«Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito Pasqua»

di Alberto Ambrosio da Avvenire

La vigilia di Pasqua, nell’augurarmi una buona festa della Risurrezione, un amico sacerdote mi ha trascritto la sua interpretazione di celebri versi. Vale riprenderli, perché la poesia conosciuta da tutti gli italiani, scritta da uno dei più grandi poeti del Novecento, Salvatore Quasimodo, diventa espressione reale del nostro vissuto. La offro a mia volta in segno di augurio, come se ci scambiassimo doni. Il poeta ci perdonerà senz’altro: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito Pasqua».
È proprio così. La Quaresima è passata in batter d’occhio a causa del virus letale, e la pandemia ha creato una zona di confinamento dove ognuno è solo sul lembo di terra che ha in uso: un’abitazione, un appartamento, una camera. Ognuno è trafitto da questo isolamento che diventa anche solitudine, ma ecco che quel raggio di sole è la Pasqua ci raggiunge quasi come se non l’aspettassimo più, di sorpresa. Siamo impreparati ad accogliere la risurrezione di Cristo in questo isolamento che diventa solitudine quasimodiana, e siamo trafitti sì da un raggio di sole, ma non si capisce esattamente di quale sole: può essere quello della Pasqua, ma anche quello della solitudine. In questa quella situazione di confinamento ci viene annunciato che il sepolcro è vuoto, che il Signore Gesù, quindi, è risorto… ed è subito Pasqua. Sembra di essere presenti all’avvenimento, tra quell’amore femminile di Maria di Magdala che si recava al sepolcro per gli ultimi riti di sepoltura, la frenesia di Pietro e soprattutto l’ardore di Giovanni, il discepolo benamato da Gesù.
Anche se viene preparata, la Pasqua – ossia la Risurrezione di Cristo – non è mai veramente pianificabile. I discepoli l’avevano preparata per Gesù, ma in fondo, non si aspettavano che accadesse così come aveva detto. I primi discepoli sono stati un poco opportunisti nei confronti della notorietà di Gesù. Ne hanno approfittato. E fino alla fine hanno avuto difficoltà a capire, non si aspettavano quanto accaduto. Non si è quindi mai preparati a ricevere un dono che oltrepassa tutte le attese, anche quando ci si chiama apostoli. La Risurrezione va al di là di quanto l’immaginazione umana possa elucubrare, perché è fondamentalmente un dono. Anche se quest’anno è lecito domandarsi quale sia questo dono, il fatto sicuro è che esiste. Sta a noi capire la modalità di quel dono, sfuggendo a ogni possibile prefigurazione del come sarà la grazia, del come sarà la Risurrezione di Cristo (ed è proprio per questo, in fondo, che la si è scoperta con un sepolcro vuoto). Il carattere proprio della grazia è dato dal non poterla gestire a piacimento, dal non poterla accumulare in quantità e nemmeno dal farne incetta. È il “così” della grazia: arriva, ma non si sa come, né quando, né dove. Ti raggiunge in ogni modo, presto, nella situazione in cui ti trovi: isolamento, solitudine o confinamento che sia. Ed è subito Pasqua.

«Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

«Caro Dio – scrive una giovanissima Flannery O’ Connor nel suo Diario di preghiera citato da Vincenzo Rosito nel libro Poeti sociali (Bologna, Edb 2019, pagine 100, euro 9) — dammi un posto, non importa quanto piccolo, ma fammelo conoscere e mantenere. Se io sono quella che deve lavare tutti i giorni il secondo gradino, fammelo sapere, fammelo lavare e lascia che il mio cuore straripi d’amore lavandolo». Tienimi ancorata al presente, al qui e ora, chiede Flannery. Non farmi scappare dalla realtà, rendimi disponibile ad ascoltare quello che mi dice, mantienimi umile in senso letterale, vicina alla terra, legata a quell’humus che nutre ogni creatura vivente.

Tornano in mente le parole profetiche di María Zambrano, che già a partire dagli anni Sessanta del Novecento denunciava con chiarezza in uno dei suoi testi più noti, Verso un sapere dell’anima, le cause dell’anoressia affettiva, sociale e culturale che affligge il mondo occidentale. «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

Da tempo — nota la filosofa spagnola — siamo ostaggio di una superbia che non riesce più nemmeno a percepire se stessa, effetto collaterale di un razionalismo cristallizzato in dogma. Zambrano attribuisce questo errore di prospettiva, che pretende di definire tutto il reale entro i suoi limiti («Si crede di possedere la totalità, si crede di avere in mano tutto») a quella mancanza di coscienza della dipendenza e del proprio limite che è l’umiltà. Quell’umiltà intellettuale, che, sola, è «compagna di ogni scoperta». Una diagnosi impietosa che, con il passare degli anni ha confermato la sua verità, smascherando un esilio di fatto («il genere umano non può sopportare troppa realtà», scrive Eliot già nel 1935, in Burnt Norton) ignorato, negato, o anche solo camuffato da indifferenza.

Dammi un posto nel mondo, dammi un compito, anche piccolo, ma reale, chiede Flannery a Dio. Massima concretezza, massima apertura al Mistero; altre variazioni sul tema “umiltà”. Compagna di ogni scoperta, la definisce Zambrano; nel caso della scrittrice americana, l’umiltà è stata madre di racconti e romanzi di miracolosa, geniale esattezza, sinceri fino alla crudeltà.

Anche un lavoro umile e ripetitivo come pulire il pavimento di un ospedale può aprire inattesi orizzonti di senso; è successo a Daniele Mencarelli, poeta e romanziere che scrive spesso sul nostro giornale (e che il nostro giornale segue dal 2010, con recensioni, interviste e pubblicazioni di stralci delle sue opere). Un ospedale è una palestra di realtà, un luogo dove, se la mente e il cuore non hanno smesso di parlarsi, si diventa bravi a intercettare gli sguardi, a cogliere al volo piccole e grandi storie nel tempo di un caffè o di una sigaretta fumata in fretta sul balcone aspettando il giro del mattino dei medici, in reparto. La casa degli sguardi (Mondadori 2018) è il titolo dell’ultimo libro di Mencarelli; la cronaca di una rinascita che ha per data di inizio la firma di un contratto di lavoro al Bambino Gesù di Roma, il 3 marzo del 1999.

Se l’immersione nella dura realtà della sofferenza dei bambini è la cura, più difficile è spiegare la malattia degli anni precedenti: «Io non sono malato — scrive Mencarelli — sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre bestie. Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, al farsi una famiglia, a queste cose bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide, che mi ha condotto a questo presente vuoto. Dovrei solo smettere di chiedere, cercare, dovrei solo far finta di non cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno». L’alcol serve solo a far tacere tutte queste domande insopportabili. «Non ricordo nulla. È la frase che mi ripeto tutte le mattine. Non ricordare nulla. È il mio obiettivo della sera (…) Quattro anni sono riuscito a spazzarli via, un passo alla volta spazzerò via tutto».

Domande ostinate, incalzanti, che diventano canto, se lasciate fluire liberamente. «Undici Ottobre Novantadue — è l’incipit del bellissimo poemetto Storia d’amore (Lietocolle 2015) — sedici gli anni appena scoppiati / mille i cazzotti mille i baci /strappati dalle labbra di un paese /sgranato passo dopo passo, / senza mai soddisfarla veramente / questa fame infelice / questo desiderio cane di carne e vita / di voglie ubriache sempre in festa. / Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi / un corpo sfinito che s’arrende / a qualcosa dentro di feroce».

Nella fedeltà al proprio compito («La scrittura è una richiesta d’ascolto. Per me è una specie di comandamento» dice Mencarelli) la realtà torna a parlare; non solo le occasioni speciali o i fatti memorabili, anche le cose che incrociamo ogni giorno lungo la strada verso casa. «La luce sul capannone — scrive Umberto Fiori, un altro poeta che ha trovato nella capacità di farsi interpellare da tutto ciò che incontra la sua cifra comunicativa più autentica — / le due finestre murate / e il fosso, lì sotto, e i platani, / hanno ragione. / Guardi, e ti chiedi / come sia possibile / imparare da loro».

L’umiltà è capace di generare meraviglie. «Non conosciamo mai la nostra altezza / (ora a parlare è la folgorante semplicità di Emily Dickinson) finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura. / L’eroismo che allora recitiamo / sarebbe quotidiano / se noi stessi non c’incurvassimo di cubiti / per paura di essere dei re».

di Silvia Guidi in Osservatore Romano

Natale…

Sogni diffusi come scintille

mille e poi mille

luci di sentimenti 

sparsi dai venti

creano nuovi colori

per un Natale di fiori

ricco d’amore 

con la gioia nel cuore

(di Giuseppe Serrone)

Parla la nipote prediletta di Montale: inseguendo le Occasioni di Dio

«Con lo zio per tutta la vita abbiamo spesso parlato di temi religiosi. Nella villa di famiglia a Monterosso, a casa nostra a Genova e poi a Milano, in via Bigli. Fino alla fine. La nostra è stata una continua frequentazione». Lo zio in questione è Eugenio Montale. Lei, Bianca Montale, classe 1928 figlia del fratello, è l’erede dei diritti dell’opera del «poeta del dubbio». Il dubbio che la realtà sembra rimandare ad altro, ma poi è solo apparenza. Solo un imprevisto può essere la salvezza, ma questo miracolo, nei suoi versi, sembra non poter accadere. Rimane un’attesa. Bianca è stata la nipote preferita, proprio lei che ama definirsi «una credente di ferro da prima del Concilio: il Vangelo per me è tutto». Nel suo appartamento nel capoluogo ligure, alle pareti i quadri dello zio e della mamma, «grande pittrice e cattolica inflessibile. Erano amici d’infanzia insieme alla zia Marianna… Cattolica più aperta. Eugenio ricercava la loro compagnia. Ne aveva grande stima». Sul tavolino, sparse, alcune pagine dattiloscritte. Laurea in Lettere all’università di Genova, giovanissima vince la cattedra come professore ordinario di Storia del Risorgimento e insegna a Bergamo e poi a Parma. «A Genova, dove ero incaricata, non mi hanno mai chiamato perché nel tempio sacro del marxismo io, cattolica, non ero gradita. Ci sono arrivata tanti anni dopo, ma nella facoltà di Magistero. D’altronde anche lo zio non gli è mai piaciuto. “Un borghese” lo definivano. Io dico: uno in continua ricerca». Non vuole parlare della poesia di Montale, di quel «male di vivere» che si ritrova nelle liriche, preferisce raccontare della sua umanità, dell’uomo Montale. Svelando tratti, ricordi, accenti meno conosciuti. Cosa significa: era in continua ricerca? «Tutta la vita ha cercato le tracce della presenza di quell’Invisibile di cui si sentiva amico. Ma gli è mancata la “folgorazione” della fede, senza la quale è difficile razionalmente comprendere tante cose della Chiesa. Per questo, a mio avviso, lo zio era un cristiano senza dogmi. Nel 1917 nel suo diario scrive: “Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica. Il dubbio è antifilosofico”. È soprattutto negli ultimi anni che questa sua ricerca diventa più pressante. Scrive meno, quasi nulla per via della malattia. Ma parla. Voleva sapere, conoscere. Trascorrevamo giornate intere a discutere, ad esempio, del Bene e del Male, delle eresie del II secolo dopo Cristo. Non erano discussioni astratte, ma come se volesse avvicinarsi e comprendere questo Altro. Come disse il mio caro amico Carlo Bo, “quel Dio che Montale, come tutti i veri credenti, non nomina mai invano”. In mio zio c’era l’idea di un essere superiore, soprattutto aveva una passione per la figura di Cristo. Prima di andare in ospedale, dove sarebbe morto, sul suo comodino di casa aveva una vita di Cristo. E poi, guardi, questo è il santino che Eugenio teneva nel portafoglio: è un’Adorazione dei Magi e sotto la scritta “La bontà di Dio si è manifestata in Cristo”». È un regalo?  «No, era nel suo portafoglio. Ora lo tengo sempre nel mio. A un compleanno mi regalò un Vangelo che era la riproduzione anastatica di una versione del Quattrocento. Non le dice nulla che volle sposare laMosca (la compagna Drusilla Tanzi, ndr) in chiesa? Poco prima di morire chiese al cappellano della clinica San Pio X, dove era ricoverato, di recitare insieme un Padre nostro, anzi il Pater noster perché preferiva il latino. A mio avviso significa che aveva riconosciuto un Padre. Mi sembrano segni di questa ricerca mai sopita e allo stesso tempo mai conclamata, come era del suo carattere: timido e schivo. Qualcosa di intimo che affiora più nelle prose che non nelle poesie. Non si è mai definito ateo. Durante la Prima Guerra mondiale un suo caro amico e commilitone, Ettore Crovella, che poi diventò monsignore, gli regalò un libro con questa dedica: “Caro Eugenio, tu sei molto più vicino a Dio di quanto pensi”. E poi quella sua attenzione, quasi invidia verso le persone semplici». In che senso? «Penso innanzitutto alla Gina, la sua governante, morta pochi mesi fa in assoluta povertà. Era una contadina dell’Aretino, a diciott’anni era entrata in casa Montale e con lo zio è rimasta tutta la vita. Una donna di una religiosità semplice, di una bontà e di una rettitudine senza eguali. Parlava poco, ma è stata per lui un modello di vita. In una lettera che Eugenio mi scrisse la definì “eroica”. Ogni domenica l’accompagnava a messa e lei lo ha accompagnato dappertutto: a Stoccolma per il ritiro del Premio Nobel, al Quirinale quando ha ricevuto la nomina a senatore a vita. La Gina per me è l’incarnazione di ciò che lui definisce la “decenza umana”, cioè compiere la propria missione in qualsiasi campo». Di questo amore aveva invidia? «Sì. La sua è stata una tensione, una sofferenza per questo Invisibile. È mancata la folgorazione della fede. Aveva una sete di conoscenza continua dei temi religiosi. Aveva studiato le grandi eresie: pelagiani, nestoriani. Mentre mal sopportava – e su questo eravamo molto in sintonia – i preti impegnati. Con il suo modo ironico prendeva in giro i sacerdoti in borghese o peggio i preti operai. Ma aveva sempre grande rispetto dei sacerdoti veri». Per la critica, la figura di Montale è legata all’immagine del «muro d’orto invalicabile». La felicità è sempre a un passo, ma irraggiungibile. È il male di vivere. «Questo per me vale fino ai 75 anni. Dopo la ricerca si è fatta più stringente e per questo più silenziosa. Sono convinta che lassù lui ci è arrivato. Anche, ma non solo, per le messe che ho fatto dire per lui». Ma Eugenio Montale credeva in un aldilà? «Altrimenti perché nel testamento mi ha chiesto che sulla sua tomba fosse sempre acceso un lumino? Aggiungendo, da buon ligure: “È una piccola spesa”. E una sua poesia in Satura inizia così: “Avevamo studiato per l’aldilà”». avvenire.it

D’Amato Nazario – Le parole non sono ancora sulla mia lingua

D’Amato Nazario – Le parole non sono ancora sulla mia lingua

Le parole non sono ancora sulla mia lingua Titolo

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La vita – il nascere, il morire, l’incontro con l’altro – è il banco di prova della propria fede ed il luogo della ricerca di Dio, talvolta condotta con affanno, tal altra con entusiasmo, con la consapevolezza dei propri limiti senza, per essi, cadere nello sconforto. Camminare, cascare, rialzarsi, andare avanti certi di una meta ultima, che dà il senso al proprio cammino e alla storia.

venerdì 9 maggio 2014 alle ore 18,00
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via Adua, 79 Reggio Emilia

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Autore D’Amato Nazario
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(Prezzo di copertina € 11,00 Risparmio € 1,65)
Dati 2013, 90 p., brossura

INEDITI La pasqua dei Poeti

La primavera fa saltare il tappo dell’inverno. Non c’è pietra tombale che tenga. Gesù umilia lo straccio della morte, che diventa ora una cara sorella; è il risorgere nella Pasqua, dove l’amore è oramai l’ossigeno nuovo. Cinque poeti sono qui chiamati a darne notizia artistica. Si va, nei singoli testi, dall’endecasillabo alla prosa poetica. Gli autori sono: Maria Luisa Spaziani, emblematica protagonista del Secondo Novecento, Franco Loi, padre indiscusso della poesia dialettale contemporanea, Tiziano Rossi, approssimatosi autorevolmente alla prosa. Inoltre Guido Oldani, artefice della poetica del Realismo Terminale, e Valerio Magrelli, il più giovane fra i più noti poeti italiani. Questa pagina è una “Sindone in versi” che raccoglie le impronte degli ultimi “tre giorni”, duemila anni dopo. Vi sono significati, emozioni, visioni e distanze, le più svariate. Si ascolta con orecchio diverso, si vede da finestre e con sguardi differenti. Ma non c’è mai sordità o cecità. Da questo ceppo, del resto, viene Francesco.
Un dì che ’ndavi sensa sentiment
per piassa Triculur ’me ’n strasc al vent
me sun truâ ai scal d’una caverna
due sòta tèra spariven l’èrba e i gent…
Me sun fermâ, û duggiâ un quaj fiur,
û tupicâ tra i sass – pareva inverna –
me sun decîs a entrà denter nel scür
e gh’era tüta tèra e safurment…
… vegnìven bumb dal ciel, e dü tri sciur
pregàven e piatìven dré d’un mür…
Seri in genögg, raspavi sòta el scür,
un pù piagevi, un pù cercavi i fiur…
’Me l’era nott el dì! e fund el mür!
pregavi, biassegavi, e l’era el mund
che me ciamava da quèl fund del mür…
ma l’era un òm? un angiul? l’era el vent?
Seri ’na bissa e Lü l’era ’na lüs.
El m’à brasciâ… E mì? Sun stâ nel vent,
e mür e tèra s’eren fâ de lüs
e mì cantavi al cel in mezz aj fiur.

Un giorno che andavo senza sentimento per piazza Tricolore come uno straccio al vento mi sono ritrovato alle scale d’una caverna dove sottoterra sparivano l’erba e le genti… Mi sono fermato, ho adocchiato qualche fiore, ho inciampato tra i sassi – sembrava inverno – mi sono ritrovato ad entrare dentro nel buio e c’era tutta terra e tante bestemmie… … venivano giù bombe dal cielo, e due tre signori pregavano e piativano dietro un muro… Ero in ginocchio anch’io, raspavo sotto il buio, un po’ piangevo, un po’ cercavo fiori… Com’era notte il giorno! e profondo il muro! pregavo, biascicavo, ed era il mondo che mi chiamava da quel fondo del muro… ma era un uomo? un angelo? era il vento? Io ero una biscia e lui era una luce. E mi ha abbracciato … e io? sono entrato nel vento e muro e terra s’erano fatti di luce e io cantavo al cielo in mezzo ai fiori.
Franco Loi

NOSTRA PASQUA
più antico della Croce, è lui l’eletto,
il simbolo dei simboli, lui, l’Uovo.
Palla del rugby, palla al cioccolato,
lui vittoria o delizia.

Sei polpastrelli dèlega il credente
a carezzare i grani del rosario.
Più di cinquanta ovetti, la scalata
di primavera al cielo.
Maria Luisa Spaziani

A MEZZO VOLO
vespasiano, morente imperatore
ai suoi chiede che lo si alzi in piedi,
solo così un grande uomo muore.
tale è gesù, che sembra impallinato
sulla croce di legno a mezzo volo
e poi esce dal frigor della morte,
perché due vite è la nostra sorte.
Guido Oldani

PER ROMA
In una Pasqua azzurra e solitaria
(la città vuota, la mamma ammalata)
decido di portare mio figlio di sei anni
in bicicletta, lungo il fiume, a nord.

Via per il Pantheon, culla funeraria!
(nessuno in giro, la strada ventilata)
e dritti fino al Tevere, per scordare gli affanni,
luccicante e leggero da farsi in pedalò.

Ma dopo il Foro Italico, dalla ricca statuaria
(la ciclabile scende, più buia, malfamata)
un villaggio di nomadi, fra le baracche e i panni,
ci piomba addosso muto, con lamiere e falò.

Poi la pista risale in una curva d’aria
(noi ci voltammo indietro, la minaccia sventata)
trasparente di luce, lontana dai capanni
degli stranieri – zingari, clandestini, macrò.

Così in quella giornata raggiante e leggendaria
(per la nostra famiglia, sebbene menomata)
restò quel punto nero, vergogna, disinganni,
fratellanza, paura, odio, pena, non so.
Valerio Magrelli

AFFRESCO
Siccome sono un bambino e non devo disturbare, me ne sto zitto zitto a guardare mio padre mentre prepara il suo lavoro di pittore, perché dovrà affrescare l’abside di una chiesa illustrando il tema della Pasqua; e tutto mi scorre davanti veloce come in un film accelerato. Siamo su un ponteggio alto alto, tanto che il parroco vicino all’altare pare una formica. In un lampo mio padre dipinge il bozzetto che suggerisce i colori e i toni da adottare; disegna in un istante, su un grande cartone, i contorni delle figure e delle cose che dovranno comparire sul muro; sempre di corsa divide il cartone in tanti quadretti e svelto trafora con una rotella appuntita quei contorni; poi guizza da un lato per apprestare i colori macinandoli con acqua di calce, e allestisce in un batter d’occhio la parete applicandovi un impasto di sabbia, calce e polvere di marmo; quindi, come un fulmine, preme il cartone sulla parete, passando sui forellini dei contorni un tampone pieno di polvere di carbone; balza indietro per vedere l’effetto e infine prende i pennelli e freneticamente comincia a dipingere, lavorando con tale speditezza che – ecco – per oggi l’affresco della Resurrezione è già finito. Mio padre scende a precipizio la lunga scala a pioli, percorre come una freccia la navata ed esce dalla chiesa: non lo vedo più e mi invade un grande sconforto. Uno dei personaggi che lui ha raffigurato (è un apostolo?) si stacca però dal muro e, serio, mi rivolge la parola: «Ciò che hai visto è semplicemente la vita, la Pasqua di tutti» e nel dire questo mi accarezza compassionevole la testa, ormai diventata completamente calva.
Tiziano Rossi