Domenica 30 aprile la Giornata per le Vocazioni

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Si celebra domenica 30 aprile la 60ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema “Vocazione: grazia e missione”. Si tratta, spiega il Papa nel suo Messaggio, di “un’occasione preziosa per riscoprire con stupore che la chiamata del Signore è grazia, è dono gratuito, e nello stesso tempo è impegno ad andare, a uscire per portare il Vangelo”. “Animato dallo Spirito – afferma il Papa – il cristiano si lascia interpellare dalle periferie esistenziali ed è sensibile ai drammi umani, avendo sempre ben presente che la missione è opera di Dio e non si realizza da soli, ma nella comunione ecclesiale, insieme ai fratelli e alle sorelle, guidati dai Pastori. Perché questo è da sempre e per sempre il sogno di Dio: che viviamo con Lui in comunione d’amore”.
In occasione della Giornata, l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni ha preparato diversi materiali, tra cui il cortometraggio intitolato “Le parole della vocazione”. Realizzato dal documentarista Giovanni Panozzo, lo short film raccoglie le voci di cinque studenti universitari che riflettono sui grandi temi dell’esistenza umana, a partire da alcune parole come desiderio, tradizione, anziani, adulti, condivisione, Chiesa, futuro, spiritualità.

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“Ascoltare i loro racconti mostra un forte desiderio di una vita solida, vissuta in pienezza nella quale hanno voglia di buttarsi con entusiasmo e non senza paure riguardo al futuro. Sono giovani che alla base della vocazione cristiana si trova la consapevolezza, come afferma Papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata, ‘di essere stati creati dall’Amore, per amore e con amore, e [che] siamo fatti per amare’”, spiega don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio. “Mettersi in ascolto dei loro racconti – aggiunge – allarga il cuore anche alla preghiera e al profondo desiderio di affidare al Signore le loro vite perché in lui possano trovare compimento a partire dai meravigliosi doni e potenzialità che esprimono. Donano speranza e infondono la passione a costruire insieme a loro l’oggi cui tutti, sono ancora parole del Pontefice, ‘nella Chiesa siamo servitori e servitrici, secondo diverse vocazioni, carismi e ministeri […]. In questo senso, la Chiesa è una sinfonia vocazionale, con tutte le vocazioni unite e distinte in armonia e insieme in uscita per irradiare nel mondo la vita nuova del Regno di Dio’”.
chiesacattolica.it 

La situazione della Chiesa oggi secondo l’annuale Rapporto dell’agenzia Fides

Foto di gruppo dalla missione ad gentes. E’ quello che merge dai dati del rapporto annuale dell’agenzia Fides pubblicato oggi, in vista della 96esima Giornata Missionaria Mondiale che si celebra domenica prossima 23 ottobre. Tra i primi elementi di rilievo a livello planetario c’è l’aumento dei cattolici (sulla base dall’ultimo Annuario statistico della Chiesa aggiornato al 31 dicembre 2020) è che il numero dei cattolici è di 1.359.612.000 persone con un aumento complessivo di 15.209.000 unità rispetto al 2019. L’incremento interessa quattro continenti, tranne l’Oceania. Sono invece diminuiti i sacerdoti nel mondo, scendendo a quota 410.219 (con la diminuzione di 4.117 persone).

A segnare una diminuzione consistente ancora una volta è innanzitutto l’Europa a cui si aggiungono l’America e l’Oceania. In controtendenza Asia e Africa in cui le vocazioni danno frutti più abbondanti. I religiosi non sacerdoti sono aumentati di 274 unità, arrivando al numero di 50.569. Sommando i dati a livello dei vari continenti, si registrano diminuzioni in America e in Oceania, mentre i numeri crescono in Europa, Asia e in Africa. Anche per quanto riguarda le religiose si conferma la tendenza degli ultimi anni alla diminuzione globale e oggi sono 619.546, con un calo di 10.554 unità.

In discesa anche il numero dei seminaristi maggiori, diocesani e religiosi (meno 2.203 unità) che sono 111.855. Gli aumenti si registrano solamente in Africa, mentre diminuiscono negli altri continenti. Anche il numero totale dei seminaristi minori, diocesani e religiosi, è diminuito di 1.592 unità, toccando quota 95.398. Sono diminuiti in America, Asia ed Europa, mentre si registrano aumenti in Africa e in Oceania.

Sempre forte e qualificata è la presenza religiosa nel campo dell’istruzione e dell’educazione: la Chiesa gestisce nel mondo 72.785 scuole materne frequentate da 7.510.632 alunni; 99.668 scuole primarie per 34.614.488 alunni; 49.437 istituti secondari per 19.252.704 alunni, mentre le scuole cattoliche sono frequentate da 2.403.787 alunni nelle superiori e nelle università sono iscritti 3.771.946 studenti. L’assistenza sanitaria è un altro campo d’eccellenza con 5.322 ospedali in tutto il mondo, 14.415 dispensari, 534 lebbrosari, 15.204 case per anziani, malati cronici ed handicappati, 9.230 orfanotrofi, 10.441 giardini d’infanzia, 10.362 consultori matrimoniali, 3.137 centri di educazione o rieducazione sociale e 34.291 istituzioni di altro tipo.

Per quanto riguarda l’Italia, i nostri missionari nel mondo sono oggi oltre 5.800, mentre i presbiteri fidei donum in servizio (secondo i dati forniti dall’Ufficio Nazionale di cooperazione tra le Chiese -Cei) sono 288, di cui 88 in Africa, 12 in Asia, 15 in Europa, uno in Oceania, 172 in America.

Miela Fagiolo D’Attilia in Famiglia Cristiana

Don Bernardi e don Ghibaudo, sacerdoti martiri nell’eccidio nazista del ’43

Saranno beatificati domenica 16 ottobre 2022 a Boves, cittadina del Cuneese. Presente anche una delegazione di Schondorf, il paese del comandante delle SS responsabile dell’eccidio
Don Ghibaudo, 23 anni soltanto, e don Bernardi, 45, domenica 16 ottobre saranno beati

Don Ghibaudo, 23 anni soltanto, e don Bernardi, 45, domenica 16 ottobre saranno beati – sito della diocesi di Cuneo

I martiri di Boves, don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo, oggi, domenica 16 ottobre, saranno proclamati beati. Tutto è pronto nella cittadina alle porte di Cuneo per la celebrazione presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei santi con il vescovo di Cuneo e di Fossano, Piero Delbosco, e il presidente della Conferenza episcopale piemontese, Franco Lovignana, vescovo di Aosta. Saranno presenti anche i vescovi Brunetti (Alba), Arnolfo (Vercelli) Miragoli (Mondovì) e gli emeriti Ravinale, Cavallotto Guerrini e Micchiardi.

Una giornata di festa per onorare i due sacerdoti «uccisi in odio alla fede» nella prima rappresaglia nazista in Italia compiuta dopo l’armistizio dell’8 settembre. Tra le 24 vittime dell’eccidio compiuto il 19 settembre 1943 c’erano anche loro, il parroco don Giuseppe nato a Caraglio, di 46 anni, e il suo giovane vice, don Mario di 23 anni, nativo di Borgo San Dalmazzo e sacerdote da soli tre mesi. Quel tragico giorno era iniziato con uno scontro tra uno dei primi gruppi partigiani e i tedeschi, con il rapimento di due SS. Il loro comandante, Jaochim Peiper, coinvolse don Bernardi e l’imprenditore Antonio Vassallo come mediatori per la loro liberazione. Nonostante l’esito positivo della trattativa Peiper ordinò di incendiare il paese. Al termine della lunga giornata don Giuseppe e Vassallo furono trucidati e bruciati, don Mario ucciso nell’atto di benedire un bovesano colpito dal fuoco di un soldato tedesco. Fin dalle prime ore del giorno si erano impegnati per cercare di salvare il paese e i suoi abitanti a costo della loro stessa vita. Seppure prigioniero don Bernardi invitò alcune ragazze a pregare con lui davanti alla salma di un soldato tedesco, un gesto che negli anni ha portato frutti di pace e di riconciliazione.

Alla cerimonia di domenica pomeriggio, che si terrà dalle 15 in piazza Avis (vicino al santuario di Madonna dei Boschi) ci sarà anche Irma, una delle ragazze che in quel tragico giorno, pregò accanto a don Bernardi e al soldato ucciso.

Il processo di beatificazione è iniziato nel maggio del 2013, la firma ufficiale del vescovo di Cuneo e di Fossano, era allora Giuseppe Cavallotto, fu apposta nel convento delle Clarisse di Boves. Dallo stesso luogo il 26 aprile del 2016 partirono le reliquie dei due sacerdoti per essere traslate nella chiesa di San Bartolomeo, ora punto di riferimento per la preghiera e la richiesta di perdono da parte di molti devoti ai due «martiri». Da qualche anno la comunità delle suore si è trasferita a Bra, ma una loro delegazione sarà presente alla cerimonia a dimostrazione del forte legame con tutta la comunità.

Numerosi gli appuntamenti che si sono susseguiti dopo l’annuncio, avvenuto il 9 aprile scorso, della volontà di papa Francesco di proclamare beati don Bernardi e don Ghibaudo. Mostre, momenti di preghiera hanno segnato questi mesi, come si è intensificato il rapporto con la comunità di Schondorf. Un’amicizia che affonda le radici nella comune volontà di lavorare per la pace iniziata quando l’Associazione don Bernardi e don Ghibaudo scoprì che Peiper è seppellito nella parte laica del cimitero della parrocchia di Schondorf.

Il parroco di Boves, don Bruno Mondino, scrisse una lettera per chiedere di incontrarsi e in poco tempo arrivò da parte del suo collega tedesco, Heinrich Weiss, la risposta affermativa. Da allora le due comunità hanno condiviso momenti di preghiera e di amicizia. Una delegazione sarà presente alla cerimonia, ci sarà anche il loro coro insieme a quello della parrocchia bovesana e della Cattedrale di Cuneo ad animare la Messa. Il quadro che raffigura i due beati è stato realizzato da don Gianluca Busi, parroco di Marzabotto, un ulteriore segnale di condivisione tra comunità che hanno sofferto e che sono rinate nel segno del bene comune.

Avvenire

Esercizi spirituali per i presbiteri con l’Arcivescovo Morandi a Reggio Emilia

diocesi.re.it

Dal pranzo di lunedì 7 al pranzo di venerdì 11 novembre 2022 si terranno, predicati dall’Arcivescovo monsignor Giacomo Morandi, gli Esercizi spirituali per presbiteri al Centro di spiritualità e cultura di Marola.
Per informazioni e prenotazioni rivolgersi ai seguenti recapiti: telefono 366.8969303 e-mail ospitalita.marola@gmail.com.
Il sito internet si raggiunge all’indirizzo seminariodimarola.it.

Piemonte. Boves rende omaggio ai suoi sacerdoti martiri

Lunedì 19 Settembre , 79mo anniversario della strage nazista che costò la vita a 24 persone tra cui due preti, la Veglia con i testi di don Bernardi e don Ghibaudo che saranno proclamati beati il 16 ottobre

Don Mario Ghibaudo e don Giuseppe Bernardi, i due sacerdoti uccisi dai nazisti nell'eccidio di Boves proclamati beati martiri il 16 ottobre

Don Mario Ghibaudo e don Giuseppe Bernardi, i due sacerdoti uccisi dai nazisti nell’eccidio di Boves proclamati beati martiri il 16 ottobre

da Avvenire

Don Giuseppe Bernardi e il suo giovane vice don Mario Ghibaudo

Lunedì notte la chiesa di San Bartolomeo a Boves rimarrà aperta, le porte spalancate sulla piazza. Come 79 anni fa, il 19 settembre 1943, giorno della prima strage nazista in Italia in cui il paese, centro a pochi chilometri da Cuneo, fu incendiato e 24 persone uccise. Tra loro il parroco don Giuseppe Bernardi e il suo giovane vice don Mario Ghibaudo. Fu proprio la chiesa trovata aperta la mattina seguente a mettere in allarme i bovesani che andarono a cercare il loro parroco e lo trovarono carbonizzato accanto all’imprenditore Antonio Vassallo, don Mario era stato trucidato fuori dal centro abitato, mentre benediceva il corpo di un uomo appena ucciso da un soldato.

Una data, il 19 settembre, impressa nel cuore di tutta la comunità, tramandata di generazione in generazione. Quest’anno la celebrazione della memoria ha un significato ancora più forte, dopo nove anni, ad aprile, si è concluso il processo di beatificazione dei due sacerdoti e il prossimo 16 ottobre, proprio a Boves, alla presenza del cardinale Marcello Semeraro, prefetto del dicastero delle cause dei santi, ci sarà la proclamazione dei due martiri.

Questo rende la ricorrenza un momento ancora più sentito, l’appuntamento è questa mattina alla cerimonia civile, e poi alla Messa officiata dal parroco, don Bruno Mondino, entrambi i momenti in piazza Italia, uno dei luoghi simbolo dell’eccidio. E sarà il sindaco di Boves, Maurizio Paoletti, a leggere in parrocchia, domani durante la veglia, uno per uno, il nome di tutti i caduti della strage, compiuta su ordine del maggiore tedesco Joachim Peiper. Poi tutta la notte sarà costellata da momenti di preghiera silenziosa davanti al Santissimo, da riflessioni sulla Parola di Dio, su alcuni scritti dei martiri, di papa Francesco «una traccia – spiega don Mondino – che ci aiuti ad educarci alla riconciliazione».

Pace e fratellanza sono i semi gettati dai due preti morti per salvare la loro gente, e che in questi anni hanno aiutato a maturare gesti concreti. Uno fra tutti la fratellanza tra la comunità bovesana e quella di Schondorf, centro nella Baviera, in cui è sepolto Peiper, negli anni è cresciuto il legame, nato prima tra le parrocchie dei due centri e poi esteso alle rispettive amministrazioni comunali. Sarà infatti presente una delegazione della cittadina tedesca, nella due giorni di memoria del 19 settembre a Boves, sarà anche l’occasione per definire il viaggio solenne delle reliquie dei due martiri presso la comunità bavarese, che il mese scorso ha già accolto la versione tedesca della mostra sull’eccidio.

La Beatificazione

In vista della beatificazione, don Mondino anticipa alcuni punti su cui stanno lavorando. «Il primo – spiega – è l’importanza di collaborare per il bene comune: don Bernardi, muore insieme ad un industriale che si dichiarava apertamente laico. La loro grandezza è stata quella di aver saputo collaborare.  Un messaggio su cui vale la pena che anche noi riflettiamo e che proviamo ad impegnarci per il bene comune».

Sarà su questo tema che interverrà, il 14 ottobre, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente Cei. Zuppi già in passato a Boves aveva affrontato il tema del perdono partendo dalla testimonianza dei due martiri.

Un altro messaggio che lancia il parroco è quello di continuare sulla strada della riconciliazione ed è in questo contesto, che si esibirà, la sera della vigilia, il coro parrocchiale di Schondorf, con il Requiem di Mozart diretto dal maestro Erich Unterholzner. «Un bel segno del cammino di fratellanza che abbiamo iniziato e che continuerà oltre la giornata della beatificazione» conclude don Mondino.

Nigeria. Uccisi due sacerdoti nelle ultime 48 ore

Padre Odia è stato assassinato mentre stava per andare a celebrare Messa nella chiesa cattolica di San Michele, Ikabigbo. Mentre Padre Borogo è stato ucciso sabato in strada a Kaduna
Uccisi due sacerdoti nelle ultime 48 ore
Altri due sacerdoti uccisi in Nigeria nelle ultime ore: le vittime sono padre Vitus Borogo, 50 anni e padre Christopher Odia, 41 anni. A darne notizia la diocesi di Auchi all’interno della quale operava padre Christopher e la fondazione cattolica Aiuto alla Chiesa che soffre che ha riferito l’assassinio di padre Vitus.Padre Odia era parroco della chiesa cattolica di San Michele, Ikabigbo: intorno alle 6,30 del mattino di domenica i rapitori lo hanno fermato mentre usciva dalla sua canonica per raggiungere la chiesa e celebrare Messa. Sembra che 3 persone, tre parrocchiani abbiano visto la scena e abbiano tentato di salvarlo ma sarebbero stati colpiti e due di loro uccisi dai rapitori. Questo dettaglio va ancora confermato ma nel contempo l’agenzia Fides ha riportato la notizia della cattura di due dei rapitori di padre Christopher: «Due degli assassini sono stato catturati dalla comunità che era sulle tracce dei rapitori» ha spiegato il vescovo ausiliare della diocesi di Minna, monsignor Luka Sylvester Gopep.

Il cardinale Parolin ha ordinato ventinove sacerdoti dell’Opus Dei

La celebrazione nella basilica romana di Sant’Eugenio

Vita, semplicità e missione. Su queste tre parole ha sviluppato il suo pensiero il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, nell’omelia tenuta durante il rito di ordinazione sacerdotale di 29 membri della Prelatura personale dell’Opus Dei. La celebrazione si è svolta sabato mattina, 5 settembre, nella basilica romana di Sant’Eugenio. I 29 candidati provenivano da Italia, Spagna, Messico, Guatemala, Cile, Uruguay, Costa d’Avorio, Slovacchia, Argentina, Costa Rica, Olanda, Uganda, e Perú.

Nella sua riflessione il cardinale ha ripreso le letture della liturgia, commentando le parole di Gesù che si proclama il Buon pastore. «È piuttosto radicata l’idea — ha osservato — che il pastore designi esclusivamente la conduzione del gregge». Certamente, il pastore è «colui che guida il gregge». Tuttavia, nel Vangelo emerge «una prospettiva più ampia» e si nota «la differenza che Gesù fa tra il pastore e il mercenario».

Il primo, ha sottolineato il porporato, «non riveste prima di tutto un ruolo, ma assume uno stile di vita». Il pastore infatti, soprattutto ai tempi di Gesù, «non veniva inteso come qualcuno che aveva una mansione da svolgere» ma come uno che «condivideva ogni cosa con il proprio gregge»; non viveva «come voleva, ma come era meglio per il gregge»; non si fermava dove «desiderava, ma dove stava il gregge». In effetti, «si spostava con le pecore e trascorreva il giorno e la notte in loro compagnia». Più che condurre il gregge «ci viveva immerso».

Dunque, l’immagine del pastore sembra riferirsi non anzitutto «al governo, ma alla vita». Difatti, ha aggiunto il segretario di Stato, «non a caso Gesù caratterizza il pastore come colui che dà la propria vita per le pecore». Da qui l’invito a considerare il ministero sacerdotale come «una questione di vita». Perché i preti, «assimilati al Buon pastore immerso nel suo gregge», non sono «in primo luogo chiamati a fare qualcosa» — magari neppure quella per cui si sentono più portati — ma «a dare e a condividere la vita». Così potranno «realizzare in pienezza la chiamata ad agire in persona Christi che caratterizza il sacramento dell’ordine». E questo «non solo nell’amministrazione dei sacramenti, ma incarnando lo stile di Gesù». Così come scrisse san José María Escrivá de Balaguer, «il sacerdote, chiunque egli sia, è sempre un altro Cristo».

Si comprende perciò la ragione per cui la vita del sacerdote è «una chiamata a testimoniare la gioia nell’incontro tra Dio e noi, la gioia che Dio prova nell’usarci misericordia». Essere pastori oggi, ha fatto notare il porporato, «significa, soprattutto, diventare testimoni di misericordia». E il tempo della misericordia è proprio quello che «ha proclamato il Papa nell’imminenza dell’apertura dello scorso giubileo». La grazia dell’oggi ecclesiale e le esistenze dei sacerdoti si incontrano così «nel segno del pastore misericordioso che dà la vita per il suo gregge».

Il cardinale ha poi fatto riferimento ad alcune conseguenze pratiche che derivano dall’esempio del Buon pastore, mettendo in risalto le parole e il perdono «che devono caratterizzare la vita del prete». Rivolgendosi agli ordinandi, il porporato ha raccomandato: «Le parole con cui predicherete e userete dovranno essere parole di vita». La predicazione, ha aggiunto, «ha sempre al centro il kerygma, la novità perenne e risanante della morte e risurrezione di Cristo per noi, ed è il fondamento dell’annuncio». Da qui l’invito ai nuovi sacerdoti, affinché ricordino che nella predicazione «prima di esortare va sempre proclamata la bellezza della salvezza». Infatti è «da questa bellezza che noi siamo attratti per vivere di conseguenza, per avere una vita morale all’altezza di questa chiamata».

Il segretario di Stato ha poi ricordato il pensiero di san Paolo contenuto nella seconda lettura, laddove l’apostolo ricorda «l’imprescindibilità del perdono». In questa chiave, ha invitato i nuovi preti a essere «ambasciatori di misericordia, portatori del perdono che risolleva l’esistenza, sacerdoti che amano disporre i fratelli e le sorelle a lasciarsi riconciliare con Dio». Nasce da qui il bisogno di prestare molta attenzione al sacramento della confessione. Perché è lì che i presbiteri hanno modo di essere «dispensatori di quelle grazie, di quel perdono cui il mondo di oggi ha estremo bisogno».

La seconda parola indicata dal cardinale per descrivere la figura del pastore è stata la semplicità. «Pensiamo — ha detto — ai pastori presenti alla nascita di Gesù: non rappresentavano certamente il vertice culturale del popolo e non erano l’espressione compiuta della purezza rituale». Eppure, ha aggiunto, «furono i primi chiamati ad accogliere il Messia apparso in terra». In particolare il porporato ha ricordato il giovane Davide, che «in quanto pastorello non era stato annoverato dal padre tra i figli idonei a essere consacrati». Ma il Signore, ha fatto notare, «guarda il cuore, ama i piccoli e cerca i semplici». A questo proposito, il celebrante ha invitato a guardare all’esempio di santa Teresa di Calcutta, di cui ricorreva la memoria liturgica. «Conoscete il cammino semplice che delineò — ha detto — tratteggiando in poche parole il tragitto essenziale del credente». Quindi ha ricordato una sua frase: «Il frutto del silenzio è la preghiera, il frutto della preghiera è fede, il frutto della fede è l’amore, il frutto dell’amore è il servizio, il frutto del servizio è la pace». Si tratta di «parole semplici per collegare i poli dell’esistenza: Dio e gli altri». Infatti, «il primo e decisivo passo suggerito è trovare ogni giorno tempo per fare silenzio ed entrare nella preghiera». Questa dimensione «costitutiva del credente» è «fondamento dell’edificio spirituale», così come la definiva il fondatore dell’Opus Dei, «non mancando di ricordare che essa è sempre feconda». Poi, rivolgendosi agli ordinandi, ha assicurato che questa dimensione «rappresenterà un vero e proprio opus da esercitare fedelmente per l’intero popolo di Dio».

Il cardinale ha inoltre sottolineato come «la semplicità che nasce dalla trasparenza della preghiera comporta anche scelte concrete per andare all’essenziale del ministero». In proposito ha ricordato che madre Teresa chiedeva per prima cosa quante ore pregassero ogni giorno. Quindi, ricordando le parole di san Escrivá de Balaguer, ha detto che per essere pastori «occorre anzitutto avere una vita ben ordinata; e ciò significa non lasciarsi ingolfare da mille cose, pena il rischio di smarrire la semplicità di un cuore pienamente dedito al Signore».

Infine, il segretario di Stato non ha mancato di far notare come i 29 ordinandi ricevano il sacramento dell’ordine alla missione del sacerdote durante questo pontificato di Francesco, che, «oltre alla priorità della misericordia vissuta e al richiamo alla semplicità evangelica», sta insistendo sulla «esigenza non più rimandabile della missione, quale vocazione principale della Chiesa». Essere Chiesa in uscita, ha sottolineato il cardinale Parolin, «significa non concepirsi più come fine , ma come mezzo, per portare non noi stessi, ma il Signore che salva».

L’emozione della curiosità nella vita presbiterale

di: Maurizio Mattarelli – Laura Ricci

“Ho visto gente andare, perdersi e tornare… / Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone… / Abbaiano e mordono… / Ma il vero Amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai (Sempre per sempre, Francesco De Gregori).

È con questo spirito che, alcuni anni fa, è venuto alla luce il Gruppo Timoteo, dal nome del giovane presbitero “ordinato” da san Paolo e da lui accompagnato e sostenuto nel suo ministero (cf. Timoteo e l’Arte della Manutenzione del Presbiterato, in Il Margine n. 7, 2018).

Sono tempi nei quali “la pioggia e il sole” della pastorale “abbaiano e mordono” ed è alto il rischio dell’esaurimento emotivo e della confusione, derivanti dal pressante carico del ruolo istituzionale che i preti devono sostenere in «questo cambiamento di epoca» (papa Francesco).

È una situazione che amplifica la separazione alienante tra spiritualità e corporeità, non solo praticata ma, a volte, inconsapevolmente teorizzata. Ciò deriva dal fatto che la formazione presbiterale favorisce, tuttora, l’aspetto cognitivo-intellettuale, senza integrarlo sufficientemente con le dimensioni affettive, emotive e neurobiologiche. Occorre allora aver cura di sé, regalarsi un tempo e uno spazio per ascoltarsi e confrontarsi, un luogo che favorisca l’intimità con sé stessi e con i membri del gruppo.

Per essere individui integri, integrati ed integranti, un aspetto fondamentale è la curiosità, intesa come la capacità primaria della mente di stabilire legami e di poter entrare così in relazione con l’Altro.

ministero

Nella nostra conduzione del Gruppo Timoteo, agiamo e promuoviamo un atteggiamento di genuina curiosità: impariamo a guardare l’altro, noi stessi, e soprattutto la relazione come ad una realtà da percepire e da scoprire, e non da pre-definire. Quest’atteggiamento curioso ci consente di evitare due errori: ignorare l’altro, riducendolo a “identico a me”, e ignorare noi stessi, come se fossimo fuori dalla relazione.

La curiosità controbilancia una certa ansia del prete nel fornire alla persona “la risposta giusta” che è più funzionale a tranquillizzare se stesso circa il proprio valore, piuttosto che al bene della persona e delle comunità che incontra.

Con questo isolamento pandemico, abbiamo poi sperimentato come essere da soli sia una delle più grandi sofferenze umane; nonostante ciò, viviamo in ambienti sociali ed ecclesiali di persone che cercano disperatamente di amarsi senza riuscirci.

Siamo molto connessi e, a volte, così poco comunicanti!

Per comunicare abbiamo bisogno di aprire nuovi varchi liturgici di possibilità e di costruire nuovi ponti di prossimità. In diverse parrocchie, gruppi di famiglie hanno ri-creato piccole comunità, ritrovando una fede e dei riti più in sintonia con la dimensione propria personale, trasformando questo momento di distanza e di crisi in opportunità. Nella gente è aumentato il bisogno di una spiritualità che dia significato al mondo attorno a noi, ai nostri rapporti interpersonali e alla nostra esistenza di cittadini e credenti.

Scoprire nuove potenzialità personali e nutrire i talenti comunitari può diventare un nuovo stile di prossimità vitale, creativa, responsabile, protettiva e densa di passione per la vita che ci attende nella società post-coronavirus.

Ascoltare le persone ed essere insieme con loro curiosi e aperti a nuove opportunità, ci permette di fare lo spazio necessario a ciò che arriverà, sostenendo il piacere di condividere il tempo insieme, con quella voglia che genera l’attesa e il desiderio dell’incontro.

C’è pure chi educa, senza nascondere / l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci).

Usiamo l’emozione della curiosità con «l’intelligenza della pioggia e del sole», per comprendere le necessità dell’Altro anche dietro le apparenze e nei luoghi nascosti; usiamo l’intuizione, la vicinanza, l’affetto, il rispetto, la generosità e la prudenza per celebrare l’eucaristia nella vita: «Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spiri­tuale» (Rm 12,1).

Ci concediamo di “sognare ad occhi aperti”, di vedere noi stessi, l’altro e la relazione in un modo nuovo, inedito, mutando i sogni in progetti, promuovendo una maieutica reciproca che permetta la trasformazione d’individualità singole in un gruppo. Siamo così, promotori curiosi di una comunità sociale ed ecclesiale in cui ciascuno abbia riconosciuto il proprio potere, coniugando “il sognare” con “l’agire”.

Nel nostro percorso supervisivo di gruppo, i presbiteri si esercitano a dare spazio all’Altro: così, quando sono in relazione con le persone e le comunità a loro affidate, possono promuovere uno spazio relazionale che permette alle persone di attingere alle proprie risorse vitali e spirituali.

In questi anni, i presbiteri che hanno frequentato il Gruppo Timoteo hanno compreso cosa significhi mettere da parte la facoltà del decidere ciò che avviene a favore della capacità di contemplare quello che sta accadendo e del significato che ciò ha per la persona: quest’atteggiamento consente il silenzio e crea la possibilità di costruire una relazione profonda e autentica.

Se guardiamo alla relazione con curiosità, è perché siamo fiduciosi che può essere vitale e generativa e, perciò, imprevedibile com’è lo Spirito! È dunque fondamentale essere curiosi con gli individui e i gruppi che accompagniamo, imparare come stare con loro, incoraggiare l’immaginazione e favorire la capacità di sognare e sognarsi in un altro modo, in più modalità possibili che sostengano questo cambiamento epocale.

settimananews

Coronavirus, il prezzo pagato dai sacerdoti

Vatican News

(Amedeo Lomonaco) Sono almeno 30 i preti morti in Italia a causa della pandemia di Covid-19, almeno 16 vittime sono della diocesi di Bergamo. Parroci, formatori, uomini dediti al loro ministero, dalle loro vite emerge lo spaccato della Chiesa che ama Francesco, quella che ha l’odore delle sue pecore e che ne condivide condizioni e sorte. Tra le persone positive al Coronavirus ci sono anche molti sacerdoti. Alcuni sono in isolamento, altri in terapia intensiva. Almeno trenta sono morti, in questi giorni,

Pastore o funzionario del sacro?

cittanuova.it

A motivo della ben nota crisi vocazionale il numero di sacerdoti e religiosi/e è notevolmente diminuito, e con esso di pari passo, ma in modo inversamente proporzionale, è aumentato il vostro carico di lavoro. Sono testimone – e non credo di dire nulla di nuovo – di sacerdoti giovani e meno giovani carichi di impegni, che forse appaiono gratificanti nei primi anni dopo l’ordinazione quando alimentano il senso di onnipotenza – di cui tutti noi, a turno, siamo vittime – ma che, nel corso del tempo, finiscono per diventare degli oneri enormi.

Forse, come lei accenna con sapienza e insieme discrezione, è necessario ripensare il “modello di prete” nel terzo millennio, perché questa vocazione non si appiattisca all’essere un “burocrate del sacro”, come si autodefinisce un mio amico sacerdote.

Mi vengono in mente alcune considerazioni: ormai abbiamo superato il mito del prete come di un uomo superdotato e sempre disponibile, come se non fosse un essere umano con i suoi limiti e le esigenze più semplici di un ritmo di vita sano.

Però bisogna ancora sfatare il mito del prete inteso come uomo singolo a servizio degli altri.

Una vocazione infatti, anzi qualunque vocazione, anche quella degli sposi, non è mai una vocazione individuale che possa sussistere in se stessa, o che possa appoggiarsi unicamente sulla singola personalità, per quanto eccellente sia.

Ogni vocazione è inserita all’interno di una comunità che dà senso, sostiene, collabora alla buona riuscita della coppia, del sacerdote, dell’uomo e della donna consacrata. Forse lo si dice, ma in modo vago ed ideale, invece ha una valenza estremamente seria e concreta.

Tutti siamo reciprocamente responsabili della vocazione altrui. La vocazione del singolo chiamato da Dio, o della coppia, acquistano significato solo all’interno di un noi comunitario.

Nessuno sarebbe in grado di realizzare compiutamente l’essere marito, l’essere moglie, l’essere genitore, l’essere sacerdote, l’essere religioso senza il sostegno di preghiera, ma anche di presenza, di incoraggiamento e di collaborazione degli altri.

Di fatto accade così, ma come può il sacerdote addossarsi da solo, o al massimo con un “vice”, tutte le attività che ruotano attorno a una parrocchia, o comunque a un servizio di apostolato? Non solo per il grande carico materiale, ma anche per quello emotivo, psicologico ed affettivo.

Lo stesso vale per la famiglia che non può portare avanti da sola la chiamata a vivere l’amore in modo esclusivo e generativo, senza persone intorno che la sostengono e la aiutano a custodire il dono reciproco.

Ciascuno, secondo la propria parte – ma il discorso qui è complesso e articolato perché chiama in causa un serio ripensamento dell’organizzazione della Chiesa –, è chiamato a dare ascolto, ad offrire accoglienza, a prestare attenzione, a portare un aiuto materiale perché l’altro funzioni. E se uno di noi cade durante il cammino, tutti cadiamo con lui o con lei, e siamo in qualche modo responsabili della superficialità che non ci ha permesso di cogliere un eventuale malessere o una necessità importante.

Per la fragilità dell’essere umano attuale, per la complessità del mondo contemporaneo, per la quantità di esigenze che ci sono nel mondo,non possiamo più permetterci di ragionare con le categorie dell’io.

Certo è una mentalità oggi tutt’altro che spontanea, per il narcisismo e l’individualismo diffusissimi, e forse il discorso suona utopico, però ritengo che gli anni di formazione alla vita sacerdotale, a quella religiosa, e a quella familiare, dovrebbero introdurre questo modo di intendere la vocazione. Altrimenti tutto si concentra attorno alle capacità strettamente personali e alle doti di questo o quello.

È chiaro che ciascuno ha delle qualità e delle risorse umane uniche, non si tratta di spersonalizzare l’identità del singolo, tuttavia è la comunità di fede ad accogliere una famiglia che si forma e a collaborare perché la sua vocazione si compia, ed è la comunità di fede ad accogliere e sostenere il sacerdote o il religioso, perché la sua specifica missione si realizzi il meglio possibile.

Questo significa formare la mente e il cuore che la fraternità, la “casa”, è una sola.

Quando si percepisce un ambiente come proprio, si ha cura di ogni suo angolo senza pensare a chi tocchi pulirlo, ad esempio. Dentro casa, moglie, marito e figli si ripartiscono i compiti, perché tutto funzioni al meglio, ma ciascuno vive lo spazio della casa come proprio, e sente di essere responsabile del buon andamento generale.

Questo significa aver maturato un senso di appartenenza alla propria vocazione. Altrimenti si è solo ospiti o eternamente bambini.

La persona adulta, che ha sviluppato un senso di appartenenza alla propria comunità familiare e di fede, si impegna perché questa funzioni bene, vive come propria responsabilità il benessere dei suoi membri, si preoccupa per loro, si accorge se c’è qualcosa che non va.

Se gradualmente facessimo nostra questa prospettiva di fraternità, per tornare alla riflessione iniziale, si smorzerebbe la competizione, il conflitto, il voler primeggiare: che senso ha fare a gara in casa propria? Se l’obiettivo è comune, e il compito è portato avanti insieme, diventa molto meno importante chi lo realizza in quel momento. Ciò significa, almeno questo è ciò che riesco a intuire, far sentire la persona parte di una fraternità più vasta e non caricarla di oneri che, se possono farla sentire in gloria in alcuni momenti, possono anche schiacciarla e farla sentire isolata in molti altri.

Centro America. Messico, agguato in auto. Massacrati due sacerdoti

Padre Germàn Muniz Garcia, una delle due vittime

Padre Germàn Muniz Garcia, una delle due vittime

La festa della Vergine della Candelora, domenica, era andata avanti fino a tardi. I sacerdoti Germán Muñiz García, Iván Añorve e Rogelio, che avevano accompagnato la comunità nella preparazione religiosa, avevano deciso di dormire a Juliantla. Poi, all’alba di lunedì, si erano messi in auto insieme a tre amici in direzione Taxco de Alarcón. All’altezza di Iguala, però, una vettura rossa ha sbarrato loro il passo: un commando armato è saltato giù e li ha crivellati di colpi.

Padre Iván Añorve Jaimes, una delle due vittime

Padre Iván Añorve Jaimes, una delle due vittime

Padre Germán e padre Iván, che si trovavano davanti, sono morti subito, come ha confermato il vescovo dell’arcidiocesi di Chilipacingo-Chilapa a cui appartenevano i preti, monsignor Salvador Rangel Mendoza. Padre Germán, originario di Acapulco, era parroco di Mezcala, mentre padre Iván esercitava il proprio ministero nella parrocchia della Sacra Famiglia, nel comune di Las Vigas. Gli altri quattro passeggeri sono feriti: padre Rogelio è grave ed è ricoverato all’ospedale di Taxco. L’arcidiocesi ha rivolto un appello alle autorità perché si faccia luce sui barbari omicidi. L’ennesimo in una nazione che l’anno scorso ha battuto il record di violenza, con 80 assassinii al giorno. L’aumento vertiginoso si è mantenuto nel 2018: gennaio si è chiuso con 1.562 vittime, due all’ora.

La narco-guerra in corso fra gruppi criminali – è interi pezzi di istituzioni da questi ormai catturate – ha registrato, nell’ultimo anno, un “salto di qualità”. In peggio. Colpa – affermano gli analisti – della frammentazione delle organizzazioni più grandi. Ma anche dell’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale. A luglio ci saranno le presidenziali. Le mafie hanno accelerato la conquista del territorio in modo da poter “trattare” con il nuovo governo da una posizione di forza. Lo Stato del Guerrero, dove sono stati uccisi i sacerdoti, è uno degli epicentri del dramma: là si concentrano le coltivazioni di oppio per soddisfare la crescente domanda di eroina Usa.

Una manifestazione per i 43 studenti scomparsi a Iguala nel 2014 (Lapresse)

Una manifestazione per i 43 studenti scomparsi a Iguala nel 2014 (Lapresse)

Proprio a Iguala furono fatti scomparire, il 26 settembre 2014, i 43 studenti, tuttora “desaparecidos”. Da allora, la situazione è tutt’altro che migliorata. Meno di un mese fa, il 15 gennaio, durante l’ordinazione di otto sacerdoti, monsignor Rangel Mendoza aveva denunciato la tragedia in atto nella regione, con parole forti: «Il Guerrero odora di povertà e di morte». Il vescovo, allora, aveva esortato i preti «a non lasciarsi intimorire» dai narcos.

L’ESCALATION Messico, un omicidio ogni 16 minuti di Lucia Capuzzi

Questi ultimi si accaniscono con particolare ferocia contro quei settori che possono costituire un’alternativa al loro dominio del terrore. Tra cui, appunto, i sacerdoti. Il che spiega il tragico paradosso per cui il Messico, una delle nazioni con il maggior numero di cattolici al mondo, sia anche, negli ultimi anni, quella con più preti e operatori pastorali ammazzati: quattro nel 2017, secondo il rapporto di Fides. Molti di più quelli minacciati. E, nella “terra dei narcos”, con tragica frequenza, alle parole seguono i fatti.

da Avvenire

Sacerdoti, non dimenticare chi dona la vita per noi

Preti di strada. Preti chinati sulle ferite degli altri: immigrati, emarginati, famiglie in difficoltà, nuovi poveri. Preti che guidano nel buio dell’incertezza, sostengono nel momento dello sconforto.

Il Giubileo dei sacerdoti, che durerà fino al 3 di giugno, è l’occasione per riaccendere i riflettori sui parroci della nostra parrocchia accanto che si donano senza domandare nulla in cambio. Papa Francesco per loro- immagine del Buon Pastore vicino alla sua gente e servitore di tutti- chiede  un sostegno concreto di preghiera e d’affetto. Ci sono preti come don Mimmo Zambito, parroco di Lampedusa, da anni impegnato nell’accoglienza senza riserve ai migranti giunti sulle coste di quell’isola, porta d’Europa, stremati e senza più speranza. Ci sono religiosi come padre Nico Rutigliano, guanelliano, che  nella sua parrocchia di Fondo Fucile, in provincia di Messina, ha salvato dal degrado un campo incolto con il quale ha potuto tirar via dalla strada decine di giovani ora impegnati anche nel recupero scolastico. Salvandoli da droga e mafie. Ci sono frati come fra Gabriele Onofri, titolare della parrocchia Nostra Signora degli Angeli a Genova Voltri, che dal nulla hanno creato mense, dormitori, centri d’ascolto. E ora sono diventati punto di riferimento imprescindibile per le società civili locali.  Tutto senza le luci della ribalta, senza grande clamore. Nel silenzio più profondo donano la loro vita per tutti noi. Ad imitazione di Cristo. Per favore, non dimentichiamoli. Mai.
(Federico Piana) Radio Vaticano

Papa Francesco ai sacerdoti: siate “eccesso” di misericordia per tutti

La misericordia di Dio fa passare immediatamente “dalla distanza alla festa”, dalla “vergogna” per le proprie miserie alla “dignità” cui innalza il perdono di Dio, come fa il padre della parabola col figlio prodigo. A una misericordia sempre in “azione” Papa Francesco ha esortato presbiteri e seminaristi con la prima intensa meditazione, che ha aperto la giornata del Giubileo dei sacerdoti, tenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano. La sintesi della riflessione del Papa nel servizio di Alessandro De Carolis (Radio Vaticana)

A capo chino, nel “porcile” in cui l’ha piombato il proprio egoismo, a provare “invidia” per i maiali che mangiano ghiande e, insieme, “nostalgia” per il pane che invece i servi di suo padre mangiano ogni giorno.

Dalla distanza alla festa
Papa Francesco entra con un acume che commuove nel groviglio del pentimento che agita il figlio prodigo per far risaltare in modo tangibile l’“eccesso” della misericordia di Dio, di più: “l’inaudito straripamento” del perdono che il Padre ha per il più misero dei suoi figli per cui, ecco “l’esagerazione”…

“…possiamo passare senza preamboli dalla distanza alla festa, come nella parabola del figlio prodigo, e utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato. Ripeto questo, che è la chiave della prima meditazione: utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato”.

I confessori che bastonano
Tutta la lunga, profonda meditazione di Francesco si dipana tra due estremi: tra la “vergogna” del proprio peccato, che rende umili e apre il cuore a una vita nuova, e la “dignità” che sempre Dio conferisce col suo perdono mai negato all’uomo, visto come il figlio “prediletto” della parabola:

“Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che bastonano i penitenti, che li rimproverano… Ma così ti tratterà Dio, eh! Così! Almeno per questo, non fate queste cose…”.

Tra vergogna e dignità
Ma quella del Papa, come dice mutuandolo dallo spagnolo”, è anche una riflessione giocata tra il “misericordiare” e “l’essere misericordiato”, cioè tra la misericordia ricevuta e quella donata agli altri perché, dice e ripete Francesco, se “niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia”, la misericordia stessa la si contempla davvero quando è “in azione”, quando il cuore arriva a “provare compassione per chi soffre, commuoversi per chi ha bisogno, indignarsi”. Quando si avverte “il rivoltarsi delle viscere” di fronte a una ingiustizia evidente, che sprona a “porsi immediatamente a fare qualcosa di concreto” con lo stile di tenerezza di Gesù. L’importante, sottolinea il Papa con intensità, è fare come il figlio prodigo e porsi davanti a Dio con la consapevolezza di essere in uno stato di “vergognata dignità”:

“Cosa sentiamo quando la gente ci bacia la mano e guardiamo la nostra miseria più intima e siamo onorati dal Popolo di Dio? E lì è un’altra situazione per capire questo, no? Sempre la contraddizione. Dobbiamo situarci qui, nello spazio in cui convivono la nostra miseria più vergognosa e la nostra dignità più alta. Lo stesso spazio. Sporchi, impuri, meschini, vanitosi – è peccato di preti, la vanità – egoisti e, nello stesso tempo, con i piedi lavati, chiamati ed eletti, intenti a distribuire i pani moltiplicati, benedetti dalla nostra gente, amati e curati”.

La misericordia è un atto libero
Francesco parla ai sacerdoti e ai seminaristi, ma tutto ciò che afferma suona universale per ogni singolo cristiano. Anche quando il Papa rileva che “la misericordia è questione di libertà”, che il “mantenerla nasce da una decisione libera”:

“La misericordia si accetta e si coltiva o si rifiuta liberamente. Se uno si lascia prendere, un gesto tira l’altro. Se uno passa oltre, il cuore si raffredda. La misericordia ci fa sperimentare la nostra libertà ed è lì dove possiamo sperimentare la libertà di Dio, che è misericordioso con chi è misericordioso, come disse a Mosè. Nella sua misericordia il Signore esprime la sua libertà. E noi la nostra”.

Sporcarsi le mani
“Possiamo vivere molto tempo ‘senza’ la misericordia del Signore”, ma essa – assicura Francesco – non agisce davvero in un’anima se non si arriva a “toccare il fondo” di quella “miseria morale” che annida in ognuno e dunque a desiderare e a sperimentare il perdono di Dio:

“Il cuore che Dio unisce a questa nostra miseria morale è il Cuore di Cristo, suo Figlio amato, che batte come un solo cuore con quello del Padre e dello Spirito. È un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non “si occupa di un caso” – non si occupa di un caso – ma si impegna con una persona, con la sua ferita”.

Nessuna ingenuità, molta speranza
Qui, il Papa critica il “clericalismo” che induce a ridurre una persona con le sue sofferenze a un “caso”. Così, nota Francesco con ironia, “mi distacco e non mi tocca. E così non mi sporco le mani… E così faccio una pastorale pulita, elegante…. dove non rischio  niente”. Non rischio neanche, soggiunge a mo’ di provocazione, “un peccato vergognoso”. Ma così, prosegue, non è possibile capire come la misericordia vada “oltre la giustizia”, come restituisca “dignità” elevando “colui verso il quale ci si abbassa”. Inoltre, sostiene Francesco, la misericordia, pur vedendo il male in modo oggettivo, gli “toglie il potere sul futuro”:

“Non è che non veda il male, ma guarda a quanto è breve la vita e a tutto il bene che rimane da fare. Per questo bisogna perdonare totalmente, perché l’altro guardi in avanti e non perda tempo nel colpevolizzarsi e nel compatire sé stesso e i motivi del suo errore e rimpiangere ciò che ha perduto. Mentre ci si avvia a curare gli altri, si farà anche il proprio esame di coscienza e, nella misura in cui si aiutano gli altri, si riparerà al male commesso. La misericordia è fondamentalmente speranzosa. E’ madre di speranza”.

Eccessi di misericordia
Francesco termina citando i tanti “eccessi della misericordia” del Vangelo – il paralitico calato da un tetto, il lebbroso guarito che lascia i nove per tornare a inginocchiarsi davanti a Gesù, il cieco Bartimeo che vince, dice, “la dogana dei preti” per farsi sentire da Cristo, la donna emorroissa che “si ingegna” pur di toccarne il mantello e quella peccatrice che gli asciuga i piedi con i capelli – e ne trae questa conclusione:

“Sempre la misericordia è esagera, è eccessiva! Le persone più semplici, i peccatori, gli ammalati, gli indemoniati… sono immediatamente innalzati dal Signore, che li fa passare dall’esclusione alla piena inclusione, dalla distanza alla festa. E questo non si comprende se non è in chiave di speranza, in chiave apostolica e in chiave di chi ha ricevuto misericordia per dare a sua volta misericordia”.

GIUBILEO DEI SACERDOTI, SERVONO PRETI AMICI DELLA GENTE

Hanno troppo da fare, trascurano quella “pastorale del sagrato” che, alla fine, è decisiva. Dei sacerdoti ha parlato di recente l’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Dal primo al 3 giugno, a Roma, si celebra il loro Giubileo. Presente papa Francesco.

Impiegato dello Spirito Santo? Professionista del sacro? «Sì, il rischio c’è», ammette don Domenico Dal Molin, che dirige l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei: «Oggi sul prete grava un carico amministrativo eccessivo. I preti hanno troppo da fare, i parroci ancora di più. E a perdere di vista l’essenziale si fa in fretta». Per due giorni, a maggio, oltre 200 vescovi italiani hanno fatto il punto sulla formazione dei sacerdoti, su come rinnovarla, renderla più profonda e, soprattutto, su come immaginare un sacerdote più amico della gente. Papa Francesco ha aperto l’assemblea della Cei con un ragionamento che è partito da quanto Paolo VI scrisse esattamente 41 anni fa nella Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, della quale ha citato un brano in cui del prete si dice che deve essere “ministro del Vangelo”.

Sembrerebbe una cosa ovvia, ma non è così, perché gli impegni e un’agenda fittissima su ogni argomento sta trasformando il sacerdote in un uomo sussidiario che si occupa di tutto un po’ e fatica ad ascoltare le persone. La questione dell’agenda è stata sollevata proprio da Bergoglio, invitando a liberarsene, dando ragione ad Adriano Celentano che anni e anni fa si lamentava in una grandiosa canzone che all’oratorio non si trovava più neppure un prete per chiacchierare. Sorride don Dal Molin e spiega che di fronte ai rischi in Italia c’è più resistenza che altrove in Europa, ma «papa Francesco ha fatto bene a suonare la campanella». I vescovi italiani hanno convenuto sull’importanzadi una “selezione puntuale” dei candidati al sacerdozio e sulla “qualificazione degli educatori”.

I preti in Italia, oggi, sono circa 33 mila. Il saldo tra nuove ordinazioni e decessi è negativo, mentre gli abbandoni non hanno subìto impennate. L’emorragia delle vocazioni degli ultimi decenni del secolo scorso è stata fermata. Un problema è l’età media sempre più elevata, specialmente nel Norditalia,con relative fatiche: troppe Messe da celebrare, l’identità percepita come legata solo al culto, poco tempo per la preghiera e lo studio, pochissimo alla cosiddetta pastorale del sagrato, che poi, avvisa Dal Molin, «è quella che di solito fa la differenza». Decisiva è la formazione permanente, che deve essere intrecciata attorno a due aspetti: spirituale e culturale. E qui si apre un capitolo nonfacile.

Osserva Dal Molin: «La riflessione deve partire da un’analisi dei luoghi di selezione. Una volta il sacerdote maturava la vocazione nella comunità. La parrocchia contribuiva alla selezione, l’Azione cattolica e gli scout erano ottime palestre dove allenarsi a sentire la chiamata di Dio. Oggi quel bacino di utenza sta venendo meno.Molti nuovi sacerdoti si formano nei movimenti, dai neocatecumenali all’Opus Dei, mentre da Comunione e liberazione si vede un calo. Manca il respiro di una grande comunità, il respiro del territorio che sta accanto a chi sceglie e lo aiuta nello sforzo, senza nascondere nessun guaio. Un prete non può crescere in saldezza in un ambiente protetto». Ciò naturalmente non significa che le vocazioni maturate nei movimenti non siano altrettanto valide e preziose. Tuttavia qualche dubbio rimane: «Una vocazione che non si forma in una forte e costante, magari travagliata, esperienza comunitaria, va valutata con grande attenzione».

L’argomento è delicato e intreccia questioni spirituali e sociologiche. Ancora Dal Molin: «Siamo passati da una declinazione al plurale della vita del prete, il sacerdote sempre in piazza, a una forma forse troppo individualistica, che oggi purtroppo è molto diffusa tra le giovani generazioni di preti. Si mira alla vocazione come autorealizzazione di sé e la fine della vita in seminario è concepita come una liberazione che permette di tornare ai propri spazi». È l’altra faccia del problema: «Se si insiste troppo sul ruolo si finisce a fare i burocrati. Ma alla funzione positiva della comunità per la propria vita si deve essere allenati fin dal seminario, che oggi appare più un luogo conveniente di coabitazione che uno spazio comunitario di vita. In questo modo il prete non impara a essere uomo tra la gente».

L’ultima sfida sono le vocazioni adulte, per le quali in Italia vi sono anche seminari specifici. Osserva Dal Molin: «Dobbiamo stare molto attenti, perché si rischia di confondere la conversione con la vocazione. E anche qui notiamo che la mancanza di un cammino di base comunitario può essere causa di pesantezza e di autoreferenzialità». I laici sono fondamentali per una vita equilibrata del sacerdote. Ma anche in questo caso occorre prudenza da entrambe le parti: «Il prete non deve clericalizzarli per sentirsi più sereno e protetto e i laici devono resistere alla tentazione comoda di concepirsi come mezzi preti». I consigli sono semplici: «Ai giovani preti un po’ meno Facebook e qualche libro in più, e a tutti un segno, cioè la cura di avere sempre la chiesa aperta, anche materialmente, senza preoccuparsi degli arredi. Se avete cose preziose portatele al museo diocesano».

Famiglia Cristiana

Giubileo Sacerdoti, occasione di rinnovamento

E’ una settimana speciale per i sacerdoti e i seminaristi di tutto il mondo. Mercoledì inizia infatti il Giubileo a loro dedicato. Momento culminante è la Messa in Piazza San Pietro, celebrata venerdì prossimo da Papa Francesco, che il giorno prima guiderà un ritiro spirituale con ben tre meditazioni nel corso della giornata: alla Basilica di San Giovanni in Laterano, poi a Santa Maria Maggiore e infine a San Paolo. Sul significato di questo Giubileo dei Sacerdoti, Alessandro Gisotti ha intervistato mons. Jorge Carlos Patrón Wong, segretario per i Seminari della Congregazione per il Clero

da Radio Vaticana

R. – Papa Francesco ha deciso, anzitutto, che in questo Giubileo i sacerdoti e i seminaristi si prendano cura di se stessi, si fermino un momento in mezzo alle tante attività pastorali, per trovare un po’ di riposo, di sollievo, di ristoro nel cuore del Buon Pastore, nelle braccia della Misericordia del buon Dio. E’ pure una grande opportunità per fissare di nuovo lo sguardo sulla persona di Gesù, per contemplare in Gesù questo grande amore, questa misericordia, questa carità pastorale, per ringraziarlo per le tante meraviglie che ha fatto per noi. E in noi ha fatto queste meraviglie, non perché siamo bravi o meritevoli del suo amore, ma perché Lui è misericordioso, ci ama, ha una bontà immensa. E noi siamo consapevoli della nostra debolezza e povertà, per questo abbiamo bisogno della Misericordia di Dio. Un terzo punto, molto importante, è ricominciare di nuovo, rispondere di nuovo con generosità a questa chiamata divina. E’ una grande opportunità per rinnovarci, per prendere di nuovo questo profumo del Buon Pastore, condividerlo con il nostro popolo, per ricevere nuovamente l’emissione dello Spirito Santo e rinnovare le nostre forze, il coraggio, l’entusiasmo e farci prossimi, vicini a tutti.

D. – Papa Francesco ribadisce sempre che i sacerdoti devono essere pastori di Misericordia, non burocrati della fede. Perché questa insistenza?

R. – Perché ogni sacerdote è la prima persona toccata dalla Misericordia di Dio. Non si può capire nessuna vocazione al mistero del servizio sacerdotale se non si è toccati dall’amore misericordioso di Dio Padre. Questo amore, però, ci trasfigura, ci cambia, ci muove, ci ricolma di gioia. Questi tre elementi sono molto esistenziali nella vita di ogni seminarista e sacerdote, toccati dalla Misericordia di Dio, trasfigurati dalla Misericordia di Dio e ricolmati di una gioia, di un senso profondo della vita.

D. – Francesco terrà giovedì tre meditazioni in tre Basiliche papali e poi venerdì la Messa in Piazza San Pietro. Una vera “full immersion”, si potrebbe dire, di insegnamento, di catechesi sulla Misericordia per i sacerdoti; un evento davvero straordinario…

R. – E’ una “full immersion”, perché il cuore di Papa Francesco è immerso nel cuore di Gesù Buon Pastore, è immerso nel cuore di ogni pastore, di ogni sacerdote, di ogni seminarista. Papa Francesco ci vuole tanto bene, prega per noi, dà tanti consigli concreti, conosce molto le fatiche, le aspirazioni, le sfide, le sofferenze, le gioie di ogni cuore sacerdotale e di ogni cuore di seminarista. E’ per questo che durante queste tre meditazioni e poi, nell’Eucaristia, il cuore di Papa Francesco, che è un cuore di un Buon Pastore, si rivolgerà, si aprirà totalmente ad altri cuori che sono pure cuori di pastori.

D. – Lei ha nel dicastero per il Clero la delega per i seminari. Cosa la colpisce incontrando i seminaristi di tutto il mondo, in questo Anno Santo della Misericordia?

R. – A me colpisce soprattutto che i giovani di oggi conoscano tutte le sfide, tutte le difficoltà, tutte le problematiche all’interno della Chiesa e fuori della Chiesa, nella società. Sono giovani coraggiosi, gioiosi, che hanno trovato nella chiamata di Gesù una grande avventura di vita, di amore, il senso profondo di condividere una realtà che è molto più grande del proprio cuore: l’amore di Cristo! Ho trovato nei giovani questo desiderio di fare una trasfigurazione interna, perché è interiore, ma sempre con altri. Vedo sempre sacerdoti, seminaristi che sono come amici, come fratelli e che fanno un cammino insieme. Sempre servire, amare le altre persone. L’amore che abbiamo ricevuto da Cristo, vogliamo farlo realtà quotidiana nel servizio concreto, pastorale. Con tutti i nostri limiti, diamo il meglio, affinché il Signore ci usi come semplici, umili strumenti per portare l’amore e la gioia del Signore, la gioia del Vangelo.

 

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