Israele, dopo un eventuale soggiorno in patria. «Devo tornare in Italia — racconta Barbara, che da diversi anni vive a Gerusalemme e lavora per una ong — perché è da troppo tempo che non vado, ma prima di partire ho raccolto tutte le mie cose in valigie e scatoloni, perché non sono sicura che mi daranno l’autorizzazione a ritornare qui. Ho lasciato le chiavi di casa ad un’amica, così eventualmente potrà spedirmi le mie cose. Speriamo bene…». Non dissimile la situazione di Daniele, un giovane che collabora da più di un anno come volontario al Christian Media Center della Custodia di Terra Santa: «A settembre dovrò rientrare in Italia perché si sposa mio fratello. Ma chissà se riuscirò a rientrare nei tempi previsti…». Più tranquillo è fra Alberto, direttore della scuola francescana di musica Magnificat: «Come mi è stato suggerito, ho scritto una lettera ai servizi consolari dell’ambasciata di Israele in Italia, spiegando che devo recarmi in Italia per un mese e poi rientrare qui in sede. Ho scritto in ebraico — vivo qui da 13 anni — e, forse per questo, mi hanno risposto subito, dicendo che mi avrebbero rilasciato il permesso senza esitazioni». Ma la presenza dei cristiani sembra sempre meno scontata in questa terra. Un motivo in più per non dimenticare questi luoghi, questa Chiesa e questa gente. «Se ti dimentico, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo…» (Salmo 137, 5,6).

di Filippo Morlacchi

Pace in Terra Santa passa dal dialogo della vita

I frati minori francescani della Custodia di Terra Santa lungo le strade di Gerusalemme (foto Custodia)da Avvenire

I frati minori francescani della Custodia di Terra Santa lungo le strade di Gerusalemme (foto Custodia)

La bandiera con la croce rossa della Terra Santa sventola sui tetti della città vecchia di Gerusalemme. La terrazza panoramica che la ospita è quella di Casa Nova, la struttura d’accoglienza per i pellegrini a due passi dalla Basilica del Santo Sepolcro. La croce color cardinale è il simbolo della Custodia di Terra Santa, la provincia dei frati minori francescani che nel 2017 ha celebrato i suoi 800 anni di vita e d’«amore» per i luoghi di Cristo, come ripetono i “figli” del Poverello d’Assisi. E che adesso, nel 2019, si appresta a festeggiare gli otto secoli dall’incontro di san Francesco con il sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel, nella cittadina di Damietta. Un gesto di pace fra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico nel segno di quello che oggi può essere definito il dialogo interreligioso. «Ecco perché il modo più significativo per fare memoria di questo evento è continuare a coltivare tutte quelle iniziative di confronto e amicizia che vanno nella direzione opposta rispetto allo scontro fra civiltà», spiega il custode di Terra Santa, fra’ Francesco Patton. Trentino d’origine, 55 anni compiuti lo scorso 23 dicembre, guida dal 2016 la Custodia. La “casa madre” si trova fra le viuzze del quartiere cristiano, vicino alla Porta Nuova.

Il custode di Terra Santa, fra' Francesco Patton (foto Custodia)

Il custode di Terra Santa, fra’ Francesco Patton (foto Custodia)

Una melodia ancora da ritoccare echeggia nel complesso. Viene dall’istituto “Magnificat”, la scuola di musica promossa dai francescani. «Qui il dialogo fra le tre grandi fedi monoteiste è quello della vita – racconta Patton –. E passa anche dalla nostra piccola accademia, affiliata al conservatorio di Vicenza, dove professori e studenti sono cristiani, ebrei e musulmani. Non è compito nostro imbastire dibattiti a carattere teologico. Ci sono le apposite commissioni. Ciò a cui siamo chiamati è favorire la cultura dell’incontro dal basso, attraverso le relazioni. Il nostro non è un dialogo “con” l’ebraismo, “con” l’islam o anche “con” le altre confessioni cristiane. È uno scambio quotidiano fra persone, è fare un tratto di strada gli uni accanto agli altri». Come accade ad Ain Karem, la frazione alle porte di Gerusalemme dove è nato Giovanni Battista e dove Maria ha intonato il Magnificat. Un luogo diventato laboratorio di fraternità con l’ebraismo. «Da due anni abbiamo avviato un percorso legato alla figura del Battista anche per volontà della locale comunità ebraica – dice il ministro provinciale –. Ciò mostra come la cultura possa essere un interessante terreno d’incontro. E lo sono anche i nostri santuari. L’essere accoglienti, aperti a chiunque, corrobora la riconciliazione e la collaborazione».

La bandiera con la croce della Terra Santa sopra i tetti di Gerusalemme (foto Gambassi)

La bandiera con la croce della Terra Santa sopra i tetti di Gerusalemme (foto Gambassi)

Con i musulmani il “dialogo della vita” si sviluppa soprattutto attorno alle scuole della Custodia che solitamente hanno metà alunni di religione islamica, anche se in alcuni casi si arriva al 90% come a Gerico. «Ci sforziamo di offrire un’educazione di qualità che alimenti lo “spirito di Damietta”, cioè dell’incontro vissuto da san Francesco e dal sultano in piena quinta Crociata. Certo, è necessario il rispetto. Della nostra identità cristiana, anzitutto. Ma anche di quelle degli altri. Ciò significa che nelle aule c’è sempre il crocifisso o che a Natale vengono allestiti il presepe e l’albero. Al contempo si tiene conto, per citare un caso, del Ramadan in modo che la giornata scolastica degli allievi musulmani sia scandita guardando a questo loro tempo particolare». Nessuna paura dei simboli religiosi in Terra Santa. Una lezione per l’Occidente che spesso annulla qualsiasi richiamo al sacro negli ambianti pubblici? «Qui – chiarisce il guardiano del monte Sion e del Santo Sepolcro – abbiamo adottato una soluzione opposta rispetto alla cosiddetta “laicità alla francese” che impone il silenziatore alle identità religiose. In Israele e Palestina le identità religiose sono rumorose e chiedono di esprimersi. Naturalmente questo esige il rispetto ma preservando in modo chiaro il proprio volto, la propria tradizione. D’altro canto il pensiero occidentale potrebbe aiutare il Medio Oriente a capire il valore della libertà di coscienza che in questo angolo resta piuttosto limitata».

La processione quotidiana dei frati francescani nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme (foto Gambassi)

La processione quotidiana dei frati francescani nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme (foto Gambassi)

La parola “pace” è quella che più ricorre quando si fa riferimento alla terra di Cristo. «Sono un sostenitore della teoria dei sistemi – sottolinea Patton –. Ogni contributo alla pace che giunga da qualsiasi parte è un impulso alla pace globale. E ogni singola offesa alla pace è un danno alla pace nel mondo. Pertanto, quando si alimenta la violenza anche fuori dei confini della Terra Santa, non si contribuisce alla pace di Gerusalemme». Il superiore fa una pausa. «In un’ottica cristiana la radice della discordia è nel peccato. Ciascuno di noi, finché non si aprirà a un trasfigurante cambiamento interiore, continuerà con le proprie cadute a ostacolare la pace globale. Un’esagerazione? Non lo penso. Proprio da Gerusalemme, dal Calvario, Gesù offre all’uomo di ogni tempo il vero dono di riconciliazione. Con la sua morte e risurrezione propone una logica “altra” rispetto a quella imperante: è la logica non del togliere la vita ma del donarla; è la logica del non spargere mai il sangue altrui ma di essere disposti a versare fino all’ultima goccia del proprio sangue. In Cristo immolato per amore sulla croce c’è il seme della pace. Ogni volta che assecondiamo il peccato in tutte le sue forme, a cominciare dal nostro egoismo, rallentiamo il processo di pace».

La chiesa di Santa Caterina a Betlemme (foto Gambassi)

La chiesa di Santa Caterina a Betlemme (foto Gambassi)

Pace a Gerusalemme è anche una questione politica. E va a braccetto con lo status quo della città da preservare, oltre gli eventi divisivi che hanno costellato lo scorso anno: il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, la controversa legge sullo Stato ebraico, la fallita riconciliazione inter-palestinese, i razzi lanciati contro Israele, le proteste e i morti a Gaza. «Forse più che parlare dello status quo dovremmo avere il coraggio di sognare Gerusalemme come una città-modello per il mondo – avverte Patton –. E di realizzare il sogno di Dio descritto in numerose profezie del Primo Testamento. Quando si legge in Isaia “Venite, saliamo sul monte del Signore”, si tratta di un invito a tutta l’umanità ad abitare Gerusalemme. La città vecchia conserva la memoria fisica di momenti cruciali per le tre religioni nate da Abramo. E quindi vuol dire che appartiene a tutti. Il fatto che continuino a esserci tensioni è la riprova dell’unicità di Gerusalemme».

Il campo dei pastori a Betlemme, santuario della Custodia di Terra Santa (foto Gambassi)

Il campo dei pastori a Betlemme, santuario della Custodia di Terra Santa (foto Gambassi)

I trecento frati minori che oggi appartengono alla Custodia non sono solo “guardiani” di pietre e di cinquanta santuari. «Da otto secoli la nostra missione è di rendere vive queste pietre – sostiene il ministro provinciale –. San Francesco ha sempre avuto a cuore l’Incarnazione. Per questo amava la Terra Santa. Per noi frati amare questa regione significa amare Gesù». Il religioso spiega che le sfide per la Custodia si evolvono, seppur nella fedeltà al mandato del santo umbro. «Il primo compito resta quello di preservare i luoghi santi. Il che contempla anche l’accompagnamento spirituale di chi li visita. E dobbiamo dire grazie a Paolo VI, oggi santo, che volle la colletta per la Terra Santa ogni Venerdì Santo nelle parrocchie di tutti i continenti. Un segno concreto di attenzione per consentire di immergersi ora e in futuro nel “quinto Evangelo”, come questa terra è stata chiamata». Poi c’è il fronte sociale: le scuole, le case per le famiglie, l’assistenza medica. A questo si aggiunge l’impegno dei francescani nelle parrocchie. «È urgente aiutare i cristiani locali a restare in Terra Santa. Più che un sostegno economico, serve far comprendere loro che essere cristiani in Terra Santa è una vocazione e una missione che indica la rotta ai fedeli del mondo». E i pellegrinaggi possono essere un elemento di vicinanza. «Si tratta di un supporto tangibile. Ma suggerisco sempre a chi li organizza di prevedere un momento d’incontro con le realtà locali: una parrocchia, una scuola, un presidio sociale. Da cui magari può scaturire anche un gemellaggio».

Scambio di auguri tra le comunità cristiane della Terra Santa

Gerusalemme

LPJ

Gerusalemme – La mattina del 9 gennaio, i vertici di tutte le comunità cristiane di Terra Santa, si sono riuniti presso la sede del Patriarcato greco-ortodosso, per i tradizionali auguri di Natale al Patriarca Teofilo III — Come da tradizione, anche quest’anno si sono riunite le comunità cristiane di Gerusalemme e Terra Santa presso il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, per il rituale scambio degli auguri di Natale

Cercando la Terra Santa oltre il Giordano

La Decapoli è un luogo dove, secondo il Vangelo di Marco, Gesù si è recato. Ma pochi sanno dov’era. Un approfondimento.

Nei Vangeli si incontrano i nomi di molti luoghi legati al passaggio in un certo territorio delMessia cristiano. Alcuni di quei luoghi non si trovano più nella Terra Santa comunemente intesa, ma in vicini Paesi del Medio Oriente. I Vangeli stessi testimoniano di alcuni viaggi di Gesù di Nazareth in città che oggi appartengono al Libano o alla Giordania.

Una problematica citazione del Vangelo di Marco (7, 31) afferma per esempio: “Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli”. È un percorso difficile da spiegare (infatti l’evangelista non lo fa) e anche abbastanza improbabile, comunque è spesso molto complicato identificare i luoghi in cui si svolge la vicenda umana del Nazareno, soprattutto dopo due millenni di antiche narrazioni intrecciate a devozioni e leggende più recenti e spesso stratificate all’interno di un racconto. Ma è in ogni caso molto intrigante indagare su questi luoghi e prendere coscienza delle implicazioni che questi viaggi intendono forse suggerire.

Un esempio forse poco conosciuto di “Terra Santa oltre il Giordano” emerge dall’indicazione della regione denominata “Decapoli”, di cui fanno menzione alcune fonti storiche del I secolo d.C. (come Plinio il Vecchio e Flavio Giuseppe) e i tre Vangeli sinottici. Il territorio delle 10 città era una sorta di regione a statuto speciale istituita da Pompeo Magno nel 63 a.C.quando assoggettò a Roma tutta la Palestina.

La Decapoli si trovava a Sud del Mare di Galilea e quasi del tutto ad Est del Giordano. Non è chiaro quali fossero precisamente le 10 città (ci sono diverse versioni e la Decapoli come tale ha una storia lunga circa 3 secoli), ma alcune sono ben individuate, come Filadelfia (oggi Amman),Gadara (Umm Qays), Gerasa (Jerash), Pella (Tabaqat Fahl), Arbila (Irbid) e Scytopolis (Beit She’an, l’unica a ovest del Giordano).

Un famoso brano del vangelo di Matteo (8,28) inizia collocando il racconto nel “Paese dei gadareni”, il territorio circostante la città di Gadara, dove oggi si trova la cittadina giordana di Umm Qays, su una collina dalla quale si gode una magnifica vista verso le alture del Golan e sul Mare di Galilea (in Israele), pur essendo a circa 10 km dalla sponda meridionale del lago.

Il racconto evangelico è quello di Gesù che scaccia il dèmone “legione” (Matteo 8, 28-34, Marco 5, 1-20, Luca 8, 26-39) da un uomo (o due secondo Matteo): al dèmone scacciato viene concesso di installarsi in alcuni maiali che si trovano nei dintorni, che a quel punto si gettano nel Mare di Galilea, annegando.

Il territorio dei gadareni, come tutta la regione della Decapoli, era abitato da popolazioni di cultura ellenista insediate in quelle terre fin dal tempo della conquista di Alessandro Magno (IV sec. a.C.), e quindi possibili allevatori di maiali, diversamente dagli ebrei che alla luce delle norme alimentari dell’Antico Testamento considerano il maiale un animale immondo. Non è difficile immaginare che i gadareni fossero anche fornitori di carne suina alle truppe romane di occupazione: agli occhi dei giudei del tempo, gadareni, geraseni e decapolitani in genere erano pagani imbevuti di ellenismo e collaborazionisti del “nemico” romano. Eppure, pur scacciando il dèmone “legione”, Gesù non si sottrae al dialogo con l’ex indemoniato che ha sanato, anzi lo incarica di una missione.

Visitando le rovine dell’antica Gadara, si rimane stupiti di trovare poco oltre le mura, sulla strada che scende verso il Mare di Galilea, i resti di un’imponente basilica a 5 navate, risalente al IV secolo. È abbastanza evidente che i costruttori bizantini intendevano in questo modo segnalare e onorare il luogo del miracolo descritto dai Vangeli. Le rovine dell’antica città sono fra l’altro ben conservate, con terme, teatri e attività commerciali che si affacciano sul decumano, e una splendida necropoli. Gadara era famosa nell’antichità anche per il fatto di aver dato i natali ad alcuni illustri scrittori come il filosofo cinico Menippo (III sec. a.C.), il poeta satirico Meleagro(I sec. a.C.) e il poeta e filosofo epicureo Filodemo, che visse parecchi anni a Ercolano, dove sono state ritrovate copie di molte sue opere nella biblioteca della Villa dei Papiri, la sontuosa dimora dei Pisoni distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., poco più di un secolo dopo la morte di Filodemo, avvenuta all’età di circa 75 anni, nel 35 a.C.

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