Muratore: «È il tempo di Rosmini»

Antonio Rosmini – Wikipedia

Il ventiduesimo corso dei Simposi rosminiani di Stresa, che si svolge dal 23 al 26 agosto (Palazzo dei congressi, piazzale Europa 3), dal titolo “Antonio Rosmini e le ontologie contemporanee”, sarà l’ultimo che vedrà don Umberto Muratore in veste di direttore del Centro internazionale di studi rosminiani. Infatti, a partire dal primo settembre, il testimone passerà al nuovo direttore del centro, il trentino don Eduino Menestrina. Pertanto ci siamo recati a Villa Ducale, sede del Centro studi stresiano, che don Umberto ha diretto per 37 anni, per parlare con lui dell’eredità che lascia al suo successore. «Quando presi il governo di questo centro intellettuale – spiega – c’erano in corso tanti progetti iniziati, da iniziare e portare a termine: l’edizione critica di quasi tutte le opere di Rosmini (una settantina di volumi), la preparazione del secondo centenario della nascita di Rosmini, la sua ufficiale riabilitazione filosofica e teologica all’interno della Chiesa e l’iter di beatificazione. Più la restituzione presso il mondo della cultura della sua identità di pensatore di rilievo e la conseguente rimozione di tutte le maschere che erano state costruite sul suo vero volto. Mi pare che si sia fatto un fruttuoso cammino in queste direzioni». Il titolo di ‘Simposio’ s’ispira al dialogo filosofico platonico e Rosmini preferiva Platone ad Aristotele. «Negli ultimi anni Rosmini si andò convincendo che la sua produzione intellettuale era troppo avanti rispetto ai suoi tempi. Doveva subire contrasti, attacchi, sospetti di eterodossia, insomma una specie di passione e sepoltura intellettuale. Tuttavia andò pubblicando le sue opere, convinto che avrebbe trovato un gruppetto di amici della verità disposto a tenere vivo il suo pensiero». Quel manipolo di amici impedì «che l’oblio calasse su di lui durante la discesa agli inferi del suo pensiero. Il poeta Clemente Rebora, negli anni Cinquanta scriveva che a suo parere lo Spirito Santo aveva riservato di amministrare l’eredità intellettuale e il genere di santità di Rosmini, quando i tempi fossero pronti a riceverlo e a beneficiarne. A mio parere i tempi sono questi nostri». In cauda chiediamo a Muratore un ritratto sintetico di Rosmini. «Direi che la sua carta d’identità integrale è quella della carità universale, una specie di istinto amoroso che desidera abbracciare tutto l’essere nelle sue dimensioni: larghezza, lunghezza, altezza e profondità. Questa carità si presenta con tre facce, ciascuna delle quali a suo modo abbraccia tutto l’essere e sono le forme della carità: temporale (cura del corpo), intellettuale (coltivazione della ragione), spirituale (coltivazione dei beni eterni). Se la carità intellettuale in questo quadro splende maggiormente, è perché Rosmini si accorge che i tempi andavano cambiando, la gente cominciava a ragionare con la propria testa e a rifiutare, in nome della ragione, la religione. Bisognava dunque compiere l’immensa opera di presentare la religione come amica della ragione e di esporre le verità teologiche privilegiando come metodo il principio di persuasione sul principio di autorità». All’evento stresiano, organizzato in collaborazione con la Conferenza episcopale italiana e la Lateranense, oltre a Muratore, prenderanno parte Vincenzo Buonomo, Maurizio Ferraris, Giuseppe Lorizio, Giulio Maspero, Markus Krienke, Angela Ales Bello, Paolo Valore, Marco Damonte, Leonardo Messinese e Samuele Francesco Tadini.

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Inediti. Il dialogo giovanile di Antonio Rosmini sull’amicizia

Il roveretano aveva appena sedici anni quando compose il “Dialogo tra Cieco e Lucillo”, ora proposto in volume assieme ad altri scritti giovanili
Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano

Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano – –

Avvenire

«E’ son tanti o Cieco i vantaggi di questa amistade figliuola della natura, son tanti e tali ch’io non volgo a dirli tutti, in tutta grandezza essa fa presenti i lontani, i poveri arichisce fa i deboli forti; i morti fa insomma vivi. Lega insieme il cielo e la terra e fa dolce la vita agli uomini, ond’è che fu detto neuna cosa essere più gioconda dell’amistade. O quanto è dolce trovare un’amico in chi si possa riporre ogni segreto! come con seco medesimo. Un’amico col quale fruire insieme la prosperità, e le contentezze, un’amico onde partire le miserie, e le afrizioni di questo mondo. Senza di questo ogni pensiero è tedio, ogni operazione fatica, ogni terra pellegrinaggio, od esilio, ogni vita tormento. E’ mi bramerà vivere senz’amico ancorché gli altri beni di questa terra avesse?». Così scrive Antonio Rosmini nel Dialogo tra Cieco e Lucillo risalente, con grande probabilità, alla seconda metà del 1813 e pubblicato ora in anteprima assoluta dalle edizioni Inschibboleth, insieme al contemporaneo Delle laudi dell’amistà, nel volumetto Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili (pagine 120, euro 12,00) e da oggi disponibile in libreria. Merito della scoperta e della realizzazione dell’edizione critica di questi trattatelli va a Emanuele Pili, autore di recente anche di Se l’uno è l’altro. Ontologia e intersoggettività in Antonio Rosmini (Edizioni di pagina), libro che ha il pregio di condurre il Roveretano nel suo luogo naturale, ovvero nel cuore del dibattito del pensiero continentale contemporaneo da cui spesso è stato tenuto lontano.

Non bisogna illudersi, comunque. Delle laudi dell’amistà e Dialogo tra Cieco e Lucillo non hanno pretese di originalità né di innovazione eppure, come sottolinea Fulvio De Giorgi nella prefazione, figureranno «nella bibliografia essenziale delle fonti primarie» di Rosmini. Non deve certo sorprendere il procedere e l’argomentare acerbo dei due lavori. Allora il pensatore di Rovereto, appena sedicenne, non aveva ancora scoperto la filosofia. Le sue porte si sarebbero schiuse per lui solo l’anno successivo, dopo l’incontro con Pietro Orsi. Eppure queste pagine giovanili, per la prima volta disponibili per il largo pubblico, custodiscono già in nuce temi e problemi intorno a cui Rosmini continuerà a meditare fino agli anni non più verdi. Lo conferma lo stesso Rosmini nel tardo Degli studi dell’Autore dove ricorda che «per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que’ semi». E la stessa Teosofia lo testimonia quando tra le sue pagine recita, facendo quasi eco a quanto il grande pensatore italiano pensava già in età adolescenziale, vale a dire che «tutte le nature delle cose sono connesse – scrive –, e fra loro inanellate, l’una chiama l’altra, l’una all’altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, quindi ancora l’armonia e la consonanza di queste che dagli abissi intimi visceri dell’essere esce e risuona».

Non che mancassero le letture al giovane Rosmini. Se Cicerone, Seneca e Plutarco la fanno da padroni nelle pagine giovanili, come sottolinea Pili nell’introduzione, non mancano riferimenti a Virgilio, Boezio, Boccaccio, Dante, Francesco Petrarca, Poliziano, Ludovico Ariosto, Francesco di Sales anche se l’Aristotele dell’Etica Nicomachea ancora non figura nel suo cahier di letture. Eppure non ne ha bisogno. L’amicizia sta già al centro delle esigenze, teoretiche e vitali, di Antonio Rosmini. Non si tratta di un interesse estemporaneo. A più riprese nell’epistolario di quegli anni torna la questione dell’amicizia e della sua importanza anche se in Delle laudi dell’amistà Rosmini si lamenta che «né io ancora colui m’è venuto fatto di trovare, il quale meritar possa il dolce nome d’amico ». Il problema è tanto sentito che, qualche anno dopo queste prime esperienze di scrittura, tra il 1819 e il 1820, il pensatore di Rovereto costituirà una “Società degli Amici” con lo scopo di promuovere la crescita spirituale degli accoliti. Tutta l’attenzione rivolta all’amicizia dipende dal ruolo che Rosmini le assegna nell’economia dell’essere. Essa non riguarda solo affetti e morale. Ricopre uno statuto più ampio, quasi ontologico, anche in gioventù e troverà, nei testi maturi, sorgente nella Trinità. L’amicizia è «la grammatica relazionale cui risponde ogni realtà», sottolinea Pili. È solo in virtù di questo vincolo amicale dell’essere, animato dal Mistero trinitario, che l’amicizia gioca un ruolo nel conseguimento della virtù e che consente a Rosmini di riconoscerle ricadute morali come testimoniano già le battute conclusive del Dialogo tra Cieco e Lucillo. «Questo io agogno, o caro, onde l’un l’altro ajutati potessimo di leggeri a quella virtù pervenire, cui colla solitanea malagevole assai si arriva. E di fatti, e a che altro de’ l’amicizia esser rivolta, che all’ajuto della virtù? Ma deh quanto è difficile trovare colui col quale rimangasi in Amistade legati fino all’ultimo dì della vita come furono già Scipioni, ed i Leli!».

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone)

Rosmini, la fede, una Chiesa per il domani e l’unità

Confusione e divisione nella Chiesa sono due termini ricorrenti nei media, che spesso travisano quanto accade nella vigna del Signore. Il testo diffuso sabato 9 febbraio a firma del cardinal Gerhard Müller mi sembra un contributo alla riflessione aperto a successivi approfondimenti per la fede dei credenti, eppure è stato presentato come un intervento, anzi un vero e proprio “manifesto della fede”, contro il magistero del Papa e, dunque, contro l’unità della Chiesa. Un’operazione grave e greve.

Parafrasando il beato Antonio Rosmini potremmo dire che nel testo pubblicato ieri da alcuni siti internet di vari Paesi si cerca di declinare la carità intellettuale/dottrinale in conflitto con quella che lo stesso Rosmini denomina «carità pastorale», culmine delle tre forme di carità: temporale (per i bisogni immediati), intellettuale (per la sete di verità), pastorale (per il dono di sé incondizionato). Ora se il cardinale teologo esercita la seconda di queste forme in maniera autentica, non può in nessun modo contrapporsi alla forma suprema di carità, che il Vescovo di Roma esprime nell’oggi della storia. Ricordare la dottrina, purché non si intenda ritenere che il cristianesimo sia esclusivamente “dottrinale”, è un servizio per tutta la Chiesa. Esercitare il servizio della carità pastorale è imprescindibile e necessario in un mondo in cui i gesti valgono più delle parole e i fatti più delle teorie. La Chiesa di oggi non ha alcun bisogno di divisioni e di contrapposizioni, ma di concordia e di unità: quella unità di cui il Papa è segno. Nonostante una minuscola, ma insistente, campagna di deliberato fraintendimento, le verità della Rivelazione che Müller richiama trovano serena espressione nel magistero dell’attuale pontefice, anche in materia “morale” e in particolare per quanto riguarda la logica sacramentale e il rapporto fra i sacramenti dell’eucaristia e del matrimonio. A questo riguardo il cardinale scrive: «Dalla logica interna del sacramento si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano la santa Eucaristia fruttuosamente, perché in tal modo essa non li conduce alla salvezza. Metterlo in evidenza corrisponde a un’opera di misericordia spirituale». Né va dimenticato che, in un testo particolarmente significativo a tale riguardo, Müller aveva affermato: «Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave, ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico, quindi un peccato lieve». E tutto ciò è in perfetta coincidenza con il dettato dell’Amoris laetitia.

La confusione e la divisione sono l’arma diabolica utilizzata non da uomini di Chiesa, autenticamente in ricerca e animati dalle migliori intenzioni, ma da vecchi e nuovi media propensi al sensazionalismo, lobby laiciste e manipoli di ipercritici “interni” che sembrano non avere altro interesse che il discredito su quanto lo Spirito opera nell’attuale momento che la Chiesa cattolica vive. Ecco perché il nostro cuore e la nostra mente non sono affatto turbati da simili operazioni (Gv 14,1), in quanto radicati nella convinzione che la comunità ecclesiale non è, nemmeno in questi anni, guidata da un uomo, ma dallo Spirito, perché: «La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine a lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale, umani sono altri mezzi che entrano ad eseguire il disegno dell’Eterno: perciocché la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare interamente alla Chiesa, appunto perché questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina» (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). E in essa la verità si fa nella carità, ovvero nell’unità (cf Ef 4,15).

di Giuseppe Lorizio – Professore ordinario di Teologia fondamentale