Stampa e potere

Forno Mauro – Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano / >>> scheda libro online

Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano Titolo Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano
Autore Forno Mauro
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(Prezzo di copertina € 22,00 Risparmio € 3,30)

Forno studia gli ultimi 150 anni di storia italiana, analizzando le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo, stampa ed editoria, fino all’avvento della televisione e dell’informazione on-line.

Mauro Forno affida a Walter Lippman – giornalista statunitense, vincitore di due premi Pulitzer – la chiusura del suo ultimo volume Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, edito a marzo di quest’anno da Laterza (pp. 298, euro 22,00).
«La qualità dell’informazione in una società moderna è un indice della sua organizzazione sociale», scrisse Lippman quasi un secolo fa, proseguendo: «Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente gli interessi relativi sono formalmente rappresentati, tanto più questioni vengono dipanate, tanto più obiettivi sono i criteri adottati, tanto più perfettamente si può presentare come notizia una vicenda. Nella sua espressione migliore la stampa è serva e custode delle istituzioni; nella sua espressione peggiore è un mezzo mediante il quale alcuni sfruttano la disorganizzazione sociale ai propri fini particolari».
Che Forno, docente di storia del giornalismo e della comunicazione politica e storia dei media all’università di Torino, collaboratore di Vita Pastorale da svariati anni, citi Lippman in un momento di profonda trasformazione – a livello tecnologico, ma non solo – dell’universo mediatico, non appare un caso. Il giornalista americano non si piegò al sensazionalismo e ai gusti del “grande pubblico”, mantenendo sempre il distacco dell’osservatore.
Allo stesso modo, prendendo in esame gli ultimi centocinquant’anni di storia italiana, Forno analizza le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo del nostro Paese, dall’era dei periodici d’informazione allo sviluppo dell’on-line, senza indulgere nel descrivere il rapporto tra potere politico, economico e finanziario e informazione, troppo spesso vittima della «malcelata aspirazione di entrare a far parte di quella oligarchia, in una logica di non alterazione – e anzi spesso di salvaguardia – dei rapporti di potere».
Per citare ancora Forno, infatti, «al di fuori di particolari fasi storiche o di casi molto specifici, quasi mai i giornalisti italiani sono riusciti a rivendicare concrete forme d’indipendenza o controllo sulle testate in cui lavoravano. E anche quando hanno ottenuto – sotto il fascismo – l’istituzione dell’albo (vale a dire di uno status di professionalizzazione e quindi di autonomia teoricamente elevato, al pari di quello di un medico o di un avvocato), hanno poi dovuto pagare il prezzo della perdita di qualsiasi pretesa d’indipendenza, ponendosi al servizio degli interessi politici del regime».
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Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.
Foto di (VITTORIANO RASTELLI / CORBIS)

C’è chi ha sostenuto – Elizabeth Eisenstein – che la nascita del capitalismo vada collegata a quella della stampa. È d’accordo, professor Forno?
«Si tratta di una tesi avanzata dalla studiosa americana in una ricerca pubblicata nel 1979 dal titolo The printing press as an agent of change. Eisenstein vi sosteneva che la storiografia tradizionale non aveva mai colto appieno la portata della scoperta di Gutenberg (la stampa a “caratteri mobili”), a cui si doveva un contributo essenziale nella diffusione del sapere e della conoscenza e nella promozione di un maggiore spirito critico rispetto allo stesso concetto di autorità. Insomma, semplificando molto il discorso, secondo Eisenstein gli editori del XVI e del XVII secolo – ben più, ad esempio, della Riforma protestante o della lotta di classe – avevano favorito la nascita del moderno capitalismo. Evidentemente anche quella della Eisenstein, come altre tesi, presenta aspetti persuasivi e punti di debolezza. Appare in ogni caso impossibile non rilevare la fortissima influenza esercitata dall’invenzione di Gutenberg sulla trasformazione di strumenti di analisi e riflessione come i libri – e, in prospettiva, i giornali – in beni accessibili a un pubblico straordinariamente più ampio».

L’Inghilterra come culla dell’informazione corretta, con i fatti separati dalle opinioni e la citazione delle fonti: era il XVII secolo e il governo inglese non rinnovò il Licensing Act, la censura preventiva, dando il via a un nuovo modo d’interpretare i rapporti tra stampa e potere. Come giudica si siano evoluti questi rapporti in Europa e in Italia, da quel momento fino a oggi?
«In Italia – ma anche in altri Paesi dell’Europa meridionale – la stampa “d’informazione”, così come l’intendiamo oggi, assunse sin dai suoi albori caratteri piuttosto particolari, legandosi molto di più, rispetto al mondo anglosassone, “al potere” e “ai poteri”. Si trattava del resto di Paesi spesso caratterizzati da una bassa percentuale di lettori (anche per l’elevato tasso di analfabetismo) e quindi da scarse prospettive di radicamento di una stampa veramente “popolare” (a tutto favore di una stampa di carattere prevalentemente “politico”, rivolta a un limitato pubblico di notabili).
Queste e altre circostanze resero – sin dalle origini – i giornali italiani dei soggetti economicamente assai poco redditizi. E sappiamo che proprio l’autonomia finanziaria rappresenta un presupposto indispensabile per garantirsi indipendenza dai governi o dai potenti di turno».

Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.

La prima “sfida” editoriale cattolica prese vita agli albori del ‘900 per opera del conte Giovanni Grosoli, uno dei fondatori del quotidiano L’Avvenire, il quale costituì un trust editoriale, non direttamente dipendente dalle gerarchie e in grado di competere con la grande stampa liberale del tempo. L’avventura non ebbe vita facile. Comesi è poi articolato l’impegno del giornalismo cattolico? E quale ruolo può ancora giocare in questo momento storico?
«Probabilmente la Chiesa di inizio secolo non era ancora pronta per sostenere sino in fondo un’impresa come quella di Grosoli. Il che non significa affatto negare la notevole fase di sviluppo avviata, proprio a partire da quel periodo, dalla stampa cattolica. Per giunta essa fu l’unica a sopravvivere – se pur con pesanti limitazioni – nel ventennio fascista, riuscendo poi a riproporsi – con ruoli nuovi e articolati – anche nel secondo dopoguerra. Più che l’esperienza dei giornali quotidiani, settore in cui, tutto sommato, la stampa cattolica non ha mai raccolto particolari fortune (se si esclude l’esperienza dell’Osservatore Romano, che peraltro a partire dal 1929 divenne un quotidiano “estero”), degna di particolare attenzione appare a mio giudizio la proposta cattolica nel campo dei periodici. Oltre al caso rilevante di Famiglia Cristiana, credo che a partire dal XX secolo un fenomeno d’indubbio rilievo sia stato rappresentato dai settimanali diocesani, attraverso cui le Chiese locali si sono dimostrate capaci di modellare il proprio messaggio attorno ai bisogni e alle esigenze dei singoli contesti territoriali».

Dai fondi segreti alle veline il fascismo in Italia fu un periodo buio anche per l’informazione. Quali influenze sono rintracciabili di quel periodo nel modo odierno di fare giornalismo nel nostro Paese?
«Nel passaggio dal fascismo al postfascismo si è nel complesso verificata – nell’ambito del controllo sull’informazione – una certa continuità di uomini e di metodi. Per fare un esempio, nell’Italia del dopoguerra la tradizione dei finanziamenti governativi ai giornali “amici” (che affondava le sue radici nella stessa storia pre e postunitaria) fu mantenuta. Anche gli esecutivi repubblicani continuarono insomma a finanziare le testate che meglio sembravano in grado di contrapporsi alla propaganda delle opposizioni. La tradizione italica di una certa stampa, formalmente di informazione ma di fatto funzionale ai governi di turno, non venne dunque sradicata nemmeno col passaggio dal fascismo alla democrazia, come del resto avvenne per molti istituti introdotti dal fascismo: a partire dall’albo dei giornalisti, dall’Istituto nazionale di previdenza, dall’Ente nazionale cellulosa e carta (costituito nel giugno 1935 per garantire un prezzo politico alla materia prima per la fabbricazione dei giornali)».

Quale ruolo ha svolto nel mondo dell’informazione l’affermazione dell’impero editoriale di Silvio Berlusconi? A suo avviso l’ex premier ha tratto vantaggio per la sua ascesa politica dai mezzi che ha avuto a disposizione?
«Oggi molti studiosi dei media tendono ad attribuire un notevole peso al potenziale “democratico” di nuovi strumenti, come ad esempio i blog e i social network, e alla loro capacità di ritagliarsi spazi anche “informativi”, riuscendo a bypassare l’influenza egemone di canali più ufficiali e tradizionali, come la televisione e i giornali. Sostanzialmente, anch’io tendo a collocarmi in questo fronte. Devo tuttavia dire che rimango sempre poco persuaso dalle analisi di chi tende a enfatizzare i presunti ridottissimi influssi oggi esercitabili sull’opinione pubblica dagli strumenti tradizionali. Per venire alla sua domanda, l’ascesa politica di un imprenditore come Silvio Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo (al momento della sua “entrata in campo”, i nuovi media si trovavano del resto ancora in uno stadio molto basso di diffusione e lo sono ancora oggi tra larghe fette di popolazione) e non credo che la sua successiva perdita di consensi sia stata causata in misura significativa dalla sua potenza mediatica. Insomma, non penso – come invece sostengono altri – che l’eccesso di esposizione televisiva di un leader politico rappresenti oggi – in quanto tale – un “problema”, nel senso di provocare “perdita di consenso”. Resto convinto che a fare la differenza siano i contenuti espressi attraverso il mezzo televisivo. Se io fossi un uomo politico come Berlusconi, mi terrei ben strette le mie televisioni».

Quale sarà il destino della carta stampata? La rete la fagociterà oppure i due strumenti potranno camminare “appaiati”?
«Che l’editoria “classica” – i giornali stampati, nella fattispecie – sia in uno stato di grave crisi, mi pare un dato innegabile. Ma sarei cauto a profetizzare la definitiva scomparsa dell’informazione tradizionale a vantaggio di altre proposte, a partire da quelle on-line. Raramente un nuovo media (o un nuovo strumento informativo) ha saputo soppiantarne totalmente uno vecchio, mentre spesso si sono manifestati processi di adattamento di quest’ultimo alle nuove esigenze. Credo che quotidiani e periodici cambieranno, si adatteranno, ma non scompariranno. Forse – come talvolta avviene nei momenti di difficoltà – riusciranno persino a “migliorare”».

I criteri alla base dell’informazione mutano o restano i medesimi sia che si parli in tv, sulla carta oppure on-line?
«Le rapide innovazioni tecnologiche, a iniziare da quelle collegate allo sviluppo di Internet (capace di porre per la prima volta simultaneamente in collegamento i giornalisti di tutto il mondo, consentendo ai medesimi di condividere un unico patrimonio di informazioni) hanno indubbiamente prodotto una certa omogeneizzazione nell’impostazione del giornalismo, specie di quello proposto dalle nuove generazioni di professionisti. Nel contempo, i programmi televisivi e il materiale prodotto nella rete hanno ormai finito per influenzare profondamente i contenuti dei giornali, che da tempo hanno dovuto ripensare il proprio linguaggio e il proprio aspetto.
«Ritengo che l’informazione cartacea potrà ancora conservare un ruolo importante se si dimostrerà capace di distinguersi nell’analisi e nell’approfondimento. All’interno della pioggia ininterrotta di news proposte dalla rete (difficilmente valutabili e verificabili per un utente medio) la figura del bravo giornalista potrebbe insomma rivelarsi preziosa, soprattutto per consentire al pubblico di interpretare una realtà sempre più complessa e difficilmente riconducibile a un quadro coerente».

Tre giornali dell’editoria cattolica. In alto a sinistra: l’ascesa politica di un imprenditore come Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo.

Maria Grazia Olivero / vita pastorale ottobre 2012

Insulti contro vento e proposte “singolari”

Fantasie estremiste: più o meno volute, ugualmente dannose. Domenica, prima pagina de “L’Unità” con titolone che reagisce duro: «Insulti di Grillo nella piazza vuota». Giusto? Trattandosi di insulti giustissimo, sempre. Eppure proprio lì accanto la vignetta di Staino ne piazza uno calibratissimo mascherato da satira, equivalente proprio alla celebre invettiva di Grillo che comincia con “V”. Solito colloquio figlia-padre: «Marchionne vuole che lo Stato lo aiuti a rilanciare la Fiat. Il Papa vuole che lo Stato lo aiuti a bloccare le unioni civili… E poi a uno viene la voglia di mandarli tutti e due a Detroit». Così, allegramente, sullo stesso piano nell’invito brusco interessi Fiat più o meno giusti e discutibili e principi di dottrina cristiana e cattolica fondati sulla Parola di Cristo e su prassi di Chiesa in 2000 anni di storia. Sarà satira, ma fa pena per distorsione e strumentalizzazione cieca, che in fin dei conti – visto in più di 60 anni – danneggia chi la propone: un boomerang politico sicuro, come uno sputo contro vento: non intelligente e dannoso. Vale anche, purtroppo, per una sortita per lo meno arruffona. Domenica su “La Stampa” (pag. 11) una singolare proposta del ministro dell’Istruzione: «Profumo: cambiare l’ora di religione». Singolare: nel senso che lui appare molto solo, sul tema. La sua “ragione”? «Il 30 per cento degli studenti è di origine straniera e, spesso, non di religione cattolica». Testuale, non è satira! È vero, e non sono neppure italiani… E allora con questo criterio anche la letteratura, e la storia, e la geografia dovrebbero cambiare, o no? Che dire? Niente discorsi impegnativi, qui, che sarebbero complessi. La scuola italiana ha ben altri problemi.
a cura di Gianni Gennari – avvenire.it

Libertà di espressione, certo ma attenzione al buonsenso

Lunedì sul “Corsera” (pp. 1, 34 e 35) tre firme di rilievo, Panebianco, Ferraris e Battista, sulle «rivolte antiamericane e antioccidentali… diffuse in tutto il mondo islamico» dopo la proiezione di «The Innocence of Muslims… film offensivo». In sostanza – se non ho capito male – tre vibranti difese della libertà fino dai tre titoli: «La libertà delle persone è la vera questione», «Sulla censura nessuno ha le carte in regola» e «Quello che insegna il caso Rushdie». Per Panebianco nel mondo islamico le libertà degli individui mancano delle «fondamenta individualiste» e la cultura dominante è illiberale, Ferraris rimbrotta le censure storiche che hanno furoreggiato anche negli Stati Uniti, e da noi ben oltre l’epoca del fascismo, ribadendo il dovere di difendere, pur «senza iattanza il valore universale del nostro piccolo credo, la libertà di espressione» e Battista ricorda i lati tragici e drammatici del caso Rushdie e le vittime libertarie tra chi ha osato difendere lo scrittore, tutte colpevolmente dimenticate dall’inerzia morale e culturale delle nostre paure, e si dice inorridito che ancora oggi qualcuno possa ritenere inopportuno aver scritto e pubblicato i “Versetti Satanici”… Che dire? Due cose. La prima è che encomiabilmente nessuno dei tre per dire di una certa attualità islamica ha sentito il bisogno, come invece altri, di prendersela anche con la storia del cristianesimo. La seconda – più importante – è rilevare che in nessuno dei tre “lamenti” – per carità in astratto giustissimi – ci sia anche un mite appello al buon senso: se una parola, uno scritto, un film si verificano in contesti nei quali milioni di persone se ne sentiranno offesi, vale proprio la pena di manifestare il “coraggio” di una sfida le cui conseguenze – come in questi giorni – siano pagate da altri con morti e feriti?
a cura di Gianni Gennari – avvenire.it

Delitto mediatico. La scure delle tariffe postali, a rischio decine di testate.

Delitto mediatico. La scure delle tariffe postali, a rischio decine di testate. UNA QUESTIONE DI DEMOCRAZIA E DI EQUITÀ.  C’È IN GIOCO LA VERA LIBERTÀ DI STAMPA

FRANCESCO OGNIBENE  – avvenire 18 luglio 2010


 C’
è un modo semplice e devastante per mettere il bavaglio – vero e letale – alla stampa libera in Italia. È un sistema che non sta su­scitando dibattiti nelle aule parlamentari e nelle piazze, né può essere contrastato a colpi di post–it. Arriva dritto alle radici e zac, taglia l’albe­ro fino a renderlo instabile, pericolante e a farlo cadere. Non è un’ipote­si, è già realtà. Lo è da quasi quattro mesi. Da quando cioè si è deciso di sopprimere, con un tratto di penna, le tariffe postali agevolate per l’edi­toria, facendo male a un settore già in seria difficoltà, ferendo testate im­portanti (anche la nostra, non lo nascondiamo di certo) e soprattutto i­potecando drammaticamente il futuro di quasi 200 testate locali che so­no voce indipendente e talora scomoda delle diocesi italiane, da Bolza­no a Noto: le loro copie – come quelle di decine di altre pubblicazioni minacciate dallo stesso, sciagurato decreto interministeriale del 1° apri­le – viaggiano perlopiù in abbonamento. Lo fanno in molti casi da oltre un secolo, coprendo quasi tutta Italia con un reticolo d’informazione ‘del territorio’ che parla ogni settimana a 5 milioni di lettori. E dunque chi è intervenuto non poteva ignorare l’effetto perverso che quell’azio­ne superficiale e rozza avrebbe sortito su un bene sensibile, un diritto pri­mario garantito dalla Costituzione, un’area di libertà e pluralismo au­tentico, vitale, che la Chiesa che è in Italia da sempre coltiva con spirito profetico, passione per il bene di tutti, coraggio esemplare.
  Perché, allora, colpire questo punto così sensibile della nostra democra­zia con la precisione di chi prende la mira? Una risposta ancora non l’ab­biamo trovata, e ci stiamo convincendo che neppure esista. Una rispo­sta ragionevole, intendiamo. Perché aumentare fino a oltre il doppio l’e­sborso necessario per esercitare il basilare diritto-dovere di diffondere ogni settimana informazione in ogni angolo del Paese significa perseguire uno scopo tanto preciso quanto irragionevole: lo strangolamento lento, inesorabile, di voci serie e libere. Molte di queste presenze storiche, au­tonome, radicalmente alternative per valori, parole, idee dovranno in­fatti arrendersi ai costi eccessivi, e dopo aver ridimensionato tutto quel­lo che è ridimensionabile saranno costrette ad alzare bandiera bianca. Non è forse questo il vero bavaglio imposto alla stampa italiana?
  Non stiamo parlando di astrazioni, né gridiamo vanamente al lupo: qui si contano già le vittime, e nessuno pare curarsene. Dove siete colleghi giornalisti della grande stampa? Dove siete signori parlamentari di mag­gioranza e di opposizione? Dove siete signori del governo? Il colpo di ma­glio delle nuove tariffe postali – già pesantemente operative, lo ripetia­mo, da quasi quattro mesi – è calato come una mannaia su piani edito­riali e progetti, quasi sempre allestiti sulle fondamenta di campagne ab­bonamenti appena concluse in base a costi noti e consolidati. Su conti che non tornano è impossibile costruire: non resta che contrarre ogni pos­sibile spesa sperando che la struttura non ceda. Ma a volte non basta nem­meno ridurre la frequenza e il numero delle uscite, sospendere le pub­blicazioni per l’estate, rinunciare a un quarto o alla metà della foliazio­ne, fare a meno delle pagine a colori, domandare a redattori e collabo­ratori la disponibilità a tirare la cinghia su retribuzioni già ai minimi, ac­crescere a dismisura il ‘volontariato’… Tutto questo si sta già facendo, mentre si chiede ai lettori la comprensione per rinunce gravi e dolorose. Ma quanto ancora potranno reggere testate che hanno resistito a guer­re e repressioni, sfidato il fascismo e – prima e dopo la dittatura – anche aspre ostilità politiche locali? Testate che ora guardano negli occhi il re­lativismo che insidia le radici stesse della nostra società, ma che vengo­no costrette a sottostare a gabelle irragionevoli e punitive? Di quale di­ritto all’informazione parliamo se si spegne anche solo una di queste vo­ci che per vivere non chiedono altro che di poter contare su servizi es­senziali
a costi equi?
Chi ha la responsabilità di riesaminare una decisione che già sta consu­mando effetti irreparabili non esiti oltre: ne va della libertà di stampa. Ma davvero.