«L’amore, quello vero? Inizia quando si sceglie di amare qualcuno nonostante tutti i suoi limiti umani, ancora prima che diventi una persona più amabile»

Famiglia Cristiana

Nel giorno degli innamorati, il 14 febbraio, ci facciamo aiutare da Flavio Parente, medico chirurgo e autore San Paolo, a capire cos’è l’amore. «L’amore è esercizio. Come i bambini che stanno imparando a camminare e ogni volta che cadono si rialzano per capire come non cadere più, così è l’amore: più ci si esercita ad amare e più si impara a non cadere e non farsi male».

Eppure anche nella coppia più solida può arrivare la crisi.
«La crisi è un passaggio inevitabile nel ciclo vitale della coppia (incontro, innamoramento, illusione e delusione) che fa parte a sua volta del ciclo vitale con cui si crea la famiglia. Ma più che una condanna o una pietra da scagliare, il conflitto di coppia può e deve essere un’opportunità di cambiamento, un germoglio da far fiorire. La forza della coppia regna nella preghiera, nell’affidarsi e consegnare le criticità a Colui che conosce e predispone le basi per la rinascita. La fede è la fune a cui aggrapparsi; il luogo in cui la coppia può cercare aiuto è la stanza dello psicoterapeuta di coppia e/o familiare. Amare è perdonare, ma soprattutto è mettersi sempre in gioco. Per fare questo, bisogna compiere prima un atto di volontà, poi un atto di fede. È necessario separare l’errore da chi lo commette, poiché tutti possono sbagliare, ma possono anche migliorare e correggersi».

Il libro San Paolo uscito in librerai il 9 febbraio

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Quali sono i motivi che possono mettere in difficoltà un rapporto?
«La mancanza di tempo; è necessario che ci siano un tempo della coppia, un tempo della famiglia, un tempo individuale e un tempo per il lavoro. Avere dei segreti e non confidarsi, ovvero non rivelarsi all’altro con piena fiducia; non vivere la sessualità, una dimensione fondamentale dell’intimità; non pregare: per costruire l’intimità, la sessualità e il rapporto di confidenza è necessaria la preghiera; l’ingerenza delle famiglie di origine è una delle cause principali di rottura dei rapporti. Infine, i soldi intesi come i beni e gli interessi materiali che portano a cambiare in modo distorto le priorità di ciascuno quando diventano degli idoli».

Nel libro San Paolo in libreria dal 9 febbraio,  Superare la crisi di coppia – Un percorso di rinascita tra psicologia e spiritualità cita un vademecum per litigare in modo sano. Davvero si può?
«Certo, ci sono delle regole di coppia: disinnescare le situazioni esplosive, non accusando ma domandando e sintetizzando; non parlare del passato: gli errori fatti non vanno rimarcati; non litigare davanti ai figli – potrebbero aver paura di essere abbandonati; non litigare davanti ai genitori – i panni sporchi si sa…; non parlare di separazione e divorzio: non aiuta a trovare una soluzione; non fare ciò che all’altro dà fastidio; non pretendere di avere sempre ragione; non rimanere troppo tempo senza aver fatto la pace; non fare male né con le parole, né fisicamente. E poi ci sono le regole individuali: usare buone maniere e non alzare la voce, risolvere i rancori per le cose passate».

Alla fine, così, la crisi sembra un’occasione!
«Lo è se la si sa sfruttare non come un evento di distruzione, ma come un’occasione per ottenere un bene maggiore: impostare un vero matrimonio!».

La dedica del libro recita “A noi tre: ieri, oggi e per sempre”. A chi è rivolta?
«Quale giorno migliore di oggi visto che è san Valentino per spiegare quanto mi ha appena chiesto: è una dedica a mia moglie e mio figlio e all’insostituibile dono della famiglia che è fatto di ieri, oggi e per sempre»

I profeti: parole dure e feconde

di: Roberto Mela in settimananews.it

Massimiliano ScandroglioUna parola dura, ma feconda. Il linguaggio difficile della profezia e la sua portata “evangelica”, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2023, pp. 192, € 22,00 (qui)

L’autore di questo testo, Massimiliano Scandroglio, è docente stabile di sacra Scrittura nella Sezione parallela della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale presso il Seminario di Milano (sede di Venegono Inferiore). Egli si pone in continuità ideale col volume di Galbiati-Piazza Pagine difficili della Bibbia (1951), che ha avuto enorme fortuna, con varie riedizioni. Non intende perseguire alcuno scopo apologetico ma, come gli autori a cui si ispira, cercare di spiegare alcune pagine difficili della letteratura profetica, in particolare dei Profeti Minori.

Ogni libro biblico è parola di Dio incarnata in parole umane, che sono debitrici del loro tempo, rispetto alla cultura, al linguaggio, ai simboli, alla storia concreta in cui espongono il loro messaggio… Occorre saper decifrare il contenuto essenziale che i profeti intendono esporre, servendosi di immagini anche riguardanti Dio che possono urtare la sensibilità moderna e anche un lettore cristiano che non inquadri i libri dell’AT nell’insieme della rivelazione biblica, portata al culmine nella persona di Gesù.

Ogni libro biblico parla più o meno da lontano di Gesù e del suo Dio, il Dio biblico. Bisogna cogliere l’intenzione profonda del messaggio profetico, che è sempre annunciare l’azione salvifica di Dio.

La letteratura dell’AT ha i suoi limiti e le sue contingenze, ma ne mostrano anche i testi del Nuovo Testamento, con il loro linguaggio particolare da interpretare e da attualizzare.

Scandroglio analizza pagine profetiche che suscitano incomprensione e perplessità. Se però esse sono accostate con empatia e intelligenza, fanno scoprire il medesimo Dio che mostra la propria natura paterna nei confronti di Israele e dell’umanità intera. La contingenza del testo non deve ostacolare il raggiungimento di questo scopo. «Da credenti possiamo intuire che la posta in gioco è alta – scrive l’autore –: ne va della verità dell’incarnazione, che conosce nella materialità della Bibbia e del suo modo di parlare di Dio la sua più eloquente attestazione» (p. 8; viene poi citato il passo di Dei Verbum 13).

Lo studioso analizza alcuni brani dei Profeti Minori, così da confrontarsi in modo diretto con il linguaggio biblico e la sua contingenza, ma evitando in tal modo di esaminare i diversi soggetti in maniera troppo teorica e sganciata dalla loro effettiva espressione letteraria. Le pericopi profetiche studiate faranno emergere il contenuto di verità: «l’iridescenza del mistero di Dio nella materialità del parlare e dello scrivere umano» (p. 9).

Amos: inevitabilità della fine

L’autore studia cinque tematiche presenti nei testi dei Profeti Minori.

Scandroglio analizza dapprima il tema dell’inevitabilità della “fine”. Seguendo le indicazioni ermeneutiche approntate per questo primo capitolo, si può avere una visione pressoché completa dell’intenzionalità dei profeti nello stendere le loro pagine, a volte molto dure verso il popolo e un po’ “imbarazzanti” a prima vista per il credente circa il volto di Dio presentato. Quel che vale per Amos vale per tutte le pericopi dei Profeti Minori analizzati nel libro.

Il libretto delle visioni di Amos (Am 7–9), col suo linguaggio aspro e diretto, mostra Dio che cerca di persuadere il profeta dell’urgenza di rispondere al peccato del popolo, nella speranza, mai sopita, di un suo ravvedimento, che possa rendere fattibile la riconciliazione. Si esaminano le visioni delle cavallette e del fuoco, quelle del piombino e del cesto di frutta e, infine, quella della strage al tempio.

Amos tenta, invece, di convincere il Signore a pazientare, verosimilmente in attesa che il suo ministero profetico possa dispiegarsi e portare gli auspicabili frutti. Il profeta ricorda al Signore la necessità di un castigo che sia proporzionato alla colpa e alla condizione di Israele; un castigo che non sia sfogo irrazionale di rabbia, ma ponderata strategia in vista della conversione (possibile) del colpevole.

Il rifiuto ostinato di Dio da parte del popolo, già denunciato, porta a un esito necessario e inderogabile sul quale convergono Dio e il suo profeta: la fine («È giunta la fine del mio popolo Israele!»: 8,2).

Al di là dei tratti radicali con i quali essa viene descritta, è indubitabile che questa fine (l’esilio) non possa che essere un passaggio ulteriore, aperto verso un futuro che ora è affidato solo a Dio e alla sua invincibile volontà di salvezza. «La fine, per come Amos la percepisce e la descrive, è esperienza di morte; ma di una morte che, per grazia, è preludio a una potenziale risurrezione» (p. 31).

L’auspicio inespresso del profeta di Tekoa diventerà per i suoi successori una certezza sempre più solida: «anche nell’oscurità della fine – fuor di metafora, la distruzione e l’esilio – Dio può afferrare il suo popolo e ricondurlo alla luce della vita» (ivi). Amos comunica la sua esperienza spirituale, ma intende coinvolgere il lettore, modificandone il modo di pensare, di giudicare, di agire e di credere.

La durezza della predicazione di Amos può suscitare perplessità, ma «essa non ha altra finalità se non quella di aiutare Israele – ormai in preda alla morte! – di lasciarsi salvare. La raccolta di Am 7–9 risulta, così, un aiuto fenomenale a cogliere l’intenzionalità salvifica inscritta in ogni pronunciamento profetico, anche in quello più duro e dall’apparenza senza speranza. Perché – prosegue l’autore – alla fine, se Dio parla è perché cerca sempre e comunque la conversione e la redenzione del suo popolo. Ogni parola che viene da Dio è per la salvezza di Israele» (p. 32). Il vero dramma sarebbe il silenzio di Dio! Amos lo ha minacciato, ma non si è realizzato in toto.

È stata pronunciata la parola “fine”. «Fine, però, non anzitutto per Israele in quanto tale – precisa Scandroglio –, ma per quella storia di peccato, che lo ha visto insipiente protagonista. Quindi, una parola che, per quanto difficile da comprendere e da accogliere, è risuonata nella tradizione biblica come (sconvolgente) “buona notizia”: al peccato e alle sue conseguenze è posto un termine, mentre il futuro resta affidato alla misericordia di Dio» (p. 32).

Michea: la responsabilità dell’uomo

La pericope di Mi 3,1-12 offre il materiale per studiare la seconda tematica: la responsabilità dell’uomo nella distruzione annunciata.

Michea denunzia la corruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. Viene rivolta una pesante accusa contro i governanti, amanti del male e oppressori del popolo. Ai profeti, invece, viene contestata la loro avidità di denaro e di consenso. Alle autorità viene addossata la responsabilità della rovina di Sion.

Il dramma ha una sua complessa paternità. L’immaginario assunto nell’esposizione del delitto è giustificato nella sua asprezza proprio dal tentativo di rendere per quanto possibile la gravità del misfatto in oggetto. L’obiettivo è quello di impressionare il lettore, suscitando in lui una netta ripulsa nei confronti di un’attitudine senza senso e priva di ragioni condivisibili.

A Michea interessa trasmettere la sua emozione negativa che prova di fonte a un’élite che ha drammaticamente tradito il suo mandato. Universi simbolici diversi disegnano una devastazione assoluta e senza apparente soluzione.

Michea denuncia la paternità della situazione drammatica, denuncia la responsabilità degli uomini nel distruggere le relazioni e nel trasformare la città in un ambiente malsano e invivibile. La città di Gerusalemme è costruita sul sangue, la devastazione futura appare come il compimento di un processo già ben avviato. Quando l’uomo, libero nelle sue scelte, non segue la volontà di Dio e il suo progetto di vita, si abbandona al proprio desiderio istintivo di auto-sufficienza e di auto-determinazione e diviene causa di morte per sé e per gli altri.

Dio viene coinvolto nel processo, quando si descrive il suo silenzio. Dio nasconde il suo volto in risposta alla preghiera dei potenti. All’incapacità radicale dell’ascolto da parte di Israele, Dio interrompe il dialogo con lui, condannandolo alla morte. Se la relazione con Dio è per l’uomo sinonimo di vita, l’interruzione della stessa non può che equivalere a una sentenza di morte. Buio, tenebra, silenzio sono simboli efficaci per descrivere la fine della relazione dialogica fra Dio e Israele.

I potenti hanno schiavizzato il fratello e hanno trasformato Dio in un idolo a proprio uso e consumo. È una fede falsa e Dio a questo gioco si sottrae. Il Signore non può assecondare l’ingiustizia. Il suo silenzio è segno della sua non-connivenza col male perpetrato e un estremo appello al suo popolo perché rifletta su di sé e sul proprio comportamento e si disponga a una conversione reale.

Una frase di Scandroglio è illuminante. «Anche se il testo di Michea non dichiara in modo limpido questa finalità del pronunciamento divino, è la letteratura profetica nel suo complesso a ricordarci che il parlare di Dio – sia esso minaccioso, esortativo o consolante – è sempre atto di grazia: ha sempre, cioè, come obiettivo ultimo la redenzione di coloro ai quali si rivolge. Nella minaccia è sempre insito un richiamo (quasi disperato) alla conversione!» (p. 57).

Sui leader che hanno pensato solo a sé stessi, trascurando i diritti e le necessità del prossimo, si abbatterà la miseria che loro hanno portato in Israele. «Dio manifesterà aperta indifferenza per la loro condizione, in modo tale che possano – si spera – comprendere la portata del loro peccato» (ivi).

Michea intende il suo compito profetico come quello di «un latore di un messaggio di sventura, che gli domanda di stare all’opposizione rispetto a un potere corrotto e corruttore, pagandone in prima persona le conseguenze, nella speranza che tutto questo possa aiutare Israele – autorità comprese! – ad accogliere l’offerta salvifica di Dio. A lui è chiesto di confrontarsi, di rimproverare, di denunciare, perché sia chiaro che colui che lo ha mandato non ha taciuto di fronte al peccato del suo popolo» (p. 58).

Michea consegna un annuncio di sventura che accusa senza mezze misure il presente e le sue storture; un presente segnato dall’idolatria del potere e dall’interesse personale. «All’apparenza – conclude Scandroglio – una simile profezia potrebbe sembrare del tutto negativa e priva di qualsiasi scintilla di speranza, ma non è così. La distruzione violenta di Gerusalemme è prima di tutto distruzione di un potere corrotto, è liberazione dal giogo di un sistema disumano; quindi, l’annuncio di tutto ciò equivale a ricordare al mondo che – per grazia di Dio – il male nella sua storica e concreta configurazione ha i giorni contati!» (p. 58).

Naum: la lotta di Dio contro il male nella storia

Il brano di Na 3,1-19 illustra la lotta di Dio contro il male nella storia.

Viene espressa una sentenza su Ninive, capitale degli assiri, nemici storici di Israele. Si eleva un forte lamento sulla città sanguinaria e se ne preannuncia la fine. È una sventura senza rimedio. «Un linguaggio arduo nella forma ma dolce nell’intento», conclude lo studioso.

La letteratura biblica tende a personificare il male in soggetti ben precisi. Ninive è simbolo di tutte le dinamiche perniciose della storia, che portano al trionfo dell’ingiustizia. Da concreta città della storia, sotto la penna di Naum Ninive diventa un simbolo contro cui Dio investe tutta la sua potenza (sempre e solo salvifica).

La destinataria dell’atto di accusa non è alla fine Ninive in quanto tale, ma ciò che essa rappresenta e in qualche misura incarna. Ninive ha ormai cessato in concreto di esistere, ma la città uscita dalla scena della storia entra nel campo del mito, diventa per Naum l’emblema cristallino di tutte quelle forze oscure che si oppongono al disegno salvifico di Dio e contro cui Dio stesso esercita la propria autorità di giustizia.

Il coinvolgimento da parte del Creatore è reso spesso con un linguaggio che non incontra la sensibilità del lettore contemporaneo. Dio appare come comandante in campo che guida le sue truppe alla conquista della città nemica. La guerra era un’esperienza della vita quotidiana del mondo antico. È quindi naturale che il linguaggio bellico dia un contributo alla teo-logia e sia in qualche modo assunto per parlare di Dio e del suo agire salvifico nella storia.

In primo luogo, Dio è mostrato come direttamente coinvolto nella rivelazione e nella distruzione del male, smentendo ogni infondata accusa di indolenza di fronte al dramma della storia.

In secondo luogo, si trasmette la certezza (di fede) che questa impresa divina avrà pieno successo e le forze diaboliche della storia saranno sconfitte dalla vittoria dell’Onnipotente.

In terzo e ultimo luogo, si deve manifestare una chiara corrispondenza fra il male concretamente denunciato e la fisionomia del castigo messo in atto dal Signore, in modo tale che non appaia un comportamento arbitrario, per non dire irrazionale. «Solo tenendo adeguatamente in conto tali dimensioni del linguaggio usato soprattutto dalla profezia, diventa possibile – annota Scandroglio – accostare questi testi con cognizione di causa, cogliendone l’intento a tutti gli effetti “evangelico”» (p. 82).

La lotta di Dio è contro il male, non contro il malvagio! – prosegue l’autore –. «Anche l’uomo peccatore, infatti, è vittima del male che compie; pertanto, l’azione di giustizia di Dio, che ha sempre una finalità salvifica, non può che coinvolgere anche lui, sul presupposto necessario di un’effettiva volontà di conversione da parte sua» (pp. 82-83).

Nella Scrittura, l’attenzione divina non si concentra tanto sul destino del malvagio quanto su quello delle vittime. L’atto storico di Dio non persegue un intento “vendicativo” in senso stretto, ovvero di ripagare il male contro il male, quanto un intento di “giustizia”: ristabilire l’equilibrio delle relazioni, ferito dal peccato.

Beneficiari dell’intervento divino sono le vittime dell’ingiustizia ma anche i carnefici che, senza rendersene conto, ne sono divenuti a loro volta vittime. L’azione salvifica di Dio non può dimenticarsi del carnefice e della liberazione dal male di cui anch’egli ha disperato bisogno.

La profezia di Naum, concentrata sulla condizione delle vittime, fa cogliere bene lo scopo ultimo del parlare profetico: la consolazione. Il profeta fa un’“opzione per i poveri”: si pone anzitutto nella prospettiva di lettura delle vittime, nel tentativo di offrire una parola che sia per loro motivo di conforto e di sostegno per la fede. Le vittime sono i primi destinatari delle parole profetiche. Essi hanno bisogno di essere sostenuti nelle loro fatiche con la certezza che Dio non si è dimenticato di loro.

Una lettura sapiente del testo profetico deve partire dalla conoscenza dei destinatari storici della parola ispirata, di quali fossero le contingenze da loro patite e, dunque, di quale messaggio salvifico essi avessero veramente bisogno. Altrimenti, non si fa vera esegesi, ma si impone al testo, in modo maldestro e deleterio, la propria sensibilità.

Osea: il castigo in vista della conversione

La pericope molto conosciuta di Os 2,4-25 illustra per Scandroglio il tema del castigo per la conversione. Egli analizza, dapprima, la metafora matrimoniale in Osea. Studia poi i versetti che contengono l’accusa contro la sposa infedele (vv. 4-17) e quelli che annunciano il giorno di una nuova alleanza (vv. 18-25).

Tutto per la salvezza di Israele, conclude lo studioso.

Quel che fa problema in questo testo è il concetto di castigo, che va ben interpretato. Purtroppo si pensa ad un’azione che non abbia innanzitutto una finalità positiva (in particolare educativa), ma solo retributiva – per non dire vendicativa. Un pregiudizio difficile da scardinare.

Nella Bibbia il castigo ha un’assoluta e prioritaria valenza pedagogica nei confronti del peccatore. Il castigo è uno strumento che, per quanto radicale, non può essere pensato al di fuori di questa unica legittima finalità. Il discorso biblico sul castigo prende senso solo in vista di tale precisa intenzione educativa: «il peccatore deve essere reso consapevole della gravità di ciò che ha commesso, quasi sperimentando sulla propria pelle il male che ha contribuito a diffondere e a consolidare» (p. 115).

Senza questa presa di coscienza, che il castigo contribuisce potenzialmente a far maturare, «il perdono – come disponibilità alla riconciliazione – non potrebbe manifestare tutta la propria fecondità; resterebbe un’azione certamente meritoria, ma sostanzialmente inutile, incapace di sanare davvero le relazioni ferite dal peccato. Un autentico superamento del peccato e delle sue conseguenze, invece – sottolinea l’autore –, non può che partire dal rinnovamento (non formale) di colui che lo ha compiuto» (p. 115).

Il secondo concetto decisivo della teologia biblica da ripensare è quello della giustizia. Con questo termine non si intende anzitutto la corrispondenza formale con un corpus normativo, ma l’equilibrio fecondo delle relazioni (a diversi livelli e in diversi contesti). Il castigo appare come l’extrema ratio nel tentativo di recuperare questa condizione di armonia che il peccato ha infranto. Ogni peccato intacca l’armonia e l’equilibrio, richiedendo una serie di azioni che permettano di ripristinarlo.

Nel contesto di relazioni fra due soggetti, il colpevole e la vittima, non è sufficiente che la vittima si mostri disponibile alla riconciliazione. Occorre che il colpevole manifesti altrettanta disponibilità, che passa per il riconoscimento sincero della propria colpevolezza e dalla volontà fattiva di riparare – se possibile e per quanto possibile – il danno arrecato. Il castigo, nelle forme più disparate, favorisce il raggiungimento di questo scopo. Un’ottima esemplificazione di queste dinamiche relazionali complesse è rappresentata dai testi biblici riconducibili al genere letterario del rîb (di cui Os 2 è un esempio).

Può accadere che il peccatore castigato non riconosca le proprie responsabilità; la virulenza del peccato nell’intaccare e nel corrompere la coscienza può condurre a una situazione di impasse, dove anche questo strumento risulta improduttivo. Può accadere che Israele non dia alcun segnale di ravvedimento. «La letteratura profetica si ferma su questa soglia misteriosa e a suo modo drammatica, nella speranza sincera che, investito dall’amore di Dio e confrontato con il rischio concreto della propria morte, anche Israele, popolo “dalla dura cervice”, possa intraprendere la via del ritorno» (p. 116).

La possibilità del castigo, letta in questi termini, rivela tutta la propria dimensione positiva e promettente: è il primato dell’iniziativa salvifica di Dio a giustificare il ricorso allo strumento della punizione. «Avendo come obbiettivo unico la redenzione del suo popolo, Dio è pronto anche a ricorrere a una sempre ponderata e ragionata punizione, perché Israele si ravveda e l’alleanza possa tornare a fiorire» (p. 117).

Sofonia: il Giorno di YHWH, culmine e paradigma del castigo

Nell’ultimo capitolo del suo volume Scandroglio affronta il tema del Giorno di YHWH descritto da Sofonia.

Dapprima viene presentato il tema così com’è descritto nei profeti e in Sofonia. Si studia in particolare la pericope di Sof 1,2–2,3. In essa si annuncia la fine per il mondo e per Giuda (1,2-6); segue l’annuncio del Giorno per Giuda (1,7-13), l’annuncio del Giorno per il mondo (1,14-18) e infine si prospetta una salvezza possibile (2,1-3).

Il Giorno di YHWH si caratterizza non come semplice lasso temporale, ma come evento caratterizzato dalla presenza potente del Signore, e, dunque, radicalmente singolare nel panorama storico. In occasione di questo momento originario il Dio di Israele rivela sé stesso e interviene per fare giustizia. Anche per Sofonia, il Signore non è una divinità sostanzialmente impotente o comunque ignava, come invece pensavano alcuni interlocutori.

L’intervento di Dio può assumere tratti di un evento punitivo o salvifico e interessa principalmente Giuda e Gerusalemme. Sul popolo incombe la minaccia di un castigo, ormai imminente, a causa del suo sostanziale tradimento dell’alleanza. Dio è mosso da una “rabbiosa” determinazione di non accondiscendere al peccato. Ciò non esclude che, a determinate condizioni, il popolo eletto, o un suo resto, possa godere la speranza e la redenzione.

La sovranità di Dio è però universale, senza limiti di spazio e di tempo. C’è la tendenza a un’universalizzazione del giudizio divino che, oltre alla comunità umana, interesserà la totalità della creazione.

Si discute se in Sofonia il Giorno di YHWH sia un evento storico o escatologico. Per Scandroglio non occorre scegliere.

Inizialmente la minaccia contro Giuda nel periodo di Giosia era finalizzata a combattere l’influsso variegato della cultura assira e a richiamare il popolo alla necessaria conversione.

In epoca esilica fu ripresa per giustificare la catastrofe della distruzione di Gerusalemme e il miracolo della sopravvivenza di un “resto”. In una fase successiva, le parole del profeta sarebbero state rielaborate allo scopo di prefigurare, invece, il giudizio escatologico universale.

Scandroglio esamina le pericopi di Sofonia che riportano ammonizioni e minacce, anche di portata universale e cosmica, alcuni detti sul Giorno di YHWH (la forma più caratteristica che assume il giudizio divino in Sofonia) e varie esortazioni alla conversione, nella speranza di sfuggire al dramma imminente.

L’annuncio del giorno di YHWH, in Sofonia, come negli altri profeti, è mosso e sostenuto da una convinzione: la premura di Dio per il ristabilimento della giustizia nella storia. Nella lettura di queste pagine va colta questa passione viscerale, espressa in densità teologica, alta qualità letteraria che, però, può lasciare talvolta sconcertati per l’immaginario distruttivo impiegato.

Nella tradizione cristiana il Giorno di YHWH è stato identificato col Dies Irae medioevale. Nella profezia biblica esso è un evento di natura poliedrica e dagli esiti non scontati, ma radicato nel cuore di Dio. Egli vive una passionale preoccupazione e un fattivo coinvolgimento affinché il volto sfigurato della storia possa recuperare l’“originaria” bellezza. Il lettore deve sempre tener conto di questo fondamento della tematica, pena l’interpretazione errata e dannosa del concetto.

La premura divina è soprattutto rivolta alle vittime dell’ingiustizia. Dio si interessa concretamente dei poveri della storia. Questo motiva la sua intenzione di imprimere quanto prima a questa stessa storia una svolta radicale e irrevocabile.

Le parole accusatorie di Dio sono indirizzate in modo esplicito a determinate categorie sociali, ritenute responsabili della situazione attuale.

Il prossimo evento universale di giudizio, che chiamiamo Giorno di YHWH, è messo in moto dalla premura di Dio per il ristabilimento della giustizia e dalla premura per le vittime della mancanza di giustizia. Davanti alla storia degli uomini abitata da dinamiche usuali e deleterie, che feriscono la dignità di alcuni per preservare l’interesse di altri e che sono talmente radicate che agli occhi appaiono intangibili e inattaccabili, il profeta annuncia a nome di Dio che a tutto questo sarà posto termine.

Non sarà l’ingiustizia ad avere l’ultima parola sulla storia degli uomini!

Sofonia parla anche ai prepotenti che, nella loro tracotanza, si fanno perfetta espressione di un esecrabile ateismo pratico. Il loro peccato è a livello etico e sociale, ma anche teologico, presupponendo un’immagine del tutto distorta di Dio. Attribuiscono a Dio le loro perverse qualità, convinti che Dio non è coinvolto effettivamente nelle vicende umane. Un Dio assente, che non fa né bene né male. Sofonia annuncia un messaggio contrario: è un dato di fatto – anzi di fede! – che il Dio di Israele è coinvolto nella storia degli uomini e il che il Giorno ne sarà il sigillo palese definitivo.

L’intervento divino – non necessariamente “escatologico” – avrà come effetto quello di confermare come, al di fuori della relazione con lui, non vi sia per l’uomo alcuna possibilità di salvezza. I potenti e le potenze del mondo cercano di assicurarsi la vita ponendo la loro fiducia in mezzi – in primis il denaro – che si riveleranno alla fine fallimentari e fonte solo di delusione.

La proclamazione del Giorno di YHWH è così «anche un grido rivolto all’umanità a riconoscere come lontano dal Dio di Israele non possa esserci redenzione». Lo sguardo di profondità del profeta vede tutto questo evidente fin d’ora. Ma un giorno tale evidenza sarà per tutti, in particolare per coloro che si ingannano su come garantirsi l’agognata salvezza.

Ben precisato a livello ermeneutico, il Giorno di YHWH resta un evento di salvezza che mira alla conversione dell’uomo e alla redenzione. «Nella storia “drammatica” dell’alleanza fra Dio e l’umanità, il Giorno appare come l’ultimo atto che non smentisce, anzi pienamente ne conferma, l’intenzionalità salvifica» (p. 148).

Utile strumento

Dopo la conclusione, segue la bibliografia, l’indice degli autori e delle citazioni (bibliche e non bibliche).

Il volume di Scandroglio sarà molto utile per accostare testi profetici difficili da comprendere e da attualizzare nella sensibilità odierna, in quanto egli decodifica immagini e concetti lontani dalla nostra epoca ma decisivi e centrali nella letteratura biblica, che vanno interpretati in modo corretto e non deformati con l’imposizione della propria sensibilità personale. Ne va di Dio, della sua rivelazione e della certezza di fede che Dio agisce sempre per una giustizia salvifica.

 

Il Vangelo secondo Paolo

di: Roberto Mela

vg secondo paolo

Fin dall’introduzione alla sua fatica Romano Penna denuncia il pericolo costante che il cristianesimo sia inteso riduttivamente come una precettistica morale: osservare delle norme, talvolta con molta difficoltà, per ottenere da Dio un rapporto favorevole o una grazia. L’esperto esegeta, emerito della Lateranense e affermato paolinista, svolge la sua indagine per riscoprire la vera identità del cristiano, del vangelo e dell’evangelizzazione che lo diffonde ovunque.

Al centro della vita cristiana vi è il vangelo, la buona notizia non di una vittoria militare o del felice genetliaco dell’imperatore – così era inteso nella cultura greco-romana coeva –, ma di un evento concreto attuatosi nella storia: Dio ha tanto amato gli uomini da donare il suo Figlio Gesù, che è morto in croce ed è stato risuscitato. Questo è un vangelo “eterno”, o, meglio, permanente, ineliminabile e, insieme, immutabile. Gesù è morto ed è stato risuscitato per gli uomini, per donare loro redenzione, pienezza di vita, figliolanza divina.

Il vangelo e il suo annuncio è stato al cuore della persona e dell’attività apostolica di Paolo. Quando egli parla de «il mio vangelo», si può notare quanto lo senta vita della sua vita. Anche Paolo però, lungi dall’essere il fondatore del cristianesimo, ha ricevuto il vangelo da altri (cf. 1Cor 5,1ss). Al primo posto dell’evangelizzazione sta infatti una missione, l’invio da parte di Gesù dei suoi discepoli quali annunciatori della buona novella fino ai confini della terra. La missione fa capire che l’origine del vangelo è allogena, altra dal mondo puramente umano. Nessuno evangelizza individualisticamente, ma solo come inviato da Gesù, con il quale vive in comunione.

L’evangelo di fatto consiste nella Parola di Dio, che ha Dio come soggetto e come contenuto oggettivo. Essa si specifica soprattutto per il suo carattere essenzialmente cristologico. Il buon annuncio si radica nella magnanimità di Dio e, di fatto, non si manifesta più come Legge ma come la stessa persona di Gesù Cristo. È una parola vicino al cuore e sulle labbra, proclamata esternamente e appropriata interiormente. La fede, infatti, viene dall’ascolto (cf. Rm 10,7).

Il contenuto dell’evangelo è vantaggioso per l’uomo, è l’annuncio di un favore fatto a lui. Il vangelo ha preso forma due volte, nel Gesù storico dapprima e poi nell’evento pasquale. L’evangelizzazione ha avuto quindi due inizi: la storia di Gesù, personalmente soggetto dell’annuncio del Padre e del Regno, e poi la sua storia divenuta oggetto dell’annuncio ecclesiale dopo la pasqua.

I Vangeli ricuperano la storia di Gesù che annuncia in parole e azioni concrete di salvezza il Padre e il Regno. La Chiesa postpasquale subentra in un secondo momento, annunciando principalmente la morte e la risurrezione di Gesù.

Il primo atto ecclesiale, preminente, è quello dell’annuncio. «Di qui si può dedurre addirittura – afferma Penna – la dimensione della predicazione come primo sacramento ricevuto» (p. 43). Cristo – afferma infatti Paolo – «non mi ha mandato a battezzare ma ad annunciare il vangelo» (1Cor 1,17).

Due sono i testi paolini decisivi per descrivere la natura del “vangelo” come è inteso da Paolo.

Il contenuto del vangelo riportato in 1Cor 15,1-3 è espresso con quattro verbi. Viene sottolineato con forza lo stretto rapporto tra vangelo e salvezza: Gesù morì, fu sepolto, è stato risuscitato, apparve. Se, nella grecità, si interpretava la nobiltà della “morte per” in quanto compiuta per una realtà positiva come gli amici, la patria, la pace ecc., in 1Cor 15 la morte di Gesù è interpretata teologicamente come redentrice non con una terminologia sacrificale e cultuale, ma esistenziale. Essa è a favore degli uomini in funzione dello sradicamento di una realtà negativa, il peccato.

La morte di Gesù è riscatto, redenzione, espressione ultima e sigillo esterno di una vita pro-esistente connotata da una forte solidarietà con gli uomini. Paolo personalizza le affermazioni: Cristo morì per noi, per noi tutti, per il fratello, per gli empi ecc.

In 1Cor 15,3c Paolo sottolinea il fatto che Cristo non risorse, ma che è stato risuscitato dalla potenza del Padre dopo un breve periodo di tempo. L’espressione “il terzo giorno” si riferisce alla scoperta del sepolcro vuoto ma non fissa calendaristicamente il giorno della risurrezione. La sua è una “risuscitazione” ad opera del Padre (cf. p. 54). Occorre ricordare che ciò che riscatta l’uomo non è però la croce, anzi è personalmente Gesù stesso a riscattare la croce.

Il secondo testo paolino importante citato da Penna come definizione formale del vangelo è Rm 1,16-17. Esso è potenza di Dio per la salvezza universale di chiunque creda, giudeo o pagano che sia, in quanto in esso si rivela il buon rapporto che Dio instaura fra sé e l’uomo all’interno del regime della fede. In ogni caso, «L’evangelo è soltanto credibile, esso può essere solo creduto» (K. Barth). Esso si offre come alternativa a tutto ciò che non sia accoglienza pura incondizionata del vangelo.

È evidente che l’evangelizzazione si attua all’interno della Chiesa. Sono stati i discepoli a curare e a tramandare la memoria di Gesù, non Ponzio Pilato o Erode Antipa. Non si può quindi scegliere Cristo e, allo stesso tempo, dire di no alla Chiesa… Non c’è vangelo senza Chiesa. Paolo stesso l’ha ricevuto all’interno della catechesi che gli è stata impartita (cf. 1Cor 15,1).

La Chiesa non ha certo l’esclusiva dell’umano e dei suoi valori, ma propone la possibilità effettiva di raggiungere la pienezza dell’umano, la sua redenzione, i valori radicati nelle radici. Altrimenti essi si riducono ad essere «come dei fiori recisi in un vaso» (P. Ricoeur).

Il vangelo è comunque sopra la Chiesa, l’insieme comunitario dei battezzati. Al centro del vangelo non è infatti il credente o il corpo ecclesiale, ma il Cristo Signore. Gli annunciatori sono servi, custodi e “coltivatori” dell’annuncio evangelico.

Penna ricorda come il vangelo ha bisogno di essere inculturato, come il Verbo di Dio si è incarnato. Esso conserva comunque sempre un aspetto “scandaloso” che non potrà mai essere aggirato o ignorato. La sapienza della croce – che è la sapienza del vangelo – è alternativa alla pura sapienza umana chiusa in se stessa e alle realtà superiori alle sue capacità conoscitive.

Il Dio altro si rivela pienamente, e non solo di spalle come ha fatto a Mosè, nel volto del Crocifisso. Questa è l’ultima rivelazione di Dio in un volto umano: il Crocifisso. Senza di lui si può giungere a conoscere forse il Dio della creazione, ma non il Dio insospettabile e “nuovo” che si rivela in Cristo Gesù crocifisso e risorto.

Penna sottolinea, infine, come il vangelo possa essere assimilato e vissuto solo nell’ambito della fede, apertura incondizionata all’azione gratuita di Dio in Cristo Gesù. L’impegno morale del discepolo di Cristo che ne segue necessariamente non sarà costituito allora da opere della Legge, ma dalla fede che si rende dinamica nella carità (cf. Gal 5,6), espressione fruttuosa della vita filiale del Figlio di Dio immessa nel credente dallo Spirito di Dio/di Cristo. L’imperativo morale segue l’indicativo salvifico gratuito e immeritato. Agere sequitur esse. Diventa ciò che sei…

Un bel volume di Penna, ricco di riflessioni e di citazioni paoline, che ben calibra la novità del vangelo e dell’evangelizzazione tra “scandalo” e dono di piena umanizzazione.

Pasolini interprete di san Paolo

di: Virginia Casagrande

pasolini paolo

«Potrei parlare di UNO che è stato rapito al Terzo Cielo: / invece parlo di un uomo debole: fondatore di Chiese»[1]. Che Pasolini sia stato uno scrittore ateo ma profondamente religioso lo dimostra l’intera sua produzione. Celebre il suo instancabile bisogno di interrogare il mistero di Gesù di Nazareth, la cui traccia più sublime resta la pellicola del 1964, Il Vangelo secondo Matteo.

Meno noto invece, ma non per questo meno rilevante, è il vivo interesse che Pasolini ha mostrato per un altro personaggio fondamentale tanto per la storia del cristianesimo che per l’intera storia occidentale: Paolo di Tarso. La figura del predicatore giudeo appare una presenza costante nella sua opera, tanto che ne troviamo traccia in diversi prodotti cinematografici, narrativi e poetici, dalla fine degli anni ’40 fino alle soglie del 1975.

L’aspetto più interessante dell’interpretazione pasoliniana dell’apostolo indubbiamente emerge nell’abbozzo di sceneggiatura per un film sulla vita di San Paolo, in lavorazione dal 1966 al 1974, mai realizzato a causa della fallita collaborazione con la casa di produzione Sampaolofilm[2].

L’incompiuta paolina

L’elaborato testo di questa sceneggiatura scaturisce dal confronto tra le due principali fonti paoline: gli Atti e le Lettere. Se infatti i due testi possono essere messi a confronto in molti punti, si devono riconoscere anche notevoli discordanze. Gli Atti presentano un Paolo teologicamente più edulcorato, che tende a stemperare le radicali posizioni teologiche delle Lettere, nella prospettiva di compiacere Giacomo e la comunità madre di Gerusalemme.

Pasolini, intellettuale sagace, coglie questa tensione tra le due fonti e la estremizza nella finzione letteraria della sceneggiatura, arrivando a rappresentare Paolo come un soggetto diviso, schizofrenico come afferma Guastini[3], e a trasformare la scrittura degli Atti da parte di Luca in un’operazione ispirata da Satana. La psicosi dell’apostolo si alterna tra due poli definiti Trasumanar e Organizzar[4], o anche nel contrasto tra «il santo e il prete»[5], che rappresentano l’impossibile compromesso tra l’ascesi mistica da una parte e l’esigenza di relazionarsi con le urgenze materiali dall’altra.

Quest’ultima esigenza spinge ineluttabilmente Paolo verso l’organizzazione della Chiesa, e quindi alla fondazione funesta di una istituzione. Per questo Pasolini, d’indole fortemente anticlericale, afferma in modo veemente: «accuso San Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione[6]». E ancora: «la sessuofobia, l’antifemminismo, l’organizzazione, le collette, il trionfalismo, il moralismo […] le cose che hanno fatto il male della Chiesa sono già tutte in lui»[7]. Il promotore della carità è tornato il fariseo schiavo della Legge e della norma, che è «nata dalla fede e dalla speranza / (senza carità, che è touton méizon)»[8], facendosi in questo modo complice dell’odierna ragione borghese e responsabile dell’attuale desacralizzazione del mondo.

Pasolini espone assai lucidamente come la sola alternativa a ciò sia «vivere / [al margine / delle istituzioni come un bandito»[9], avere il coraggio di accettare una lacerante condizione di orfanità, perché «le istituzioni sono commoventi, / e commoventi perché ci sono: perché / l’umanità – essa, la povera umanità – non può farne a / meno»[10].

Il sacro e l’arcaico

Il film progettato da Pasolini avrebbe dovuto traporre i viaggi apostolici nell’Europa e nell’America della fine degli anni ’30 e fine degli anni ’60 del Novecento, nella prospettiva innanzitutto di far dialogare il predicatore[11] con la moderna società imborghesita ed industrializzata e con l’istituzione cattolica ormai inetta ed obsoleta, manipolate entrambe dal nuovo potere consumistico, fascista nelle sue modalità, in cui Pasolini riconosceva l’origine della drammatica perdita del contatto con il sacro.

Recuperare questa relazione con il mistero del mondo e delle cose era forse la più pungente urgenza del poeta, come giustamente commenta Calabrese: «per il tramite della parola di San Paolo» esso, il sacro – vero e proprio «tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7) – «può essere ancora nominato o rievocato»[12]. L’espediente usato da Pasolini e recuperato dal Vangelo secondo Matteo consisteva nel mantenere sulle labbra dell’apostolo delle genti i discorsi delle Lettere di 2000 anni fa inalterati, nonostante gli interlocutori gli rivolgano domande «specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni»[13].

Pasolini manterrà nei confronti del suo San Paolo una tensione sempre viva e spesso contraddittoria tra esaltazione e condanna («io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete»[14]), incarnata attraverso sentimenti ambivalenti, attraverso consci e inconsci movimenti di identificazione e opposizione all’apostolo.

A tale proposito è interessante segnalare una lettera privata del 1964 indirizzata a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana, caso unico in cui l’identificazione a San Paolo si fa radicalmente cosciente e radicalmente intima: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo […] e un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio»[15].

P.P. e il suo doppio

Oltre al lampante richiamo al celebre episodio sulla via di Damasco, che Pasolini fa suo fino alle estreme conseguenze, questa lettera stabilisce l’inizio di una sottile linea di cucitura tra l’esperienza del poeta e quella dell’apostolo, che punto dopo punto prosegue fino alla fine della sua vita. Non a caso, alcuni studiosi hanno spesso definito San Paolo uno dei più forti alter ego dello scrittore[16], soprattutto nella sua volontà di essere oggetto di scandalo per la società. La lunga e complessa relazione con questo personaggio che compare, tra gli altri, in rilevanti lavori editi ed inediti come TeoremaMedea e Romans, si conclude nell’ultima raccolta poetica pubblicata in vita, la Nuova Gioventù edita nel 1975.

L’ultima parola di Pasolini su Paolo di Tarso risulta molto dura, ma non così distante da tutto quello che abbiamo osservato fino ad ora. Paolo «è stata la grande disgrazia»[17] dei luoghi del mito pasoliniano e questo è vissuto esattamente come un lutto, come un dolore quasi fisico «nel fondo più mio del cuore»[18]. Il mondo che percorreva il Tagliamento, il mondo dei ricordi fanciulleschi del poeta non è ormai che una «grande Chiesa grigia»[19] dove i ragazzi «sono cattivi e seri come vuole San Paolo»[20]; identità spogliate della loro ancestrale forza vitale, della loro allegria e spontaneità, in sintonia con la poetica delle Ceneri di Gramsci[21].

Il cambiamento antropologico appariva apocalittico e irreversibile agli occhi di Pasolini, al quale non restava altro modo di denunciare tutto questo che attraverso la sua penna, versificarlo sulle sue pagine d’appunti, laddove «nei suoi viaggi non è mai arrivato San Paolo»[22].


[1] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, 25.

[2] A. Monge, «Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini», in Paulus, n. 1 (luglio 2008), 66-67.

[3] D. Guastini, «Chi è San Paolo? Le risposte di Pasolini e Badiou», in Pòlemos 9 (2016), 87-105, qui 89.

[4] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e Silvia de Laude, Mondadori, Milano 1999, 1462.

[5] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, 639-640.

[6] L. De Giusti, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, Cinema Zero, Pordenone 1979, 156.

[7] Ibidem.

[8] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 22.

[9] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 83.

[10] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 20.

[11] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, 1600-1601: «ai tempi nostri ma senza cambiar nulla […] restando fedelissimo alle sue lettere».

[12] G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994, 46.

[13] P.P. Pasolini, San Paolo, Garzanti, Milano 2017, 15.

[14] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, 639-640.

[15] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, 576-577. La lettera è stata pubblicata in «Rocca» del 15 novembre 1975.

[16] A. Maggi, The resurrection of the body. Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade, University of Chicago Press, Chicago 2009, 22: «This film project […] is Pasolini’s most direct and sincere self-portrait, his most explicit autobiography».

[17] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.

[18] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.

[19] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 473.

[20] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 472.

[21] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2013, 56: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta […]».

[22] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 472.

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