Abuso di potere nella Chiesa

di: Domenico Marrone

Il tema dell’abuso di coscienza e di potere fu evidenziato da papa Francesco sia nella Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018 sia nell’incontro del successivo 25 agosto, durante il viaggio in Irlanda, con un gruppo di gesuiti, ha ribadito in modo simile che «l’elitismo, il clericalismo favoriscono ogni forma di abuso. E l’abuso sessuale non è il primo. Il primo è l’abuso di potere e di coscienza»[1].

Anche il motu proprio Vos estis lux mudi ha voluto includere l’abuso di autorità tra le circostanze che rendono punibile il comportamento di cui all’art. 1 §1 a)i, che parzialmente si richiama al can. 1395 §2 CIC.

La Chiesa si è a più riprese occupata del tema degli abusi, anche in tempi recenti, sia a livello di riflessione che di provvedimenti e protocolli operativi[2]. Tuttavia la rilevanza del tema ha riguardato per lo più gli abusi sessuali e psicologici nei confronti di minori da parte di ministri della Chiesa, soprattutto presbiteri. Si tratta di aspetti indubbiamente preponderanti, ma non certamente esaustivi. Un tema che non ha avuto finora sufficiente attenzione è l’abuso di potere e di coscienza.

Il tema dell’abuso spirituale non è nuovo, anche se la parola è nuova. Ci sono testi su di esso nella tradizione. Ma forse è anche vero che la nostra sensibilità oggi è maggiore. Probabilmente è cresciuta come risultato della riflessione sull’abuso sessuale, e molto di ciò che abbiamo imparato lì può essere applicato alle dinamiche in comunità e anche alla Chiesa come tale.

«L’abuso appartiene sempre a un processo di corruzione e trasformazione dell’autorità legittima in una dinamica perversa di potere, supremazia, dominio, di possesso nei confronti di una o più persone che si trovano in una situazione di vulnerabilità esistenziale e di dipendenza»[3].

A proposito di vulnerabili
I documenti civili ed ecclesiastici utilizzano le espressioni “persone vulnerabili” o “adulti vulnerabili” per indicare un particolare gruppo di persone che, a causa dell’età, della malattia o della disabilità, non sono in grado di prendersi cura di se stesse. In effetti, i documenti ecclesiastici parlano della protezione dei minori e delle “persone vulnerabili” (Francesco 2019a).

La lettera apostolica Vos estis lux mundi ha fornito la seguente definizione: «Per persona vulnerabile si intende qualsiasi persona che si trovi in uno stato di infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che, di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere e di volere o comunque di resistere all’offesa» (Francesco 2019b, art. 1, §2 b).

Questa definizione, che corrisponde a quella che viene definita «vulnerabilità speciale» (UNESCO 2005), si differenzia dalla “vulnerabilità radicale” in quanto indica una condizione umana comune[4]. Se non si tiene conto di questa differenza, l’espressione “persone vulnerabili” potrebbe suggerire che solo un gruppo speciale di persone sia suscettibile di abuso, mentre tutti gli altri adulti sono al sicuro.

È necessario, quindi, tenere conto della distinzione tra vulnerabilità speciale e radicale o generale. Da un punto di vista antropologico, la vulnerabilità radicale rientra nella condizione umana. Non è una carenza di un determinato gruppo, ma una caratteristica comune degli esseri umani. Deriva dal termine latino vulnus (ferita). La vulnerabilità è una possibilità, non un fatto[5]; indica la possibilità di essere feriti.

Pertanto, la vulnerabilità radicale indica la capacità di essere esposti agli altri, mentre essere esposti agli altri implica la possibilità di essere feriti. La vulnerabilità «espone gli esseri umani all’essere benedetti e feriti, al bene e al male»[6].

L’apertura agli altri implica sempre un rischio. Per questo motivo, la vulnerabilità, in quanto tale, non è una carenza. Essere ricettivi e, quindi, vulnerabili, è una condizione necessaria per un’autentica vita umana. Intesa in questo modo, la vulnerabilità radicale rende possibile l’autentico sviluppo della vita umana nell’incontro con gli altri.

Nel contesto cristiano, la vulnerabilità è una condizione per il discepolato. Chi non è aperto e colpito dalla chiamata di Gesù non è in grado di seguirlo. I discepoli devono essere aperti per essere colpiti. Infatti, Ignazio di Loyola elogia coloro che sono disposti a essere colpiti, «los que más se querrán affectar»[7]. Ancora una volta, la capacità di essere colpiti, cioè la vulnerabilità, non è un’imperfezione ma una condizione necessaria del discepolato. L’apertura agli altri rende possibile l’abuso spirituale; pertanto, le persone generose sono più a rischio[8].

Di conseguenza, l’abuso spirituale può avvenire a causa dell’apertura umana agli altri, non per una sorta di carenza da parte delle vittime. Questa conclusione rifiuta il principio sbagliato che postula che ciò che rende possibile l’abuso sono alcune caratteristiche delle persone che lo subiscono.

Nella cultura cattolica, l’aspetto istituzionale è cruciale al punto da garantire l’autorità anche di leader che non hanno qualità carismatiche. Ad esempio, i ministri ordinati e i superiori nominati hanno un’autorità riconosciuta nella Chiesa, indipendentemente dalle loro qualità personali. Questa autorità istituzionale può certamente aumentare in virtù dei doni carismatici dei leader, ma il supporto istituzionale è sufficiente a sostenere la loro autorità.

Inoltre, poiché la fede cristiana non è individualista, l’insegnamento cattolico invita il credente ad ascoltare la voce di Dio attraverso la mediazione ecclesiastica. In quanto parte del popolo di Dio, i credenti sono chiamati a vivere la loro fede e ad ascoltare la voce di Dio attraverso la Chiesa.

Alle radici del comportamento abusante
Se si volesse andare alla radice della dinamica del comportamento abusivo, penso che potremmo risalire all’antica e sempre attuale tentazione del “sarete come Dio”. In altre parole, nella dinamica dell’abuso il ministro sacro “si fa come Dio”, perché appare come il “protagonista” che possiede doni, visioni, capacità e personalità che sostituendosi e prendendo il posto di Gesù come modello, e dello Spirito Santo come “datore di vita”: è una tentazione subdola ma reale che, prendendo spunto dall’identificazione sacramentale con Cristo sacerdote, è un possibile sbocco dell’inclinazione narcisista più o meno presente in tutti[9].

Punto di partenza è dato ovviamente dalle pagine evangeliche in cui non soltanto si descrive la figura del buon pastore, che dà la vita per le pecore a differenza del mercenario, ma soprattutto si presenta la dimensione del servizio di chi è chiamato in una posizione di “preminenza”: «Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,42-45).

Non è soltanto un atteggiamento interiore ma si manifesta in modi di agire che evidenziano l’autentico servizio. Sono espressioni applicabili direttamente all’esercizio del governo che abbracciano però tutta la dimensione “ministeriale”, dal momento che anche l’attività di governo è esercitata per un fine spirituale. E non è soprattutto un mestiere o una tecnica da imparare ma un’identità ministeriale da vivere nella progressiva unione con Cristo Pastore.

La riflessione conciliare sulla Chiesa ha voluto ribadire in modo particolare questa dimensione ministeriale sottolineando che, in certo senso, proprio chi è maggiormente rivestito di autorità ha uno speciale ruolo di servizio: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri, infatti, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza»[10].

Sulla stessa linea si muovono sia la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges con cui è stato promulgato il Codice di Diritto Canonico del 1983 sia il Catechismo della Chiesa cattolica che, al n. 876, afferma: «Alla natura sacramentale del ministero ecclesiale è intrinsecamente legato il carattere di servizio. I ministri, infatti, in quanto dipendono interamente da Cristo, il quale conferisce missione e autorità, sono veramente “servi di Cristo” (Rm 1,1), ad immagine di lui che ha assunto liberamente per noi “la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché la parola e la grazia di cui sono i ministri non sono loro, ma di Cristo che le ha loro affidate per gli altri, essi si faranno liberamente servi di tutti».

L’abuso spirituale
Cos’è l’abuso spirituale? Non c’è ancora una definizione precisa, che metta tutti d’accordo. Per il momento, propongo come definizione di lavoro: l’abuso spirituale è un termine collettivo o, come si dice nel mondo anglosassone, un “termine ombrello”, per varie forme di abuso emotivo e/o di potere nel contesto della vita spirituale, religiosa.

L’abuso di coscienza, o abuso spirituale, può verificarsi in qualsiasi religione o comunità di fede; tuttavia, assume caratteristiche, dinamiche e strategie diverse a seconda degli specifici contesti istituzionali in cui si verifica; pertanto, sebbene non sia un fenomeno esclusivo del cristianesimo, vale la pena studiarlo nel contesto cristiano.

Nella Chiesa cattolica, l’abuso spirituale è caratterizzato da alcuni elementi istituzionali specifici: in particolare le congregazioni religiose, il magistero universale, il diritto canonico, i voti di obbedienza, l’infallibilità papale e l’efficacia dei sacramenti; pertanto, l’abuso spirituale nel contesto cattolico merita un’analisi specifica.

Il primo problema legato alla definizione di questo fenomeno è il suo stesso nome. Il nome più comune per questo fenomeno è “abuso spirituale”, ma alcuni autori parlano di “abuso di potere spirituale” o “abuso religioso”, mentre altri usano l’espressione “abuso di coscienza”, soprattutto in ambito cattolico.

A mio avviso, “abuso spirituale”, “abuso di potere spirituale” e “abuso religioso” sono quasi sinonimi, mentre “abuso di coscienza” è un tipo leggermente più specifico di abuso spirituale che danneggia la coscienza del credente[11].

Il secondo problema è quello della definizione stessa. Come si definisce l’abuso spirituale? Quali sono le sue caratteristiche essenziali? Il libro pionieristico su questo tema è quello di Johnson e VanVonderen intitolato The Subtle Power of Spiritual Abuse (Johnson e VanVonderen 1991). In esso gli autori affermano che «l’abuso spirituale è il maltrattamento di una persona che ha bisogno di aiuto, di sostegno o di un maggiore potere spirituale, con il risultato di indebolire, minare o diminuire il potere spirituale di quella persona»[12].

Inoltre, gli stessi autori hanno fornito una descrizione: «L’abuso spirituale può verificarsi quando un leader usa la sua posizione spirituale per controllare o dominare un’altra persona. Spesso si tratta della prevaricazione dei sentimenti e delle opinioni di un’altra persona, senza tener conto di ciò che ne risulterà per il suo stato di vita, le sue emozioni o il suo benessere spirituale»[13].

«L’abuso spirituale si verifica quando un leader con autorità spirituale usa tale autorità per costringere, controllare o sfruttare un seguace, causando così ferite spirituali»[14].

Queste definizioni si concentrano su tre elementi: l’abuso dell’autorità spirituale, l’atto di approfittare di un seguace e il danno che ne deriva per la vittima. Un breve libro pubblicato nel 1994 lo descrive come segue: «Con l’abuso spirituale intendo la negazione della libertà spirituale che si attua quando si dice a una persona che c’è una sola strada per arrivare a Dio»[15]. Sebbene questa definizione sia piuttosto generica, evidenzia un tema centrale: la perdita della libertà.

L’abuso spirituale ruota intorno al potere. L’abuso non è una conseguenza del potere, ma del suo cattivo uso. La prima caratteristica dell’abuso spirituale è la violazione dei confini. La violazione dei confini spirituali viola la privacy della persona. La persona perde lo spazio protettivo che la sua dignità merita. Qui avvengono le cose più intime della vita spirituale. Le aree del forum internum e del forum externum, che dal diritto canonico sono strettamente separate, si confondono. In questo contesto l’obbedienza diventa uno strumento di potere e di dominio.

Tra la violazione dei confini e la proibizione del contatto, c’è uno spazio di mancanza di libertà, quello che Erving Goffmann chiama “l’istituzione totale” e che viene spesso citato insieme ai pensieri di Robert Lifton sul “lavaggio del cervello” o “controllo del pensiero”. La leadership è perfetta, illuminata da Dio (più o meno direttamente), quindi inattaccabile. Chiunque abbia un problema viene trasformato in un problema.

Ambito di governo e ambito della coscienza: una distinzione necessaria
Un aspetto particolarmente rilevante per il nostro tema, riguarda una distinzione fondamentale: quella tra ambito di governo e ambito della coscienza.

Per tutelare la piena libertà interiore e proteggere lo spazio sacro della coscienza, la Chiesa ha sempre promosso una netta distinzione tra foro interno e foro esterno, tra ambito della coscienza e ambito di governo. La commistione di questi ambiti è stata infatti, sovente, causa di gravi abusi di potere da parte dell’autorità religiosa.

In ambito ecclesiale è bene tenere sempre come orizzonte ultimo e irrinunciabile il rispetto della dignità della persona nella sua individualità.

Sarà opportuno vigilare sul concetto di “comunione” che non di rado viene interpretato in modo ideologico come un agire in unità perfetta di intenti e in una unanimità di scelte, provocando così l’annullamento dell’individuo in favore della comunità.

Questa “diluizione” dell’individuo nel tutto ha portato, in diverse occasioni, a considerare facilmente sacrificabili il benessere e i diritti della persona in favore degli interessi dell’istituzione. La comunione dovrebbe invece, manifestarsi nei diversi contesti quale segno della comunione ecclesiale che è analoga a quella di un corpo vivo e operante, caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità[16].

Caratteristiche del sistema abusante
Fonti principali dell’abuso due fattori: una personalità manipolatrice (solitamente di chi ha il compito di guida), e un sistema abusivo che appartiene alla struttura stessa e alle regole e alle consuetudini di un’istituzione.

Gli aspetti che caratterizzano questo sistema sono la manipolazione delle coscienze, che viene conseguita attraverso la violazione dell’intimità della persona e l’instaurazione di rapporti di soggezione totale, e la riorganizzazione della vita individuale e comunitaria affinché tutto, assolutamente tutto, venga ricondotto e affidato a chi riveste l’autorità. Questo sistema, evidentemente, ha effetti devastanti sulla libertà della persona.

Questo apparato di manipolazione, tanto subdolo quanto efficace, spinge la persona a fidarsi unicamente di “uno”[17], a consegnarsi completamente in una relazione che diviene progressivamente, attraverso calcolati abusi di potere e di coscienza, una gabbia da cui è impossibile uscire: le vittime sono condizionate a tal punto da divenire incapaci di reagire e di assumere qualsiasi decisione autonomamente.

Le aree più colpite dal virus dell’abuso sono due:

l’area relazionale, dove emergevano sintomi problematici nella vita fraterna e comunitaria, quali incapacità a instaurare relazioni sincere e trasparenti, attitudine generalizzata alla menzogna o a nascondere la verità, sfiducia reciproca, mancanza di rispetto, giochi di alleanze, interpretazioni soggettive dei comportamenti altrui e tendenza perenne al sospetto;
l’area della gestione dell’autorità, dove emerge un diffuso pregiudizio nei confronti dell’autorità che provocava atteggiamenti di distanza, di timore o di contrapposizione ostinata verso chiunque avesse responsabilità di governo.
Alla luce di quanto evidenziato, è chiaro che risulta molto difficile se non impossibile, che un sistema abusivo venga risanato senza un intervento esterno. La presa di coscienza di questa difficoltà, ha suscitato una seria riflessione sul concetto di vigilanza nella Chiesa. È indispensabile un’attenzione costante sui mezzi, le norme, gli stili di governo, le consuetudini nella vita comunitaria e nella gestione dell’autorità, e deve implicare anche il grave dovere di intervenire tempestivamente, qualora vengano individuati elementi di corruzione nel sistema o l’uso di strumenti abusanti.

Quali gli elementi su cui è bene che l’autorità ecclesiastica vigili per non incorrere in comportamenti abusanti?

Un primo elemento è il rispetto della libertà individuale. Nessun fine, seppur lodevole, può giustificare la predisposizione di strumenti e prassi che potrebbero ledere in qualsiasi modo la dignità personale o il diritto di autodeterminazione. L’adesione a un carisma e l’ammissione in una realtà ecclesiale è la risposta libera e volontaria a una chiamata divina, e tale adesione non annulla mai la libertà personale e, di conseguenza, la responsabilità individuale. Laddove non si promuove la responsabilità personale, non si contribuisce alla salvezza delle anime, poiché l’uomo – insegna la Chiesa – può volgersi al bene solo nella libertà[18].

Un secondo elemento è la tutela dello spazio della coscienza. A tal riguardo il diritto è molto chiaro. Il Codice di Diritto Canonico dispone: «Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità» (can. 220). La difesa dell’intimità sancita da questo canone, da una parte, determina il divieto di imporre a chiunque l’apertura dell’animo e la condivisione della propria intimità, dall’altra, obbliga seriamente al segreto tutti coloro che vengono a conoscenza di aspetti e questioni che fanno parte dell’ambito della coscienza di un fratello.

Dall’imposizione di questo vincolo si deduce chiaramente che non è accettabile obbligare, tramite norme e regolamenti, l’apertura della coscienza ad alcuno né tantomeno risulta ammissibile mettere in comune quanto accolto in confidenza, per un malinteso senso di comunione. Purtroppo dobbiamo constatare che in non poche realtà ecclesiali la normativa ha facilitato varie forme di invasione della coscienza e dell’intimità dell’altro, innescando in vari casi abusi con esiti molto gravi a vari livelli soprattutto laddove viene regolamentata la manifestazione della coscienza ai superiori.

Per questo la Chiesa ha sempre promosso una netta distinzione tra foro interno e foro esterno, tra ambito della coscienza e ambito di governo. Proprio la commistione di questi ambiti, infatti, risulta essere una delle caratteristiche principali di un sistema abusivo giacché implica la riorganizzazione della vita delle persone affinché tutti gli aspetti della vita esteriore e interiore vengano consegnati nelle mani di chi ha il compito di governare.

Purtroppo, la cultura cattolica tende spesso ad assolutizzare la mediazione ecclesiastica e a dimenticare che essa deve interagire con altre mediazioni, soprattutto con quella della coscienza personale[19].

Cosa succede quando questa autorità spirituale sostenuta dalla Chiesa viene usata male? In che misura la Chiesa è parte dell’abuso spirituale?

Per quanto riguarda la più ampia crisi degli abusi sessuali, dell’abuso di potere e dell’abuso di coscienza, i vescovi francesi hanno dichiarato di «riconoscere la responsabilità istituzionale della Chiesa per la violenza subita da così tante vittime»[20]. I vescovi cileni hanno invece sottolineato che la responsabilità dell’abuso è degli autori[21]; tuttavia, poiché l’abuso spirituale consiste nell’uso improprio di un’autorità spirituale che, in ambito cattolico, è sempre sostenuta dalla Chiesa, non è mai una questione tra due individui, ma implica sempre una responsabilità ecclesiastica.

Ai fedeli viene insegnato a fidarsi della Chiesa e dei suoi rappresentanti. Frasi come “chi obbedisce non sbaglia” o “la voce del vescovo è la voce di Dio” sono frequenti nella cultura cattolica[22].

Narcisismo, egoismo, clericalismo, personalità manipolativa, egocentrismo e altre caratteristiche sono presentate come attributi chiave[23].

Esistono anche sistemi abusanti nella Chiesa. Ci sono istituzioni, comunità, statuti e culture cattoliche che facilitano gli abusi[24]. La cultura cattolica tende ad assolutizzare l’autorità spirituale dei suoi rappresentanti e dei suoi insegnamenti. Identificare la voce dei rappresentanti ecclesiali con quella di Dio o l’insegnamento ordinario della Chiesa con quello di Dio è un abuso.

Ad esempio, in un ambiente ecclesiale che professa un’idea rigida di obbedienza, anche se il superiore non è mosso da egoismo, può abusare della sua autorità spirituale e danneggiare gravemente i suoi sudditi. In questo caso, dietro l’abuso spirituale non c’è un individuo perverso, ma un sistema abusante. Non ci sono solo individui abusanti, ma anche strutture, pratiche, istituzioni e insegnamenti abusanti. In sintesi, l’abuso spirituale può essere causato sia da individui sia da sistemi abusanti.

[1] Cf. La Civiltà Cattolica, 4038, 449.

[2] Cf. F. Lombardi, «Verso l’incontro dei vescovi sulla protezione dei minori», in Civ. Catt. 2018 IV 532-548; Id., «Dopo l’incontro su “La protezione dei minori nella Chiesa”», ivi 2019 II 60-73; Id., «Protezione dei minori. I passi avanti del Papa dopo l’incontro di febbraio 2019», ivi 2020 I 155-166; e, infine, il volume monografico Abusi, della collana «Accènti» de La Civiltà Cattolica (giugno 2018). Per un inquadramento generale, cf. G. Cucci – H. Zollner, Chiesa e pedofilia. Una ferita aperta. Un approccio psicologico-pastorale, Àncora, Milano 2010.

[3] A. Cencini, A. Deodato, G. Ugolini, “Abusi nella Chiesa, un problema di tutti. Oltre una lettura difensiva o riduttiva” in: La rivista del clero italiano, 2019 – 4, pp. 254-255.

[4] Cf. Montero, Orphanopoulos Carolina. 2022. Vulnerabilidad. Hacia una Ética Más Humana. Madrid: Dykinson.

[5] Cf. Ivi.

[6] Langberg, Diane. 2020. Redeeming Power: Understanding Authority and Abuse in the Church. Grand Rapids: Brazos Press, p. 19.

[7] Ignatius of Loyola. 1985. Ejercicios Espirituales. Introducción, Texto, notas y Vocabulario por Cándido de Dalmases. Santander: Sal Terrae, n. 97.

[8] Lannegrace, Anne 2018. “Dérives sectaires et abus de pouvoir, une approche psychologique”. In Dérives Sectaires Dans Des Communautés Catholiques. Edited by Conférence des Évêques de France. Paris: Secrétariat general de la Conférence des évêques de France, pp. 35–57.

[9] A volte alcuni assolvono l’esercizio del proprio potere, nelle proprie “facoltà di e su”, sicuramente con carisma; alcuni con forza e violenza, o per tratti caratteriali propriamente di orgoglio o per copertura compensatoria di un Io fragile, lì dove la delirante grandiosità del Sé aveva ancor più bisogno di adulazione e di assoggettamento sociale. Secondo le teorizzazione psicoanalitiche sull’origine e l’evoluzione, con annesse eventuali forme patologiche del Sé, (e qui si veda Helnz Kohut), un Sé grandioso è la compensazione di un Io fragile, a sua volta determinato da un’inadeguata rispondenza delle figure di accudimento alle necessità fisiologiche ed emotive del bambino: la scarsa empatia e sensibilità genitoriale induce ad una frammentazione del Sé che, in parte, può ingenerare forme patologiche espresse attraverso bisogni di grandiosità ed esibizionismo.

[10] LG 18.

[11] Fernández, Samuel. 2020. “Towards a Definition of Abuse of Conscience in the Catholic Setting”. Gregorianum 102: 557–74. [

[12] Johnson, David, and Jeff VanVonderen. 1991. The Subtle Power of Spiritual Abuse. Bloomington: Bethany House, p. 20.

[13] Johnson, David, and Jeff VanVonderen. 1991. The Subtle Power of Spiritual Abuse. Bloomington: Bethany House, p. 20-21.

[14] Blue, Ken. 1993. Healing Spiritual Abuse: How to Break Free from Bad Church Experiences. Illinois: InterVarsity Press, p. 12.

[15] Linn, Matthew, Sheila Fabricant Linn, and Dennis Linn. 1994. Healing Spiritual Abuse and Religious Addiction. London: Paulist Press, p. 12.

[16] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, n. 20.

[17] H. Zollner, A. Deodato, A. Manenti, G. Ugolini, G. Bernardini, Abusi sessuali nella Chiesa? Meglio prevenire, Milano 2017, p. 42.

[18] GS 17.

[19] Fernández, Samuel. 2020. “Towards a Definition of Abuse of Conscience in the Catholic Setting”. Gregorianum 102: 557–74.

[20] Conférence des Évêques de France. 2021. Résolutions Votées par les Évêques de France le 8 Novembre 2021. Lourd. Disponibile online: https://eglise.catholique. fr/sengager-dans-la-societe/lutter-contre-pedophilie/ 520492-esolutions-votees-par-les-eveques-de-france- en-assemblee-pleniere-le-8-novembre-2021/ (ultimo accesso 21/12/2021).

[21] Conferencia Episcopal de Chile. 2021. Hacia Caminos de Reparación. Orientaciones para Autoridades Eclesiásticas. Santiago: CECh, disponibile online: http://www.iglesia.cl/prevenirabusos/caminosdereparacion/ (ultimo accesso 10/1/2022).

[22] Fernández, Samuel. 2021. “Reconocer las señales de alarma del abuso de conciencia”. In Abusos y Reparación. Sobre los Comportamientos no Sexuales en la Iglesia. Edited by Daniel Portillo Trevizo. Madrid: PPC, pp. 47–65.

[23] Cf. Poujol, Jacques. 2015. Abus Spiritueles. S’affrancir de L’emprise. Paris: Empreinte.

[24] Chartier-Siben, Isabelle. 2021b. L’Arche: Walking with Our History. Disponibile online: https://cestadireweb.org/chercher-a-comprendre-les-abus/ (ultimo accesso 17/1/2022).
Settimana News

Stampa e potere

Forno Mauro – Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano / >>> scheda libro online

Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano Titolo Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano
Autore Forno Mauro
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Forno studia gli ultimi 150 anni di storia italiana, analizzando le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo, stampa ed editoria, fino all’avvento della televisione e dell’informazione on-line.

Mauro Forno affida a Walter Lippman – giornalista statunitense, vincitore di due premi Pulitzer – la chiusura del suo ultimo volume Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, edito a marzo di quest’anno da Laterza (pp. 298, euro 22,00).
«La qualità dell’informazione in una società moderna è un indice della sua organizzazione sociale», scrisse Lippman quasi un secolo fa, proseguendo: «Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente gli interessi relativi sono formalmente rappresentati, tanto più questioni vengono dipanate, tanto più obiettivi sono i criteri adottati, tanto più perfettamente si può presentare come notizia una vicenda. Nella sua espressione migliore la stampa è serva e custode delle istituzioni; nella sua espressione peggiore è un mezzo mediante il quale alcuni sfruttano la disorganizzazione sociale ai propri fini particolari».
Che Forno, docente di storia del giornalismo e della comunicazione politica e storia dei media all’università di Torino, collaboratore di Vita Pastorale da svariati anni, citi Lippman in un momento di profonda trasformazione – a livello tecnologico, ma non solo – dell’universo mediatico, non appare un caso. Il giornalista americano non si piegò al sensazionalismo e ai gusti del “grande pubblico”, mantenendo sempre il distacco dell’osservatore.
Allo stesso modo, prendendo in esame gli ultimi centocinquant’anni di storia italiana, Forno analizza le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo del nostro Paese, dall’era dei periodici d’informazione allo sviluppo dell’on-line, senza indulgere nel descrivere il rapporto tra potere politico, economico e finanziario e informazione, troppo spesso vittima della «malcelata aspirazione di entrare a far parte di quella oligarchia, in una logica di non alterazione – e anzi spesso di salvaguardia – dei rapporti di potere».
Per citare ancora Forno, infatti, «al di fuori di particolari fasi storiche o di casi molto specifici, quasi mai i giornalisti italiani sono riusciti a rivendicare concrete forme d’indipendenza o controllo sulle testate in cui lavoravano. E anche quando hanno ottenuto – sotto il fascismo – l’istituzione dell’albo (vale a dire di uno status di professionalizzazione e quindi di autonomia teoricamente elevato, al pari di quello di un medico o di un avvocato), hanno poi dovuto pagare il prezzo della perdita di qualsiasi pretesa d’indipendenza, ponendosi al servizio degli interessi politici del regime».
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Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.
Foto di (VITTORIANO RASTELLI / CORBIS)

C’è chi ha sostenuto – Elizabeth Eisenstein – che la nascita del capitalismo vada collegata a quella della stampa. È d’accordo, professor Forno?
«Si tratta di una tesi avanzata dalla studiosa americana in una ricerca pubblicata nel 1979 dal titolo The printing press as an agent of change. Eisenstein vi sosteneva che la storiografia tradizionale non aveva mai colto appieno la portata della scoperta di Gutenberg (la stampa a “caratteri mobili”), a cui si doveva un contributo essenziale nella diffusione del sapere e della conoscenza e nella promozione di un maggiore spirito critico rispetto allo stesso concetto di autorità. Insomma, semplificando molto il discorso, secondo Eisenstein gli editori del XVI e del XVII secolo – ben più, ad esempio, della Riforma protestante o della lotta di classe – avevano favorito la nascita del moderno capitalismo. Evidentemente anche quella della Eisenstein, come altre tesi, presenta aspetti persuasivi e punti di debolezza. Appare in ogni caso impossibile non rilevare la fortissima influenza esercitata dall’invenzione di Gutenberg sulla trasformazione di strumenti di analisi e riflessione come i libri – e, in prospettiva, i giornali – in beni accessibili a un pubblico straordinariamente più ampio».

L’Inghilterra come culla dell’informazione corretta, con i fatti separati dalle opinioni e la citazione delle fonti: era il XVII secolo e il governo inglese non rinnovò il Licensing Act, la censura preventiva, dando il via a un nuovo modo d’interpretare i rapporti tra stampa e potere. Come giudica si siano evoluti questi rapporti in Europa e in Italia, da quel momento fino a oggi?
«In Italia – ma anche in altri Paesi dell’Europa meridionale – la stampa “d’informazione”, così come l’intendiamo oggi, assunse sin dai suoi albori caratteri piuttosto particolari, legandosi molto di più, rispetto al mondo anglosassone, “al potere” e “ai poteri”. Si trattava del resto di Paesi spesso caratterizzati da una bassa percentuale di lettori (anche per l’elevato tasso di analfabetismo) e quindi da scarse prospettive di radicamento di una stampa veramente “popolare” (a tutto favore di una stampa di carattere prevalentemente “politico”, rivolta a un limitato pubblico di notabili).
Queste e altre circostanze resero – sin dalle origini – i giornali italiani dei soggetti economicamente assai poco redditizi. E sappiamo che proprio l’autonomia finanziaria rappresenta un presupposto indispensabile per garantirsi indipendenza dai governi o dai potenti di turno».

Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.

La prima “sfida” editoriale cattolica prese vita agli albori del ‘900 per opera del conte Giovanni Grosoli, uno dei fondatori del quotidiano L’Avvenire, il quale costituì un trust editoriale, non direttamente dipendente dalle gerarchie e in grado di competere con la grande stampa liberale del tempo. L’avventura non ebbe vita facile. Comesi è poi articolato l’impegno del giornalismo cattolico? E quale ruolo può ancora giocare in questo momento storico?
«Probabilmente la Chiesa di inizio secolo non era ancora pronta per sostenere sino in fondo un’impresa come quella di Grosoli. Il che non significa affatto negare la notevole fase di sviluppo avviata, proprio a partire da quel periodo, dalla stampa cattolica. Per giunta essa fu l’unica a sopravvivere – se pur con pesanti limitazioni – nel ventennio fascista, riuscendo poi a riproporsi – con ruoli nuovi e articolati – anche nel secondo dopoguerra. Più che l’esperienza dei giornali quotidiani, settore in cui, tutto sommato, la stampa cattolica non ha mai raccolto particolari fortune (se si esclude l’esperienza dell’Osservatore Romano, che peraltro a partire dal 1929 divenne un quotidiano “estero”), degna di particolare attenzione appare a mio giudizio la proposta cattolica nel campo dei periodici. Oltre al caso rilevante di Famiglia Cristiana, credo che a partire dal XX secolo un fenomeno d’indubbio rilievo sia stato rappresentato dai settimanali diocesani, attraverso cui le Chiese locali si sono dimostrate capaci di modellare il proprio messaggio attorno ai bisogni e alle esigenze dei singoli contesti territoriali».

Dai fondi segreti alle veline il fascismo in Italia fu un periodo buio anche per l’informazione. Quali influenze sono rintracciabili di quel periodo nel modo odierno di fare giornalismo nel nostro Paese?
«Nel passaggio dal fascismo al postfascismo si è nel complesso verificata – nell’ambito del controllo sull’informazione – una certa continuità di uomini e di metodi. Per fare un esempio, nell’Italia del dopoguerra la tradizione dei finanziamenti governativi ai giornali “amici” (che affondava le sue radici nella stessa storia pre e postunitaria) fu mantenuta. Anche gli esecutivi repubblicani continuarono insomma a finanziare le testate che meglio sembravano in grado di contrapporsi alla propaganda delle opposizioni. La tradizione italica di una certa stampa, formalmente di informazione ma di fatto funzionale ai governi di turno, non venne dunque sradicata nemmeno col passaggio dal fascismo alla democrazia, come del resto avvenne per molti istituti introdotti dal fascismo: a partire dall’albo dei giornalisti, dall’Istituto nazionale di previdenza, dall’Ente nazionale cellulosa e carta (costituito nel giugno 1935 per garantire un prezzo politico alla materia prima per la fabbricazione dei giornali)».

Quale ruolo ha svolto nel mondo dell’informazione l’affermazione dell’impero editoriale di Silvio Berlusconi? A suo avviso l’ex premier ha tratto vantaggio per la sua ascesa politica dai mezzi che ha avuto a disposizione?
«Oggi molti studiosi dei media tendono ad attribuire un notevole peso al potenziale “democratico” di nuovi strumenti, come ad esempio i blog e i social network, e alla loro capacità di ritagliarsi spazi anche “informativi”, riuscendo a bypassare l’influenza egemone di canali più ufficiali e tradizionali, come la televisione e i giornali. Sostanzialmente, anch’io tendo a collocarmi in questo fronte. Devo tuttavia dire che rimango sempre poco persuaso dalle analisi di chi tende a enfatizzare i presunti ridottissimi influssi oggi esercitabili sull’opinione pubblica dagli strumenti tradizionali. Per venire alla sua domanda, l’ascesa politica di un imprenditore come Silvio Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo (al momento della sua “entrata in campo”, i nuovi media si trovavano del resto ancora in uno stadio molto basso di diffusione e lo sono ancora oggi tra larghe fette di popolazione) e non credo che la sua successiva perdita di consensi sia stata causata in misura significativa dalla sua potenza mediatica. Insomma, non penso – come invece sostengono altri – che l’eccesso di esposizione televisiva di un leader politico rappresenti oggi – in quanto tale – un “problema”, nel senso di provocare “perdita di consenso”. Resto convinto che a fare la differenza siano i contenuti espressi attraverso il mezzo televisivo. Se io fossi un uomo politico come Berlusconi, mi terrei ben strette le mie televisioni».

Quale sarà il destino della carta stampata? La rete la fagociterà oppure i due strumenti potranno camminare “appaiati”?
«Che l’editoria “classica” – i giornali stampati, nella fattispecie – sia in uno stato di grave crisi, mi pare un dato innegabile. Ma sarei cauto a profetizzare la definitiva scomparsa dell’informazione tradizionale a vantaggio di altre proposte, a partire da quelle on-line. Raramente un nuovo media (o un nuovo strumento informativo) ha saputo soppiantarne totalmente uno vecchio, mentre spesso si sono manifestati processi di adattamento di quest’ultimo alle nuove esigenze. Credo che quotidiani e periodici cambieranno, si adatteranno, ma non scompariranno. Forse – come talvolta avviene nei momenti di difficoltà – riusciranno persino a “migliorare”».

I criteri alla base dell’informazione mutano o restano i medesimi sia che si parli in tv, sulla carta oppure on-line?
«Le rapide innovazioni tecnologiche, a iniziare da quelle collegate allo sviluppo di Internet (capace di porre per la prima volta simultaneamente in collegamento i giornalisti di tutto il mondo, consentendo ai medesimi di condividere un unico patrimonio di informazioni) hanno indubbiamente prodotto una certa omogeneizzazione nell’impostazione del giornalismo, specie di quello proposto dalle nuove generazioni di professionisti. Nel contempo, i programmi televisivi e il materiale prodotto nella rete hanno ormai finito per influenzare profondamente i contenuti dei giornali, che da tempo hanno dovuto ripensare il proprio linguaggio e il proprio aspetto.
«Ritengo che l’informazione cartacea potrà ancora conservare un ruolo importante se si dimostrerà capace di distinguersi nell’analisi e nell’approfondimento. All’interno della pioggia ininterrotta di news proposte dalla rete (difficilmente valutabili e verificabili per un utente medio) la figura del bravo giornalista potrebbe insomma rivelarsi preziosa, soprattutto per consentire al pubblico di interpretare una realtà sempre più complessa e difficilmente riconducibile a un quadro coerente».

Tre giornali dell’editoria cattolica. In alto a sinistra: l’ascesa politica di un imprenditore come Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo.

Maria Grazia Olivero / vita pastorale ottobre 2012