BIBBIA E LITURGIA La fede cristiana è un “andare oltre”… commento al Vangelo

Nei tre movimenti che animano il Vangelo di oggi, il terzo è quello della fede cristiana: ed è il movimento gratuito, quello che nasce dal ‘rendere grazie’, gesto quanto mai ‘inutile’, perché il fine è già ottenuto.

I prime due movimenti sono umanissimi e legittimi, ma sono ancora quelli dell’io: dieci lebbrosi vanno dal Nazareno e domandano, giustamente, una pietà concreta: guarigione dalla lebbra, ritorno nella vita sociale. Domandano pietà per porre fine a una sofferenza: chi non si riconosce in questa domanda? E infatti la guarigione avviene, secondo l’indicazione che il «Maestro» dà: presentarsi ai sacerdoti, seguire la legge: è il secondo movimento.
Tutto chiede salvezza, recita il titolo di un bel romanzo di Daniele Mencarelli. Tutto chiede salvezza, ma capire cosa sia salvezza, e capire che è nel terzo movimento, quello non scontato né prescritto, che essa si incontra, è rischio che corre solo uno su dieci. Perché compiuto il dovere e assolto quanto era stato richiesto, il movimento di nove uomini si ferma. Umanissima richiesta, umanissimo desiderio. E umanissima sosta. È stato assolto il compito, e va bene così.

Ma qui sta il terzo movimento, che solo lo straniero, l’impuro doppio (lebbroso e samaritano) compie, ed è il movimento del rendere grazie, cioè di fare qualcosa di non richiesto, ma che rappresenta il di più della fede: tornare e lodare; fare qualcosa di gratuito, senza utile proprio. È il movimento della fede cristiana, che passa dal «maestro» e dalla «legge» al gratuito del bene di Dio e per Dio. A ciò che chiamiamo ‘amore’, che anche Dio cerca in noi. Qui nasce la fede, che è capace di andare oltre la legittima domanda, per un semplice ‘dire grazie’, per una semplice ‘lode’. E lì che arriva l’invito ad alzarsi e andare, perché la fede ha procurato salvezza. È lì che avviene salvezza.

Troppe volte, forse, ci fermiamo al “maestro” e alla legge, pur legittimi; troppe volte diamo spazio all’io e poi ci fermiamo; seguiamo la prescrizione e non sentiamo nel cuore quel movimento gratuito del fare, andare, dire, incontrare Dio nel gratuito. Che è fare qualcosa oltre il proprio io. Siamo umani. Però il Vangelo di oggi dice che c’è una ricchezza nell’andare oltre, nell’osare a superare il ‘giusto’, la misura.

Forse aveva ragione Montale: «Occorrono troppe vite per farne una» (Estate, ne Le occasioni). Ma, forse, in una vita abbiamo occasione di viverne molte, o, per lo meno, di arricchire quell’unica con umanissimi movimenti, ma anche con ciò che è gratuito. Ed quello che, in fondo, dà sapore, lode, gioia. E salvezza.

Vita e celibato Un necessario ripensamento teologico

Stati «generali della natalità». L’antica espressione di matrice feudale, diventata in seguito emblema dell’innesco di un processo rivoluzionario, è stata scelta dal Forum delle famiglie per organizzare un incontro dedicato all’«inverno demografico» italiano (Roma, 14 maggio 2021). L’inaugurazione è stata così solenne da contemplare un discorso del primate d’Italia. Le parole di papa Francesco sono state contraddistinte da una nota di forte attualità largamente ispirata dalla «ripartenza» post pandemica.

I tre pensieri guida proposti dal papa sono stati contraddistinti da altrettante espressioni chiave: «dono» (concepimento e nascita sono, per definizione, realtà che ci precedono), «sostenibilità generazionale» (non c’è ripartenza senza ripresa demografica), «solidarietà strutturale» (occorre provvedere a un sostegno organico alle famiglie). È una spia del clima «invernale» il fatto che tra questi pensieri manchi il termine «responsabilità». In tempi non lontani parlare di maternità e paternità responsabili rientrava nel lessico comune. Ogni dono presuppone, va da sé, un donatore, allo stesso modo in cui non è concesso parlare di creature senza riferirsi al Creatore («Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature»).

Fra i tre riferimenti è evidentemente quello legato al dono a trovare più rispondenze nell’ambito delle tradizioni spirituali. A prescindere dalle questioni demografiche, in questo caso irrilevanti, sarebbe opportuno riesaminare il tema del perché il clero secolare di rito latino è compartecipe di quel dono solo nel ricevere e non già nel dare.

Precetti e «consigli evangelici»

Secondo una plausibile percezione media, l’ebraismo è più prossimo al cattolicesimo di quanto non lo sia al protestantesimo. I motivi di questa vicinanza si trovano nel valore attribuito ai precetti. La radicale dialettica riformata sottesa alla polarità fede-opere appare più lontana dalla sensibilità ebraica della mediazione cattolica in cui, senza negare il ruolo della grazia, alle opere viene assegnato un compito decisivo anche nell’orizzonte della salvezza.

Va da sé che molto ci sarebbe da precisare rispetto a questa precomprensione abbastanza stereotipata. Tuttavia essa ha una sua parziale ragion d’essere. Eppure c’è anche dell’altro. È il caso, per esempio, dei cosiddetti «consigli evangelici», scelte volontarie che segnano una differenza tra una condizione particolare e quella dei comuni fedeli. Qui tra ebraismo e protestantesimo le affinità sono maggiori di quelle che si registrano rispetto al cattolicesimo.

La distanza fra la tradizione ebraica e quella cattolica è assai netta in relazione al comandamento di sposarsi e di generare che nell’ebraismo non conosce eccezioni. A tale proposito, nelle corde di Lutero vi sono espressioni che l’ebraismo non avrebbe alcuna difficoltà a fare proprie: «Il matrimonio è poi un ordine e una creazione di Dio (…) Satana infatti odia questo genere di vita. Suvvia in nome di Dio arrischiati [si sta rivolgendo al suo discepolo Dietrich Veit; nda] sulla sua benedizione e sulla sua creazione».1

Va da sé che queste parole sono condivise anche dal cattolicesimo che rende il matrimonio un sacramento. Tuttavia esse non possono essere dotate di un’estensione universale. Nella tradizione cattolica si è infatti obbligati ad affermare che il matrimonio è buono, ma non ogni forma di vita buona è riconducibile a esso. In luogo di un radicale aut aut, occorre rivolgersi a un più mediato et et. Secondo Giovanni Crisostomo: «Chi denigra il matrimonio, sminuisce anche la gloria della verginità; chi lo loda, aumenta l’ammirazione che è dovuta alla verginità», quest’ultima infatti attesta una condizione più alta non rispetto a quanto è brutto, ma rispetto a quanto è bello.2

Il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1619) dichiara che: «La verginità per il regno dei cieli è uno sviluppo della grazia battesimale, un segno possente della preminenza del legame con Cristo, dell’attesa ardente del suo ritorno, un segno che ricorda pure come il matrimonio sia una realtà del mondo presente che passa (cf. Mc 12,25; 1Cor 7,31)». La scelta però può essere vissuta anche in modo molto spoglio, ma non per questo meno autentico. Ivan Illich, a proposito di se stesso, scrisse che il voto di castità è scelta «di vivere adesso la povertà assoluta che ogni cristiano spera di vivere nell’ora della morte».3

Fino a qui ci troviamo in un ambito condiviso anche dall’ortodossia. Tocchiamo infatti le basi peculiari della vocazione monastica. La presenza di uomini e donne che scelgono di testimoniare il Regno nell’attesa della venuta del Signore, alla fine dei tempi, fa parte di una grande e condivisa tradizione cristiana.

Quanto è peculiare al cattolicesimo, o meglio al suo rito latino, è l’imposizione del celibato come condizione indispensabile per l’esercizio del sacerdozio ministeriale. Anni addietro, in Conversazioni notturne a Gerusalemme, fu posta a Carlo Maria Martini una domanda in termini molto franchi: «Non avere rapporti sessuali è innaturale. Come mai i preti non devono sposarsi?».

Il cardinale rispose: «I preti possono sposarsi in tutte le Chiese a eccezione di quella cattolica romana. L’idea che i sacerdoti non debbano sposarsi è nata dal monachesimo. Donne e uomini vivono insieme in comunità, oppure da eremiti, per seguire Gesù nel suo celibato. Vogliono essere completamente liberi per servire Dio (…) rischiano la vita per amor suo. Per il celibato è fondamentale che una comunità offra al sacerdote uno spazio in cui sentirsi amato e protetto. Un prete non deve sentirsi solo…».4

Celibato per tutti?

La lunga esperienza pastorale rese evidente a Martini quanto sia grande il problema del prete che vive in solitudine nel cuore della città. Tuttavia il centro della questione non sta nel dramma reale del conforto nei riguardi di chi ha fatto una scelta che dovrebbe renderlo disponibile verso tutti. Né tutto è risolvibile nella grande testimonianza di colui che decide volontariamente di restare solo per essere più vicino a chi, contro il suo volere, è stato gettato dalla vita nella solitudine. Questa vocazione radicale rende prossimi alla gente e costringe chi la fa propria a comprendere come vanno le cose del mondo anche quando, di persona, si astiene dal rischio di allevare figli in una società difficile.

Occorre chiedersi, e non solo per motivi pastorali, se la scelta del celibato obbligatorio, imposta in Occidente alla fine dell’XI secolo e codificata disciplinarmente solo con il concilio di Trento, non rappresenti una perdita rispetto alla posizione mantenuta dalla grande tradizione ortodossa (e contemplata anche dalle Chiese cattoliche di rito orientale) che rende vincolante il celibato per i monaci e per i vescovi ma non per i presbiteri che vivono nel mondo.

La vitalità del neomonachesimo occidentale (peraltro non al riparo da prove; basta pensare al «caso Bose») ha di nuovo posto al centro dell’attenzione la differenza tra lo status di monaco e quello di presbitero. Tutto ciò potrebbe trasformarsi in occasione per ripensare alle condizioni e agli obblighi propri del presbitero secolare. Ciò avverrebbe in nome della tradizione e non già contro di essa.

La storia della Chiesa mostra che, alle spalle dell’opzione celibataria imposta ai sacerdoti, vi sono pure considerazioni teologiche diverse rispetto a quelle legate alla perfezione monastica. Alcune di esse sono molto antiche.

Per esempio già nel Sinodo di Elvira (attorno al 300), l’accento posto sull’astinenza sessuale di vescovi, presbiteri e diaconi, lungi dall’essere assunto dalla novità del sacerdozio di Cristo, deriva dall’ibrido impasto che lo collega a una spuria ripresa dell’antico sacerdozio levitico.5 Prima di compiere il loro servizio al Tempio di Gerusalemme, i kohanim (sacerdoti) dovevano entrare in uno stato di purità – ovviamente temporaneo – il che comportava per loro l’astensione dai rapporti sessuali. Pensando al nuovo sacerdozio secondo l’ordine di Melchìsedek come eterno (cf. Sal 110,4) si è ritenuto logico concludere che anche l’astensione dal sesso fosse perenne.

È stata, dunque, una visione teologicamente impro-
pria di una Chiesa che si pensava come nuovo Israele ad aver favorito l’associazione tra l’essere presbitero e l’essere celibe.

Prima che la pressione degli avvenimenti e le urgenze pastorali conducano ad affrettati accomodamenti, sarebbe bene ripensare, per tempo, ad alcuni fondamentali snodi teologici.

 

 

1 M. Lutero, Discorsi a tavola, n. 233, Einaudi, Torino 1969, 50.

2 Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1620.

3 Cit. in F. Milana, «Postfazione» a I. Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, Macerata 2008, 143.

4 C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2012, 32.

5 Cf. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue, a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1995, n. 119.

il Regno

Preti sposati documento della Congregazione Clero del Vaticano: aperta la possibilità che i preti dispensati possano riprendere l’esercizio del ministero e, naturalmente, insegnare religione

La Congregazione del clero ha recentemente introdotto alcuni cambiamenti sostanziali nel rescritto per ottenere la dispensa dallo stato clericale. I preti che lasciano il ministero potranno, ad esempio, servire le loro comunità e insegnare nei collegi e nelle università della Chiesa. L’articolo di José Manuel Vidal è stato pubblicato lo scorso 23 settembre 2019 sul sito Religión Digital. Traduzione italiana a cura di Lorenzo Tommaselli.

Da «traditori», quasi appestati ed esiliati a fratelli dispensati.  Cambiamento assoluto e radicale nella procedura che devono seguire i preti che lasciano il ministero e richiedono la dispensa. Cambiamento nel tono e nella sostanza del documento, tecnicamente chiamato «rescritto». Era uno degli argomenti in sospeso di papa Francesco, che solo pochi mesi fa ha appena approvato tramite la Congregazione del clero, presieduta dal cardinale Stella.

Questo cambiamento sostanziale o svolta totale nella procedura per ottenere la dispensa dal celibato e dall’esercizio del ministero sembra essere parte di un movimento più ampio, che contempla l’ordinazione di uomini sposati e la possibilità che i preti dispensati possano riprendere l’esercizio del ministero e, naturalmente, insegnare religione e teologia nei collegi e nelle facoltà ecclesiastiche.

Il primo cambiamento sostanziale è quello del linguaggio utilizzato dal nuovo rescritto. Non si parla più di «secolarizzazione» del prete o della sua «riduzione allo stato laicale» (che comprendeva una chiara sottovalutazione del laicato), ma di «dispensare» o «chierico dispensato».

Diamo un’occhiata ad alcuni di questi cambiamenti fondamentali. Se al prete che lasciava il ministero prima non era permesso neanche continuare ad essere in contatto con la sua parrocchia, ora si chiede che gli si faciliti lo svolgimento di «servizi utili» alla comunità. In particolare, il numero 5 del rescritto recita come segue: «L’Autorità ecclesiastica si adopererà per facilitare che il chierico dispensato svolga servizi utili alla comunità cristiana, mettendo al suo servizio i propri doni e i talenti ricevuti da Dio» (n. 5).

Inoltre, il numero 6 aggiunge che «il chierico dispensato sia accolto dalla comunità ecclesiale in cui risiede, per continuare il suo cammino, fedele ai doveri della vocazione battesimale» (n. 6). Si elimina quindi alla radice il riferimento precedente all’«esilio» del prete, che recitava come segue: «Il prete dispensato dal celibato e a maggior ragione il prete che si è sposato deve stare lontano dal luogo o territorio in cui è conosciuto il suo stato precedente» (n. 5f).

Si è anche totalmente eliminato l’obbligo prescritto dal precedente rescritto di imporre una penitenza al prete dispensato, perché si presupponeva che avesse commesso un peccato e avesse violato i suoi obblighi. Per questo stabiliva: «Verrà imposto all’interessato una qualche opera di carità o di pietà».

D’altra parte, se il prete che chiedeva la dispensa voleva sposarsi (cosa abituale nella maggior parte dei casi), il precedente rescritto prescriveva che «l’ordinario deve prestare la massima attenzione affinché la sua celebrazione venga effettuata con discrezione, senza pompa o sfarzo» (n. 4). Cioè, nascondendo il sacramento del matrimonio del prete alla comunità. Come se ricevere un simile sacramento fosse, in questo caso e solo in questo, una vergogna o, peggio ancora, uno scandalo per i fedeli. Ora invece si dice solo che si celebri il matrimonio «rispettando la sensibilità dei fedeli del luogo» (n. 4).

Oltre ai cambiamenti di linguaggio, di tono e di normativa, il nuovo decreto scende ancora di più nel pratico e consente ai preti dispensati di poter continuare ad essere pastoralmente attivi. Infatti, il precedente rescritto prevedeva quanto segue: «Il prete dispensato è escluso dall’esercizio dell’ordine sacro… e non può fare omelie o ricoprire alcun incarico di direzione nell’ambito pastorale, né gli si potrà conferire alcuna responsabilità nell’amministrazione parrocchiale» (n. 5b) e «non può esercitare in nessun luogo la funzione di lettore, di accolito, o distribuire o essere ministro straordinario dell’eucaristia» (n. 5f). Sebbene contemplasse la possibilità che l’Ordinario della diocesi potesse derogare ad alcune o anche a tutte queste clausole (n. 6).

Il nuovo rescritto proclama: «Il chierico dispensato può esercitare gli uffici ecclesiastici che non richiedono l’ordine sacro, con il permesso del vescovo competente» (n. 5a).

C’è anche un cambiamento sostanziale nelle funzioni che un prete secolarizzato può svolgere in istituti dipendenti o meno dall’autorità ecclesiastica. Il rescritto precedente diceva che «non può svolgere l’incarico di direttore in istituti di studi superiori che in qualche modo dipendano dall’autorità ecclesiastica» (n. 5c), senza eccezioni. Ora, «tale proibizione può essere rimessa dalla Congregazione del clero, su richiesta del vescovo competente e dopo aver consultato la Congregazione per l’educazione cattolica» (n. 8).

Inoltre, il rescritto precedente diceva che «negli istituti di studi superiori, dipendenti o meno dall’autorità ecclesiastica, non può insegnare nessuna disciplina teologica o con essa strettamente connessa» (n. 5d), senza eccezioni. Ora «tale divieto potrà essere rimosso dalla Congregazione per il clero, su richiesta del vescovo competente e dopo aver consultato la Congregazione per l’educazione cattolica».

Il rescritto precedente diceva che «negli istituti di studi inferiori dipendenti dall’autorità ecclesiastica non può esercitare un compito direttivo o di insegnamento di discipline teologiche. Il prete dispensato è tenuto dalla stessa norma per quanto riguarda l’insegnamento della religione negli istituti similari non dipendenti dall’autorità ecclesiastica» (n. 5e), sebbene contemplava il fatto che l’Ordinario della diocesi potesse derogare a questa specifica clausola (n. 6).

Nell’attuale rescritto si dice semplicemente che può farlo, «considerando le circostanze concrete, secondo la prudente valutazione del Vescovo competente» (n. 7).

Il rescritto precedente diceva che «non può svolgere alcuna funzione in seminari o istituti equivalenti» (n. 5c); ora si parla solo del fatto che «non può svolgere funzioni formative» (n. 10).

Inoltre, se di questo essere dispensato da alcuni dei punti prima si diceva che «dovrà essere concesso e comunicato per iscritto» (n. 7), ora nulla viene esplicitamente detto al riguardo, sebbene si faccia capire che dovrebbe essere così. Inoltre, è stato espressamente aggiunto l’obbligo del prete dispensato di confessare il penitente in pericolo di morte (5b).

Settimana News

Sinodo sull’Amazzonia: Instrumentum laboris, “creare nuovi ministeri” per laici e donne, studiare possibilità di “ordinazione sacerdotale di anziani rispettati dalla comunità”

Agensir

“La Chiesa deve incarnarsi nelle culture amazzoniche che possiedono un alto senso di comunità, uguaglianza e solidarietà, per cui il clericalismo non è accettato nelle sue varie forme di manifestarsi”. È quanto si raccomanda nel quarto capitolo dell’Instrumentum laboris del Sinodo sull’Amazzonia, dedicato all’organizzazione delle comunità ecclesiali. “I popoli indigeni posseggono una ricca tradizione di organizzazione sociale dove l’autorità è a rotazione e con un profondo senso del servizio”, si fa notare nel testo: “A partire da questa esperienza di organizzazione sarebbe opportuno riconsiderare l’idea che l’esercizio della giurisdizione (potere di governo) deve essere collegato in tutti gli ambiti (sacramentale, giudiziario, amministrativo) e in modo permanente al Sacramento dell’Ordine”. “Oltre alla pluralità delle culture all’interno dell’Amazzonia, le distanze generano un grave problema pastorale che non può essere risolto con i soli mezzi meccanici e tecnologici”, l’analisi del contesto: “Le distanze geografiche manifestano anche distanze culturali e pastorali che, quindi, richiedono il passaggio da una ‘pastorale della visita’ a una ‘pastorale della presenza’, per riconfigurare la Chiesa locale in tutte le sue espressioni: ministeri, liturgia, sacramenti, teologia e servizi sociali”. Di qui la necessità di creare “ministeri appropriati”, cioè “nuovi ministeri per rispondere in maniera efficace ai bisogni dei popoli amazzonici”. “Promuovere vocazioni autoctone di uomini e donne in risposta ai bisogni di un’attenzione pastorale sacramentale”, la proposta dell’Instrumentum laboris: “il loro contributo decisivo sta nell’impulso ad un’autentica evangelizzazione dal punto di vista indigeno, secondo i loro usi e costumi”. “Si tratta di indigeni che predicano agli indigeni con una profonda conoscenza della loro cultura e della loro lingua, capaci di comunicare il messaggio del Vangelo con la forza e l’efficacia di chi ha il loro bagaglio culturale”, l’identikit dei nuovi ministri laici, per permettere il passaggio “da una ‘Chiesa che visita’ ad una ‘Chiesa che rimane’, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti”. “Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana”, l’altra proposta, insieme a quella di “identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica”. “Le comunità indigene sono partecipative ed hanno un alto senso di corresponsabilità”, si sottolinea nell’Instrumentum laboris, in cui si chiede di “valorizzare il protagonismo dei laici e delle laiche cristiani” e di “riconoscere il loro spazio perché siano soggetti della Chiesa in uscita”. “In campo ecclesiale, la presenza delle donne nelle comunità non è sempre valorizzata”, la denuncia del testo, in cui si chiede “il riconoscimento delle donne a partire dai loro carismi e talenti” e di “garantire alle donne la loro leadership, nonché spazi sempre più ampi e rilevanti nel campo della formazione: teologia, catechesi, liturgia e scuole di fede e di politica”, in modo che “anche che la voce delle donne sia ascoltata, che siano consultate e partecipino ai processi decisionali, e che possano così contribuire con la loro sensibilità alla sinodalità ecclesiale”. “Che la Chiesa accolga sempre più lo stile femminile di agire e di comprendere gli avvenimenti”, l’auspicio.

Sinodo: laici sposati siano preti. Vaticano apre ai preti sposati

ANSA) – CITTA’ DELVATICANO, 17 GIU – Anche i laici sposati
potranno diventare sacerdoti, ma solo in particolari condizioni.
E’ quanto suggerito dal documento di lavoro in vista del Sinodo
dell’Amazzonia, in programma in Vaticano dal 6 al 27 ottobre.
“Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa – si legge
nel documento -, si chiede che, per le zone più remote della
regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di
anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla
loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita
e stabile”. La possibilità di essere ordinati sacerdoti sarebbe
dunque riservata ai cosiddetti “viri probati”, uomini sposati
dalla fede sicura, che potranno sopperire alla mancanza di
sacerdoti in alcune regioni dell’Amazzonia. Nelle 58 pagine del
documento si sottolinea come “le comunità hanno difficoltà a
celebrare frequentemente l’Eucaristia per la mancanza di
sacerdoti”.

Il Papa e le omelie: niente artifici né troppi gesti

liturgia.gruppo.liturgico

“Recuperare il fascino della bellezza – ha detto il Papa questa mattina, all’inizio del suo incontro con i preti di Roma nell’aula Paolo VI – è la cosa centrale dell’ars celebrandi. Recuperare lo stupore, sia di chi celebra che della gente. Bisogna entrare in una atmosfera spontanea, normale, religiosa, ma non artificiale, e così si recupera un po’ lo stupore, quello che si sente nell’incontro con Dio. Quando incontriamo il Signore nella preghiera – ha sottolineato papa Francesco – sentiamo questo stupore, quando non preghiamo in maniera formale, il sentimento dell’incontro, lo stupore, quello che hanno sentito gli apostoli quando sono stati invitati, lo stupore attira e ti lascia in contemplazione, è importante, e contro lo stupore va ogni tipo di artificialità; l’ars celebrandi implica che “si deve pregare davanti a Dio con la comunità, ma normalmente come si prega. Quando troviamo – ha proseguito – sacerdoti che celebrano in modo sofisticato, artificiale, o con i gesti un po’.., o che abusano dei gesti sia da una parte che dall’altra, non è facile che si dia questo stupore o questa capacità di far entrare nel mistero, celebrare è entrare e far entrare nel mistero, è semplice ma è così, se io sono eccessivamente rigido, non faccio entrare nel mistero tutta la forza è in quella forma, e se sono showman, il protagonista della celebrazione, non faccio entrare nel mistero, per dire i due estremi”.

“L’ars celebrandi – ha detto ancora papa Francesco – riguarda proprio il sacerdote che provoca, vive, e con il suo atteggiamento fa che il Signore provochi”.

Introducendo i lavori di oggi, il vicario di Roma, Agostino Vallini, aveva spiegato che quest’anno preti, vescovi e i fedeli più vicini alla Chiesa hanno lavorato sulla Evangelii Gaudium di papa Francesco, in particolare sul punto 135, dedicato all’omelia. Il cardinale Vallini ha citato il “pericolo della nausea della parola nella liturgia”, il rischio, ha detto, che ci siano “parole ripetitive, un po’ logore, astruse o moralistiche”.

“Il problema è presente nella mia agenda”; è stata questa la risposta di Papa Francesco alla domanda di un sacerdote, don Giovanni Cereti, che durante l’incontro con il clero romano ha rivolto una domanda sulla questione dei preti sposati, facendo un paragone, per contrasto, tra la situazione delle Chiese orientali, dove anche gli uomini sposati possono essere ordinati sacerdoti, e quella delle Chiese di rito latino, dove invece è escluso l’accesso al sacerdozio per i non celibi. Durante l’incontro odierno – che per espresso desiderio del Papa, come è accaduto in incontri analoghi durante i viaggi (a Cassano, a Caserta, in Molise), si è svolto in un clima di riservatezza, “a porte chiuse” – Francesco ha rivelato che quando, il 10 febbraio, ha celebrato con sette preti che festeggiavano il loro 50° di sacerdozio, alla messa mattutina di Santa Marta erano presenti anche cinque sacerdoti che hanno lasciato il ministero perché hanno scelto di sposarsi.

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