Come è cambiata la povertà a Reggio Emilia?

“Nessuno si salva da solo” è un percorso in quattro tappe proposto dalla Caritas diocesana per riflettere su come è cambiata la povertà e il suo contrasto a Reggio Emilia.
La prima tappa del percorso è la presentazione alla stampa dei dati Caritas sulla povertà raccolti dai Centri di ascolto in Diocesi nel 2022 e nel 2021 in programma per mercoledì 26 aprile, alle 11, al Museo diocesano di via Vittorio Veneto, 6.

In seguito, i temi del report Caritas saranno approfonditi in tre momenti: “Tanti volti di povertà” (4 maggio); “Povertà con dimora, povertà di dimora” (18 maggio) e “Povertà senza dimora” (1 giugno).

laliberta.info

Il prete e la povertà

in Settimana News
di: Domenico Marrone

Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis al n. 17 che si occupa della povertà volontaria e dell’atteggiamento verso i beni terreni, esorta così i presbiteri: “Non trattino l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne derivi per aumentare le sostanze della propria famiglia. I presbiteri, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio”.

Questa esortazione rivolta ai presbiteri a non impiegare i redditi derivanti dal loro ufficio “per aumentare le sostanze della propria famiglia” fu ritenuta troppo netta da un padre conciliare. Egli chiedeva che fosse mitigata, poiché esiste anche il dovere di aiutare la propria famiglia quando è nel bisogno. Ma i redattori risposero: “Il testo si conserva perché i doveri verso la famiglia e gli altri sono compresi nell’onesto mantenimento e compimento dei doveri del proprio stato, di cui abbiamo parlato prima. Qui il discorso si svolge solo sui beni superflui”[1].

I preti, scrivono i padri conciliari, si accontentino del necessario e «il rimanente sarà bene destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità». Il Concilio ricorda a presbiteri e vescovi: «Vedano di eliminare nelle proprie cose ogni ombra di vanità. Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa».

Il silenzio sulla povertà
Il prete diocesano, fin dal diaconato, assume l’impegno del celibato e, con l’ordinazione presbiterale, promette al vescovo della diocesi di appartenenza e ai suoi successori «filiale rispetto e obbedienza». Della povertà non si dice nulla.

Un padre conciliare chiese che venisse esplicitato nell’ultimo schema del decreto Presyterorum ordinis un suggerimento per la Commissione liturgica: di inserire nel rito di ordinazione al suddiaconato la promissio ritualis del celibato, nel diaconato quella della povertà e nel presbiterato quella dell’obbedienza. La Commissione rifiutò facendo leva sulla distinzione tra povertà dei presbiteri e povertà dei religiosi[2].

L’esigenza della povertà per i presbiteri, e non solo per i religiosi, non ha attratto particolare interesse dopo il Concilio Vaticano II[3]. L’attenzione alla povertà ritorna nel documento del 1988 della Conferenza Episcopale Italiana Sovvenire alle necessità della Chiesa. Ai preti, in particolare, ricorda: «Occorre “lasciare tutto” davvero, comprese le ansietà sfiduciate e la ricerca di sicurezze per vie che non sono evangeliche» (n. 16).

Vent’anni dopo, un altro documento della Conferenza Episcopale Italiana Sostenere la Chiesa per servire tutti ripete ai preti: «La nostra disponibilità personale a una vita sobria e autenticamente evangelica rafforzerà la credibilità alla nostra opera educatrice». L’esigenza della povertà è stata però recuperata con forza da papa Francesco, nell’ambito di un’attenzione genarle che egli riserva all’argomento.

Il prete e la comunità
Non possiamo ignorare l’esemplarità che il presbitero è chiamato a vivere con la sua povertà – personale ed ecclesiale – nei riguardi dei fedeli e della comunità che gli sono affidati. È un punto decisivo, sia per la spiritualità del presbitero, sia per la credibilità della sua azione pastorale.

L’esemplarità infatti nasce dalla natura stessa della figura del presbitero come padre ed educatore, come colui che comunica ai fedeli la bellezza e la serietà della povertà cristiana: non semplicemente con l’annuncio evangelico ma con la testimonianza di una vita veramente povera.

Per poter interpellare l’uomo d’oggi, la povertà evangelica deve essere eloquente, visibile, deve essere narrata. Se non è narrata non si pone neanche la domanda sul come può interpellare. E chi può narrarla se non la chiesa?

A 60 anni dall’apertura del Concilio si devono ricordare le parole di papa Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si presenta quale essa è, e vuol essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri”. Per il Card. Lercaro, protagonista del Concilio, “il tema centrale del Concilio è la Chiesa proprio in quanto chiesa dei poveri” e per il Card. Liénart, “la chiesa deve ritrovare un aspetto che i secoli hanno un poco sfumato: il volto della povertà”.

Nel Concilio si toccò il tema della povertà del presbitero, e resta memorabile l’intervento del cardinal Lercaro su Servizio presbiterale e povertà nel quale si diceva con forza che “la situazione dei poveri secondo il vangelo e la pratica cristiana della povertà non riguardano solo il comportamento morale del cristiano e della chiesa, ma toccano il mistero intimo e personale del Cristo: cioè non costituiscono un aspetto, sia pure sublime, di morale e di filantropia, ma un momento essenziale della rivelazione di Cristo su se stesso, una parte centrale della cristologia”.

Il nesso tra ministero e povertà è ben più radicale e trova la sua ragione nel legame tra povertà e sequela, tra povertà e fede. Il prete che come credente vive il suo ministero come “forma della sequela di Cristo” impara che solo come un povero può vivere il suo essere prete in quanto figura spirituale.

Precarietà antropologica
La povertà più evidente è certamente quella antropologica, quella precarietà, quella fragilità che ha l’apice nella mortalità inerente alla condizione umana. Nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. La morte, soprattutto, ci incute paura, rende la nostra condizione “alienata” (cf. Eb 2,15), e in questa fragilità soffriamo una mancanza.

L’uomo è radicalmente povero, sempre bisognoso innanzitutto dell’altro, degli altri, dell’Altro, costantemente tentato di fuggire questa povertà, di non vederla e di rimuoverla, elaborando strategie per sottrarsi a essa.

I filosofi non hanno mai smesso di meditare su questa condizione umana di povertà, vulnerabilità, fragilità, precarietà. Tutti gli uomini e le donne conoscono questa povertà umana, anche se la vivono in modi molto diversi, più o meno alienati dalla paura della morte, spinti all’idolatria, dove “l’idolo”, che “è un falso antropologico prima che teologico” (Adolphe Gesché), sembra liberare dalla povertà, dalla condizione di mancanza e di bisogno.

La povertà è un mistero antropologico. E’ il terreno meno esplorato, ed è proprio questa la causa per la quale il discorso sulla povertà di cui parla la fede appare estraneo e non si incontra con la povertà quale è sperimentata nelle condizioni umane più dolorose e ferite.

Il mistero antropologico della povertà riguarda non una particolare, per quanto vasta, categoria di esseri umani, ma tutti. Essa dà ragione della povertà come appartenente alla condizione umana comune, come un connotato fondamentale della stessa definizione dell’uomo.

Perciò non è una congiuntura, non è un accidente, non è una situazione transitoria o definitiva nella quale alcuni o molti esseri umani si trovano; è una condizione universale e permanente, che accomuna tutti gli uomini e le donne, e ne integra l’identità.

Questa povertà costitutiva dell’uomo non è una metafora, implica una debolezza e un’indigenza reale, significa che nessuno è sufficiente a se stesso e tutti hanno bisogno gli unì degli altri; comporta la finitudine, la morte e il limite, e in sostanza coincide con la condizione di creatura.

Poveri sono dunque gli uomini tutti; ma beati sono solo quelli che lo riconoscono, solo quelli che non negano questa verità del loro essere, solo quelli che non cercano disperatamente e in modi vani — perseguendo ricchezza, autosufficienza e potere — di vivere come se non lo fossero; beati sono pertanto quelli che a partire da questa riconosciuta condizione di povertà, e conformemente ad essa, stabiliscono il loro rapporto con Dio e gli altri uomini.

In questo senso la povertà non è la disgrazia di qualcuno, ma è la grazia di tutti; la disgrazia, la perdita della grazia, sta nel negarla invece di assumerla, sta nel volerne uscire da soli o nel pretendere di non appartenervi o di esserne usciti.

Cristologia e povertà del prete
Soffermarsi a considerare la povertà del presbitero significa partire dal fatto che la nostra vita di presbiteri è stata ed è segnata dallo sguardo d’amore di Gesù. E’ uno sguardo che ci ha resi liberi per seguire il Signore, imitando così i primi discepoli che «lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11).

La povertà è un tema cristologico, cioè non è possibile dare un’identità a Gesù di Nazaret senza la povertà. Una vita connotata da precarietà, relativa insicurezza materiale, incertezza del futuro per vivere l’abbandono fiducioso a Dio suo Padre. La sua povertà diventa l’alveo della sua libertà!

La povertà del presbitero non è pertanto semplicemente volta a rendere il presbitero più disponibile verso i poveri e i deboli, ma ha a che fare con la sua qualità umana, con la strutturazione della sua umanità, con l’edificazione della sua persona in relazione a Cristo.

E ovviamente, in relazione alle persone della sua comunità e a chiunque egli incontri. Insomma, sul problema della povertà si gioca la qualità dell’umanità e della fede del presbitero. Anche per un prete non è affatto facile essere povero. Occorre scegliere di essere povero.

Il presbitero segue Gesù, il buon Pastore, colui che «dà la vita per le pecore» (Giovanni 10,14). A questo dunque sono chiamati: a fare della loro vita un dono, con un atto di libertà che non calcola ciò che lascia, ma si stupisce per essere stato chiamato a tanto. In realtà, solo con il coraggio che nasce da una grande libertà interiore possiamo seguire il Signore e relativizzare tutto a Cristo, disponendoci anche ad essere poveri come lui volle esserlo (cfr. Fil 4,12-13).

Così manifestano chiaramente che solo in Cristo ripongono tutta la loro fiducia e speranza, solo per lui spendono la loro vita. Non riconoscono altro signore all’infuori di lui. Non vivono l’affanno della ricerca di altre e diverse garanzie, perché solo la comunione con lui è la loro vera e sovrabbondante sicurezza. E così, come discepoli liberi e poveri, potranno aprirsi e coinvolgersi pienamente ad accogliere la missione di annunciare il Vangelo.

San Carlo Borromeo nelle Monitiones del quarto Sinodo provinciale del 1576, esorta i presbiteri a vivere la povertà soprattutto nel modo concreto di esercitare il loro ministero verso i fedeli: «Non siete mercanti del mondo, non ministri di mammona, ma trafficanti di Cristo».

E subito precisa l’attenzione dei presbiteri circa l’uso dei beni ecclesiastici, dicendo: «distribuite i beni della Chiesa a coloro che sono le “viscere d’amore di Cristo”, e cioè ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai fanciulli, ai sofferenti, ai carcerati». E aggiunge ancora di saper sacrificare sé stessi pur di provvedere al loro servizio ecclesiale: «frodando voi stessi del vitto, possiate ornare le vostre chiese e gli altari, rendere sempre ordinati i diversi luoghi bellamente ornati, procuratevi sacre suppellettili».

Secondo Santa Caterina da Siena i presbiteri “devono essere generosi, non avari e mai vendere la grazia dello Spirito per ambizione e brama di guadagno (cfr. Dialogo, cxiv, 405). Se il clero è abitato dal fuoco del desiderio di Dio, la presenza nella storia diventa feconda della fecondità stessa di Dio.

Il denaro e le cose
Esiste una plurisecolare tradizione spirituale che raccomanda al presbitero la povertà e l’essenzialità di vita, ma ben pochi si preoccupano di indagarne concretamente il rapporto con il denaro e con i beni personali e parrocchiali. Tutti sono concordi sulla testimonianza cristiana che i presbiteri devono necessariamente fornire, ma raramente ci si chiede quali siano le ricadute di questa missione sulle abitudini quotidiane.

Il presbitero, in particolare, deve misurarsi su almeno tre fronti: l’uso dei suoi soldi personali, dei soldi della comunità parrocchiale, dei soldi erogati dallo Stato e dalla Chiesa.

Noi presbiteri siamo uomini ricchi! Ricchi di una formazione e di un’istruzione che supera quella della gente comune; maneggiamo denaro e magari molto denaro e abbiamo una vita abbastanza sicura, più sicura di un operaio che rischia (oggi più frequentemente che nel passato) il licenziamento e la conseguente perdita delle assicurazioni sociali; abbiamo alle spalle una famiglia ecclesiale, il presbiterio, con un’assicurazione sociale che ci garantisce in caso di malattia e di vecchiaia.

In questa prospettiva deve diventare più abituale il confronto con le condizioni di vita della gente, confronto che a volte è per noi presbiteri motivo di un qualche imbarazzo. Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ci siamo sentiti affascinati dalla chiamata del Signore al radicalismo evangelico. Con una differenza: a noi preti i beni materiali (a volte anche quelli superflui) non mancano, mentre alla gente spesso manca il necessario.

Noi abitiamo in case che dicono la premura del popolo di Dio per assicurare un’abitazione dignitosa ai suoi preti, mentre tanta gente non riesce a trovare casa. Il nostro ministero ci garantisce di avere sempre un’occupazione e di ricevere il necessario per un dignitoso sostentamento; molti, invece, vivono di lavori precari e di retribuzioni inadeguate.

Tutto quello che dà sicurezza alla sua vita, il prete lo deve considerare come la condizione per potersi dedicare completamente alla sua missione, per poter spendere il suo tempo e le sue doti personali, oltre che la sua formazione, per il bene delle persone affidate alla sua cura pastorale e anche di tutti quelli che incontra sul suo cammino.

L’avidità, l’avarizia, la brama di possedere e di accumulare beni e denaro può insinuarsi nella vita di un presbitero: e più l’età avanza più la tentazione può farsi strada. La paura del futuro, il timore derivante dal pensiero della vecchiaia, dell’incertezza di ciò che il domani può riservare, di eventuali malattie e ricoveri, l’angoscia di dover dipendere da altri, può ingenerare una brama di accumulo che va oltre la buona previdenza, e diventa una maniera di scongiurare il futuro e la morte.

«Nel rapporto con l’avere (il presbitero) rivela il suo modo di porsi davanti a se stesso e al proprio futuro, davanti agli altri e davanti a Dio: passa da questo snodo, dunque, una dimensione fondamentale della testimonianza presbiterale, che – se trascurata o vissuta male – è motivo di perdita di autorevolezza, quando non di scandalo. Una concezione consumistica della vita rimane incompatibile con un’autentica sequela del Signore; tra l’altro contribuisce a trasformare il presbitero in un impiegato, la cui giornata viene scandita da priorità, da orari e programmi che non incontrano i reali bisogni della gente»[4].

Sobrietà
Il prete povero che vive distaccato dalla seduzione delle cose, del potere e del denaro, sobrio e distaccato dai beni materiali, pronto a condividere con gli altri quello che possiede, sarà l’ispiratore di una pastorale nuova aperta a tutti, segnata dalla misericordia, che giungere il Vangelo a tutti, poveri o ricchi che siano.

Ai seminaristi del Pontificio seminario pugliese (10.12.2016) papa Francesco disse: «Se hai paura della povertà la tua vocazione è in pericolo! Perché la povertà nella vita del prete è madre che dà vita e fa crescere la donazione al Signore; ed è muro che custodisce».

La povertà è come un grembo materno che fa nascere e crescere la vita del presbitero nel fervore della donazione al Signore, essa diventa un forte stimolo per una vita pastorale impegnata; una vita aperta a tutti, intraprendente e coraggiosa, ibera dalla tentazione della mondanità spirituale che attecchisce proprio in questa tendenza alla comodità, al benessere e all’autoreferenzialità (cfr. EG 93-96).

Un altro vantaggio della povertà consiste nella libertà personale che a sua volta è fonte di affidabilità, disponibilità e mobilità apostolica. Scrivono ancora i vescovi: «la leggerezza del bagaglio del presbitero è condizione di scioltezza interiore e strumento di libertà apostolica, rende guide affidabili agli occhi del popolo di Dio e interlocutori credibili anche per i lontani. Non da ultimo, assunta come stile disinteressato e con slancio missionario, la povertà evangelica rende maggiormente disponibile il presbitero a essere inviato là dove la sua opera è dal vescovo ritenuta più opportuna»[5].

Inoltre la povertà vissuta è spesso stimolo alla ricerca della fraternità, disponibilità a entrare nelle dinamiche della fraternità e in altre forme di vita comune che oggi soprattutto, mentre nascono necessariamente delle forme di unificazione, integrazione e collaborazione tra le parrocchie, stanno diventando più necessarie che in passato: «Uno stile di vita sobrio facilita anche forme di vita comune con altri preti: dalla valorizzazione di luoghi in cui insieme fruire di servizio essenziali – quali il pasto o la lavanderia – alla condivisione di esperienze e responsabilità pastorali»[6].

Ma una simile condivisione non sarà facile, se non crescerà lo spirito della povertà evangelica con il distacco dalle proprie vedute e con la capacità di dialogare con gli altri presbiteri e con i laici, e se questo spirito di partecipazione e condivisione non penetrerà nelle comunità cristiane chiamate a integrarsi in unità pastorali. Certo sarà difficile che tutto questo nasca e cresca, se non lo sente e non lo vive con convinzione e senso ecclesiale il prete.

Un prete che sceglie la povertà è una profezia vivente di voler vivere appoggiandosi non i poteri di questo mondo, ma alla forza della parola e alla grazia del Signore; perché la povertà è una scelta di fede, anzi è la misura della fede del prete, del suo abbandonarsi fiducioso nelle mani del suo Signore, essa fa vivere una vita gioiosa, perché non lascia spazio all’invidia, alla rabbia contro coloro che non sono poveri.

La sobrietà, pur sempre nell’ambito dei beni materiali, ha tante forme per attuarsi: in rapporto al cibo, al tempo libero, allo svago, all’abitazione, agli abiti, agli strumenti tecnologici, ecc.

Al riguardo mi pare assai interessante un brano della Lettera Pastorale dell’allora arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Battista Montini, Il cristiano e il benessere temporale (24 febbraio 1963). Egli inizia affermando la sua “competenza” e il suo “dovere” di “raccomandare la sobrietà nell’uso delle risorse economiche che la Provvidenza mette a nostra disposizione”.

E subito richiama il grande principio etico: “Non bisogna mai dimenticare il fine, a cui i beni temporali devono servire, e cioè alla vita onesta dell’uomo, non al suo orgoglio, o alla sua vanità o alla sua avarizia, non ai suoi piaceri fatui o viziosi”. E insieme l’Arcivescovo insiste sul loro “valore umano”: non bisogna mai “dimenticare il valore umano – di studio, di lavoro, di sofferenza, di bisogno altrui – contenuto nel denaro o nei beni disponibili, per saperli trattare con misura e quasi con riverenza e riconoscenza”.

Passa poi a segnalare alcuni significati della sobrietà nell’uso dei beni: “La semplicità, la parsimonia, la liberalità nell’uso dei beni temporali sono indici della superiorità dello spirito che viene a contatto con essi e dimostrano perciò la sua nobiltà ed il suo buongusto”.

Tutto questo riveste particolare valore in rapporto ai presbiteri: “Questa raccomandazione alla semplicità e alla austerità della vita e al distacco dal denaro, dagli agi superflui e da ogni vanitosa esteriorità noi vogliamo fare in modo particolare a noi stessi ecclesiastici: vi siamo più degli altri obbligati per i più stretti vincoli che a Cristo ci uniscono, per l’esempio che ogni altri si attende da noi, per l’efficacia che la nostra linea di povertà conferisce al nostro ministero, e per la sterilità che invece lo colpisce quando appare rivestito da qualche vanità o governato da qualche venalità”.

E considerando i beni non materiali, ma non per questo non meno importanti, vorrei ricordare la sobrietà nelle parole – da misurare e da rendere significative affinché nascano dal silenzio e dalla riflessione -; nell’esibizione di sé, laddove si tende a voler comparire ad ogni costo (si pensi all’ossessione di visibilità sui social) a pretendere di avere sempre un posto; nell’esercizio del potere, quando lo si accentra eccessivamente, senza condividerlo nelle dovute e opportune modalità. C’è anche una doverosa sobrietà pastorale per evitare il moltiplicarsi di strumenti, edifici, organismi, riunioni, programmazioni…

La nostra dovrà essere parola profetica anche nel nostro tempo, teatro di tante ingiustizie e di una insopportabile, scandalosa disparità di condizioni. Ma la nostra parola suonerà vuota, incoerente e controproducente, se le nostre condizioni di vita strideranno con quel messaggio evangelico che siamo chiamati ad annunciare e testimoniare (cfr. Pastores dabo vobis, 30).

Potere e affermazione di sé
Tentazione contro la povertà è quella che emerge già nel cap. 23 di Matteo dove Gesù denuncia il clericalismo ante-litteram di coloro che amano i primi posti e i titoli onorifici. Nella Chiesa indubbiamente logiche di potere e di affermazione di sé, di concorrenzialità e carrierismo non sono mai venute meno.

Insegne e vesti liturgiche, suppellettili liturgiche e arredi sacri, titoli ecclesiastici e simboli della dignità ecclesiastica stanno ritrovando una spiacevolissima ripresa e godono di un rinnovato e assai dubbio favore. Calzature e abiti, pizzi e merletti, mitre e pastorali preziosi e perfino lussuosi, sono di nuovo in voga con il pretesto che così si onora il Cristo.

Ma per quanto il calix debba essere praeclarus non si può dimenticare che il Cristo non smette di essere povero quando è celebrato liturgicamente. Ambrogio, il Crisostomo, Gerolamo e altri hanno parole di fuoco contro chi usa suppellettili preziose quando ci sono dei poveri che muoiono di fame e di freddo. Ambrogio esorta: “Non esitare a vendere i vasi sacri per soccorrere i miseri”.

È altresì fondamentale per testimoniare la povertà scindere in modo assoluto l’amministrazione dei sacramenti e le celebrazioni liturgiche, che tutte annunciano la gratuità di Dio in Gesù Cristo, dalla richiesta di pagamento è condizione essenziale per la verità di ciò che si celebra e per la credibilità stessa del celebrante. Lì emerge come la gratuità del ministero (“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”: Mt 10,8) non sia fatto semplicemente personale, ma ecclesiale.

Nella sessione del Concilio di Trento (traslato a Bologna) del 1547 circa la riforma dei sacramenti, si discusse sulla liceità o meno del petere (chiedere) e dell’accipere (ricevere): si poteva chiedere o anche solo ricevere qualche cosa in occasione dell’amministrazione dei sacramenti?

Se nessuno sosteneva la liceità del petere, le discussioni sull’accipere furono sottili, ma va ricordata la posizione di Seripando che voleva tagliare alla radice il problema definendo “eretico e sacrilego” ogni tintinnio di monete intorno all’altare e va ricordata l’espressione intrisa di zelo evangelico che affermava che ormai “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di oro e di argento”.

Gli atteggiamenti esteriori influenzano profondamente l’abito mentale, il cuore. Scrive p. Congar: “Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che siano dovuti, vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini, essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su di un piedistallo? È possibile sempre comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può, infine, trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?”.

Sappiamo dalla storia come la seconda fase dell’inculturazione del cristianesimo sia avvenuta a partire dal 313 d. C., quando è divenuta religione dell’Impero. Ed è proprio la liturgia a mostrare i segni di questo processo d’inculturazione, assimilando i segni del potere regale e temporale sia nei modi che negli abiti e negli oggetti liturgici. Gli abiti liturgici vengono mutuato dall’Impero.

Anche i titoli ecclesiastici sono ripresi dalle usanze imperiali romane e dal potere mondano. Sappiamo che il titolo di Eccellenza per il vescovo risale all’epoca fascista per non attribuirgli un onore inferiore a quello accordato da Mussolini ai suoi prefetti.

Già nel Concilio Vaticano II si era discusso su questi problemi. Vari vescovi, tra i quali Lercaro (allora vescovo di Bologna) e Herder Camara (presidente della Conferenza episcopale brasiliana e vescovo di Olinda e Recife), avevano cercato di proporre una riforma che abbandonasse in modo definitivo tutto ciò che allontana dal Vangelo e contraddice il suo annuncio[7]. Ritengo che una riforma efficace nella chiesa debba passare per l’abolizione dei titoli e la sobrietà delle vesti.

La povertà della Chiesa non la si valuta semplicemente in termini economici o di possedimenti di beni, ma anzitutto in termini di potere. Noi sappiamo che nei secoli XII-XIV il vocabolo pauper (povero) non si opponeva a dives (ricco), ma a potens (potente). Cioè, la ricchezza è un aspetto del potere. La povertà si configura così come rinuncia al potere e libertà dal potere. La povertà custodisce la libertà.

“Povertà è anche il franco e schietto riconoscimento delle diversità, delle pluralità di pareri, a volte anche della formazione di maggioranze e di minoranze. Se non si accetta la povertà, non si accetta la pluralità, e tanto meno il dissenso”[8].

Gestione dei beni
C’è ancora un altro aspetto della povertà di noi presbiteri che non possiamo tralasciare: è quello che riguarda la nostra responsabilità nel gestire i beni materiali che sono della Chiesa e che la Chiesa ci affida. E’ una responsabilità da condividere in spirito di comunione ecclesiale con altri, anzitutto con fedeli laici competenti e preparati, in particolare con i membri dei vari consigli per gli affari economici.

In concreto occorre praticare esemplarmente la giustizia nella gestione dei beni della Chiesa, trattandoli non come patrimonio personale, ma come beni, appunto, della Chiesa, dei quali dobbiamo rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri (cfr. Pastores dabo vobis, 30). Così come occorre garantire la trasparenza nella loro gestione. Di qui l’adeguata informazione da dare ai fedeli, il rendere conto coscienzioso e onesto agli organismi competenti, l’’attenzione alle esigenze della carità.

Come amministratori dei beni ecclesiastici, sia noi che i nostri collaboratori laici, siamo chiamati a destinarli esclusivamente ai fini che sono loro propri, indicati dal Concilio in questi tre: «l’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente in favore dei poveri» (Presbyterorum Ordinis, 17).

Solo così l’uso dei beni della Chiesa, specie nell’esigenza di una doverosa sobrietà, potrà garantire la credibilità e l’efficacia della nostra missione evangelizzatrice, come diceva Paolo VI: «L’indigenza della Chiesa, con la decorosa semplicità delle sue forme è un attestato di fedeltà evangelica, è la condizione, talvolta indispensabile, per dare credito alla propria missione, è un esercizio talvolta sovrumano di quella libertà di spirito, rispetto ai vincoli della ricchezza, che accresce la forza della missione dell’apostolato» (24 agosto 1968).

La trasparenza dei conti, la pubblicità dei bilanci in una parrocchia, la correttezza amministrativa, la regolarità fiscale, la destinazione di una somma per poveri o chiese povere, sono alcuni elementi che concorrono a quella trasparenza che lascia al presbitero la limpidezza di coscienza e impedisce la diffidenza o le accuse, ben sapendo che sul tema del rapporto con il denaro la chiesa gioca molta della sua credibilità presso le persone.

Non dimentichiamo, inoltre, che siamo in un sistema di delega allo Stato del mantenimento della Chiesa (8 per mille): assumere direttamente la consapevolezza che è il “noi” ecclesiale soggetto e responsabile della chiesa, non potrebbe che fare del bene.

È auspicabile che la condivisione dei beni divenga «forma abituale nella comunità cristiana. Le parrocchie ricche aiutino quelle povere e in difficoltà. In ogni diocesi ci sono parrocchie in equilibrio, altre che godono di una certa abbondanza di risorse; altre invece in difficoltà anche gravi, come quelle che si trovano in contesti poveri. È necessario pensare a forme e strumenti di condivisione tra parrocchie (e altri enti)» secondo la logica della perequazione dei beni. È necessario educare l’intera comunità a un «sentire condiviso» in materia di beni economici.

Non dimentichiamo il monito del vescovo servo di Dio don Tonino Bello, “Non è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopo una trafila di studi, cioè. Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi. Quella della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile” (da “Luce e Vita”, 17 maggio 1992).

Mi piace concludere queste mie considerazioni riportando la conclusione formulata nei termini di una preghiera rivolta al santo di Assisi dall’arcivescovo Montini (San Paolo VI) al pellegrinaggio lombardo alla tomba di san Francesco:

“Ecco, allora, Francesco, che la Tua Povertà ci diventa amica e maestra. Ecco che ammonisce coloro che mettono nei beni economici le loro somme speranze a mirare più in alto, a svincolare il cuore dall’amore delle cose terrene, e a saperle considerare come buone, solo quando ci sono scala per salire le vie dello spirito e ci sono specchio per riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza di Dio; come Tu, Povero, le hai viste, alla fine, cantandole, come libero poeta, nel Tuo cantico delle creature. Così insegnaci, così aiutaci, Francesco, ad essere poveri, cioè liberi, staccati e signori, nella ricerca e nell’uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani…” (4 ottobre 1958).

Insieme, laici e presbiteri, impariamo che la terra non è nostra ma di tutti. Abbiamo abusato del creato perché diventasse denaro e merce. Se la vita religiosa fosse essenziale nei rapporti e sobria nelle scelte, dalla parte di coloro che ancora vogliono prendersi cura di un pezzo di terra, sarebbe possibile per i consacrati (presbiteri e religiosi) proporre uno stile esistenziale alternativo: la missione è questa, testimoniare concretamente l’intensità del rapporto con Dio.

Non bisogna essere tutti francescani per capire che in questo momento storico dobbiamo cambiare la relazione con le cose e la natura, renderla più gentile, meno prepotente e invadente. Questa è l’umiltà di stare nella storia: imparare a muoverci in questo deserto abitato con normalità, gioia e disponibilità. Perché la vita si salva se siamo davvero sobri e solidali.

[1] Cfr. E. Castellucci, Presbyterorum ordinis. Introduzione e commento, in S. Noceti – R. Repole (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II 4. Christus Domini, Optatam totius, Presbyterorum ordinis, Dehoniane, Bologna, 2017, p. 459.

[2] Ivi, p. 460.

[3] Cfr. A. Zambon, Il consiglio evangelico della povertà nel ministero e nella vita del presbitero diocesano, PUG, Roma 2022.

[4] CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, p. 40.

[5] CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, p. 17.

[6] Ivi, p. 18.

[7] Cfr. X. Pikaza – J. Antunes da Silva (a cura di), Il patto delle catacombe. La missione dei poveri nella Chiesa, EMI, Bologna 2015.

[8] G. Campanini, Povertà della chiesa, povertà nella chiesa, in VC, 2/2011, p. 101.

Le povertà che «interrogano» la Chiesa

Pubblichiamo un passaggio del nuovo libro dell’arcivescovo Erio Castellucci, «Benedetta povertà? Provocazioni su Chiesa e denaro» (Emi, 2020).

DI ERIO CASTELLUCCI *

Il futuro della fede cristiana è legato anche alla capacità delle comunità cristiane di dare corpo al sogno di Gesù, il sogno del regno di Dio. Le intuizioni e le provocazioni devono diventare educazione, pena l’insignificanza del cristianesimo. Mi sembra che oggi le nostre comunità si giochino la loro forza profetica soprattutto in questo campo, nella relazione con i beni. È indispensabile prima di tutto intensificare l’opera formativa a partire dai ragazzi e dai giovani, integrando questi argomenti nel normale itinerario dell’iniziazione cristiana e della catechesi. I percorsi sull’educazione affettiva e quelli sull’educazione economica ed ecologica procedono di pari passo, perché non sono altro che dimensioni del medesimo stile di dono e condivisione, reciprocità e gratuità. La catechesi cristiana non può ignorare l’atteg-giamento evangelico che sta alla base di entrambe le braccia dell’etica, quella cosiddetta individuale e quella sociale: distinzione che ormai dovrebbe peraltro essere superata, perché è «sociale» anche l’educazione sessuale ed è «individuale » anche l’educazione economica ed ecologica. Il rispetto per la vita nascente e morente va di pari passo con il rispetto per la vita emarginata e indigente; la pace e la nonviolenza nelle relazioni tra l’uomo e la donna vanno di pari passo con la pace nelle relazioni sociali e internazionali; la castità – cioè il rispetto dell’altro e il rifiuto dello sfruttamento – nelle relazioni sessuali va di pari passo con la castità nelle relazioni sociali, etniche, ambientali e interreligiose.

Una delle esperienze pastoralmente più dolorose è vedere le nostre comunità cristiane divise su ciò che dovrebbe rimanere unito, anzi profondamente intrecciato. Mi colpiva, prima come parroco e ora come vescovo, registrare nel popolo di Dio – e anche in noi ministri – una sorta di frattura verticale tra chi porta avanti i valori della persona e della famiglia, e chi invece i valori della società e dell’ambiente naturale. È proprio questo «invece» il problema. Se siamo davvero cattolici, non possiamo adottare l’aut– aut ma l’et– et. Finché la Veglia per la pace sarà di sinistra, e rigorosamente frequentata dai soli cattolici «progressisti», e la Veglia per la vita sarà di destra, e riservata di fatto ai cattolici «tradizionalisti », la Chiesa sarà divisa. Finché la Giornata del creato sarà di sinistra e la Giornata della famiglia di destra, continueremo a farci del male a vicenda.

 Una cosa è la maggiore sensibilità per l’una o l’altra dimensione etica cristiana – sensibilità che dipende dalle storie personali e dalle sfide della storia –, un’altra è l’assolutizzazione di una sola dimensione, trasformando inevitabilmente l’appartenenza cattolica in una battaglia «contro» altri cattolici.

Nemmeno questo stupisce, perché fin dai tempi di san Paolo le comunità erano divise, come dimostrano i partiti di Corinto (cfr. 1Cor 1,12); se non stupisce, però addolora.

La divisione toglie forza interiore all’evangelizzazione.

«Tutto è connesso», «tutto è in relazione », in una sorta di universale fraternità, come ripete la Laudato si’: relazione con Dio, sessualità, famiglia, poveri, giustizia, lavoro, pace, custodia del creato… Sono temi trasversali e interagenti. Nello specifico, la formazione riguardante l’economia implicherà anche doveri e divieti: i doveri derivanti da un uso casto dei beni, che sono sempre mezzi e mai fini, e dalla necessità di una loro condivisione, del controllo dei propri investimenti perché non favoriscano commerci illeciti e immorali come quello delle armi, il divieto della speculazione e del gioco d’azzardo, il dovere di pagare le tasse, il dovere del rispetto per il creato, insieme a una visione critica della cosiddetta meritocrazia, del «dio incentivo», del dogma dell’efficienza, produttività, redditività e competitività, i quali producono «gli scarti»; per affermare invece la cultura dell’onestà, del dono e della misericordia, che fa spazio anche a coloro che non sono vincenti e non sono in grado di competere.

Competitività, profitto, competenza: queste parole, che insieme formano il concetto di meritocrazia, non sono certo inique, ma lo diventano quando risuonano avulse dal contesto concreto. Una certa dose di competitività è necessaria e favorisce la qualità; il profitto, quando è proporzionato al lavoro, ne rappresenta un elemento di dignità, perché «l’operaio è degno del suo salario» (Lc 10,7); la competenza, che fa leva sui talenti di ciascuno, è essenziale per un’equa e ordinata distribuzione ed efficacia del lavoro. Il problema sorge quando queste parole diventano discriminatorie verso coloro che non sono in condizioni di competere, non godono di alcun profitto e non hanno i mezzi per sviluppare i loro talenti. «Il merito può svolgere un buon compito in una società già giusta, ma nelle società ancora non giuste (e sono quelle reali), la meritocrazia, il governo del merito, amplifica le ingiustizie». Ed è proprio la fraternità, della quale tratteremo nel capitolo seguente, a fare da ponte tra una povertà da combattere e una povertà da riscattare.

Come scrive Edgar Morin: «La fraternità infrange la legge di qualunque regime che comporti discriminazione e oppressione ».

Erio Castellucci

il messaggio

«Tutto è connesso, in una sorta di universale fraternità, come dice la Laudato si’: relazione con Dio, sessualità, famiglia, poveri, giustizia, lavoro, pace, custodia del Creato»

S. Francesco d’Assisi che confeziona il saio francescano, simbolo di povertà volontaria, rappresentato in una miniatura medioevale

L’arcivescovo Erio Castellucci

Un mendicante (foto Agensir)

Sostegno a famiglie e persone in difficoltà economica a causa dell’emergenza in atto

Unità Pastorale Santi Crisanto e Daria
Comunità parrocchiale S. Stefano e S. Zenone

CONDIVISIONE

Accogliendo l’invito del Vescovo a sostenere le famiglie
e le persone in difficoltà economica a causa dell’emergenza in atto,  la nostra parrocchia donerà 1000 euro al Fondo “S. Carlo Borromeo”,  istituito dal Vescovo per l’emergenza Covid-19,  che sarà messo a disposizione della Caritas.
E 1000 euro al Centro di Ascolto delle Povertà del Centro Storico  per continuare ad accompagnare le famiglie del nostro territorio.
Tutti coloro che desiderano prendere parte a questo gesto di condivisione comunitario possono versare il loro contributo sul conto corrente della parrocchia

IBAN IT78Y0503412898000000004385

intestato a Parrocchia S. Giovanni Evangelista in Santo Stefano

Grazie a tutti e buon cammino in questo Tempo Pasquale.

Caritas: povertà in aumento nella Capitale

Italia

RomaSette

Disparità di reddito, povertà, invecchiamento, dipendenze. Fattori in forte crescita a Roma. Dall’istantanea scattata dalla Caritas diocesana emerge una Capitale sempre più fragile, nella quale la povertà assume aspetti anche imprevedibili. Non solo disoccupazione, dipendenze, redditi esigui e disomogenei, disturbi mentali ma anche forme di “barbonismo domestico”, anziani soli che trasformano le proprie abitazioni in luoghi di accumulo con gravi conseguenze igienico sanitarie.

Una persona su quattro in Italia sono a rischio povertà ed esclusione sociale

L’Istat stima che sia coinvolto il 28,3% della popolazione nel 2014, percentuale in linea con quella dell’anno precedente.

Restano un lusso le ferie, che una famiglia su due non può permettersi nemmeno per una settimana, e per tanti è impossibile anche solo riscaldare casa o fare un pasto adeguato ogni due giorni. Sono in questa situazione 6 milioni di persone, secondo la Coldiretti.

In Europa il rischio medio è inferiore a quello italiano di quasi quattro punti (24,4%), e fanno peggio dell’Italia solo la Grecia e alcuni paesi dell’Est. In questo contesto di pesanti difficoltà, non mancano però alcuni passi avanti.

Le persone con maggiori problemi economici – l’Istat parla di “grave deprivazione materiale” – calano per il secondo anno consecutivo fino 11,6%, la quota più bassa dal 2011. E ci sono progressi anche al Sud, dove il rischio di povertà o esclusione sociale passa dal 46,4% del 2013 al 45,6%, pur continuando a colpire più di quattro persone su dieci. La distanza del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese rimane ampia. Le persone in grave deprivazione al Sud sono più del doppio rispetto al Nord Italia (il 19,9% contro il 7,1%).

Inoltre sette abitanti su dieci nelle regioni meridionali non possono permettersi una settimana di ferie e uno su due non riesce ad affrontare una spesa imprevista di 800 euro (il 52,5% rispetto a una media nazionale del 38,8%). Difficoltà molto superiori alla media contraddistinguono anche i genitori single e le famiglie con tre o più figli, categorie nelle quali il rischio di povertà o emarginazione supera il 39%. Rispetto al 2013 la situazione è in miglioramento per le famiglie numerose, mentre si aggrava per i monogenitori. Sono particolarmente esposte anche le persone sole (con un rischio del 31,5%), mentre le famiglie più solide economicamente risultano le coppie senza figli, soprattutto se di 65 anni o più (che hanno un rischio del 14,1%).

L’Istat presenta anche un’analisi sui redditi netti relativi al 2013. Ne emerge che una famiglia su due non supera 2mila euro circa al mese, 24.310 euro l’anno. Il reddito mediano più alto è al Nord (27.089 euro), mentre nel Mezzogiorno il livello è pari al 75% di quello settentrionale e nell’Italia centrale al 95%. Infine il 20% più ricco delle famiglie accumula il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo il 7,7%.

“La lotta alla povertà rappresenta, per noi, un impegno concreto che abbiamo già avviato e che porteremo avanti e rafforzeremo nei prossimi anni”, ha affermato il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, commentando i dati Istat, relativi al 2014.

Questi dati “evidenziano, sotto il profilo del rischio di povertà e di esclusione sociale, una situazione sostanzialmente stabile rispetto al 2013 e, pur con una diminuzione delle persone in condizioni di grave deprivazione, comunque inaccettabile e da affrontare rapidamente e in modo stabile”, ha proseguito il ministro in una nota, sottolineando che è “a partire da questa evidenza che il Governo ha attivato una politica complessiva e articolata che vede come pilastro fondamentale la definizione di un Piano nazionale per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale”, sostenuto da “un Fondo dedicato con una dotazione di 600 milioni per il 2016 e di 1 miliardo a decorrere dal 2017”.

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