«COSÌ MARIA MONTESSORI COLTIVAVA LA SPIRITUALITÀ DEI PIÙ PICCOLI»

La maestra Anna Maria Pipoli racconta la pedagogista scomparsa 70 anni fa: «Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Diceva che i fossero capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali e portati naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che li circonda»

Laura Badaracchi
La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«Aiutaci, o Dio, a penetrare nel segreto del bambino, affinché possiamo conoscerlo, amarlo e servirlo secondo le Tue leggi di giustizia e secondo la Tua divina volontà». È una preghiera scritta non da una catechista o da una santa, ma dalla geniale Maria Montessori, laureata in medicina e specializzata in psichiatria, di cui il 6 maggio ricorrono i 70 anni dalla morte. Della sua passione educativa molto è stato detto, ma non altrettanto della sua profonda fede che l’accompagnò non solo nelle vicende personali, ma che ha irrorato e ispirato molti aspetti del suo metodo. Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

«Nel 1922 Maria manifesta il desiderio di creare un Centro cattolico di formazione degli insegnanti e pubblica in Italia I bambini viventi nella Chiesa. Note di educazione religiosa. Nel 1931 vede la luce La vita in Cristo e nel 1932 La Santa messa spiegata ai bambini. I tre volumi, che avevano tutti ricevuto l’imprimatur, costituiscono un metodo di insegnamento religioso». Inoltre la Montessori criticava «il metodo tradizionale di insegnare la religione “con le parole”: riteneva infatti che la religione dovesse far parte della vita». Anche perché, come lei stessa scrive, «i bambini sono così capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali, che la loro intuizione ci ha fatto pensare ad un periodo sensitivo religioso: la prima età sembra congiunta con Dio come lo sviluppo del corpo è strettamente dipendente dalle leggi naturali che lo stanno trasformando».

Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Così a Roma, dopo la sua morte, l’insegnante montessoriana Gianna Gobbi e la biblista Sofia Cavalletti hanno messo a punto La catechesi del Buon Pastore, rivolta ai bambini a partire dai 3 anni, adottata anche da tanti docenti di religione e di sostegno.

Come la 67enne Anna Maria Pipoli, per 42 anni maestra di scuola primaria a Foggia. «Maestra» vuole essere definita, anche ora che è in pensione e fa la formatrice montessoriana di altri colleghi: ha sposato il metodo montessoriano anche nelle ore di religione, sperimentando concretamente con materiali bidimensionali e tridimensionali che i bambini apprendono con estrema facilità il linguaggio e il significato delle parabole evangeliche, come la perla preziosa e il seme piantato nella terra, e restano affascinati dalla storia della salvezza, dai simboli presenti nella liturgia.

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«I bambini erano sempre attenti e coinvolti, usando i materiali messi a loro disposizione: dalle sagome del pastore con l’ovile e le pecore al cofanetto con la perla preziosa, dal piccolo granello di senape al lievito messo nella farina sul tavolieri per fare il pane. «Siamo chiamati a spargere semi senza indagare e interrogare: nessuna verifica. È il tempo che dice cosa sei riuscita a trasmettere nel profondo, nel cuore del bambino. Siamo come i servi inutili del Vangelo», sottolinea la maestra. «Maria Montessori diceva che il bambino è portato naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che lo circonda. Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Bisogna offrire materiali sensoriali per assorbire questi valori, anche con i diorami (riproduzioni di varie scene in scala ridotta, ndr): così nei bambini scaturisce il contatto con il loro maestro interiore. Si pongono loro delle domande, si chiede cosa ne pensano, si stimola l’interiorizzazione e autoanalisi senza portarli dove vogliamo noi. Possono esprimere i loro pensieri con disegni o durante il colloquio». Con un atteggiamento costante da adottare: «La pedagogia dell’attesa. Ce l’ha trasmessa Maria Montessori», convinta che i bambini fossero capaci «di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali».

Famiglia Cristiana

Crescere con Dio. Dinamiche educative nella Bibbia

di: Roberto Mela

Dionisio Candido, Crescere con Dio. Dinamiche educative nella Bibbia

«Ciò che più conta – scriveva D. Bonhöffer all’amico E. Bethge il 18 dicembre 1943 – è tenere il passo di Dio, non volerlo sempre precedere, né d’altra parte stargli indietro» (Resistenza e Resa, cit. da Candido a p. 44). E il passo di Dio è quello di un pedagogo, esigente ma paziente.

Il quarantasettenne biblista catanese Candido Dionisio – sacerdote della arcidiocesi di Siracusa, dottore in Scienze bibliche al PIB, docente di Esegesi dell’AT e di Spiritualità AT a Siracusa e Catania – è responsabile del Settore dell’Apostolato Biblico dell’Ufficio catechistico nazionale della CEI.

Egli propone sette breve percorsi con i quali scoprire il metodo pedagogico seguito da Dio nella Bibbia per educare il suo popolo.

Il basso continuo del suo essere è quello dell’amicizia, del suo amore fedele con il quale sottolinea il continuum della relazione che lo lega a Israele. Niente lo potrà mettere in discussione. Il suo è un passo di accondiscendenza, con il quale si fa trovare là dove si trova l’uomo, con le sue difficoltà e i suoi sogni di libertà che egli bene conosce da sempre, ancora prima che siano espressi.

A volte Dio è costretto ad attendere il suo partner, con tolleranza verso suoi errori e le sue lentezze. Fragilità oggettive e resistenze soggettive dell’uomo e del popolo di Israele umano “costringono” Dio a dargli il tempo di cercare. Quello che è importante è la sincronizzazione dei passi fra YHWH il popolo, con una coordinazione che si adatti al percorso piano e facile, così come a quello arduo e impegnativo.

Al discepolo viene rivolto qualche volta un duro rimprovero, un testo di disturbo che lo svegli dal perduto amore e lo rilanci sulla via della crescita. Il Dio della Bibbia non si manifesta simile agli dèi dei racconti di fondazione. Un Dio che dà origini nobili alle città, ma resta manipolabile e proiezione dei desideri umani. YHWH invece accondiscende ma resta sempre altro dall’uomo. Gli eponimi del popolo di Israele non sono uomini mitici, ma persone senza blasone, aramei erranti. Bisogna cambiare davvero, allora, senza restare rigidi nella proprio nuca fatta di metallo.

YHWH fornisce spazio e tempi per crescere: il giardino dell’Eden, il cammino di libertà e di prova nel deserto, il monte del tempio, ma soprattutto la strada del ritorno dall’esilio, verso una città che, nella sua configurazione ideale, sarà senza il tempio, perché questo sarà costituito da Dio stesso e dall’Agnello.

La Bibbia mostra chiaramente l’antinomia di fronte alla quale l’uomo deve scegliere: il bene o il male. Ma talvolta i confini sono incerti e bisogna saper gestire la tensione fra varie realtà non ottimali. Occorre danzare la vita, avanzare a piedi nudi di fronte a Dio che accoglie al roveto ardente, fa avvicinare ma rispettando lo spazio dell’alterità.

Il profeta Elia mostra i limiti di un uomo pieno di passione ma anche incline alla depressione che segue la persecuzione di Gezabele. YHWH sostiene il suo profeta con una focaccia per un bipolare, perché possa arrivare alla meta dell’incontro con lui sull’Horeb.

Gesù stesso mostrerà la tensione fra il suo essere risorto/risuscitato nella gloria e i segni ancora ben marcati e indelebili della sua passione nella carne. Un Guaritore ferito, un Vivente ferito.

Davvero – come notava il card. Martini nella sua lectio magistralis in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione alla Cattolica (11/4/2002) – la Bibbia si squaderna davanti a noi come un magnifico libro letterario, un ricco libro sapienziale, un educativo libro storico, un profondo libro dello Spirito (cf. pp. 90-91). Nella Bibbia ognuno può specchiarsi, ma trovare soprattutto il passo fermo e la mano solida del Pedagogo che lo aiuta a crescere verso l’autonomia e la vera libertà.

Una sintetica bibliografia “pedagogica” può aiutare a proseguire il cammino (pp. 93-95).

Pagine scritte con linguaggio semplice, che però fanno trasparire la ricchezza del testo biblico cosciuto e amato, opera dell’uomo ma ispirato dalla sapienza del Pedagogo Divino.

Dionisio CandidoCrescere con Dio. Dinamiche educative nella Bibbia (Attualità della Bibbia s.n.), Città Nuova, Roma 2020, pp. 104, € 15,00, ISBN 978-88-331-8807-4

Settimana News

Cultura e pedagogia: bambini alla ricerca di Dio

Esce in questi giorni in libreria il volume «Le domande dei bambini su Dio» (Lindau, pp. 232, euro 19,50), nel quale il benedettino bavarese Anselm Grün – autore di molti volumi di spiritualità tradotti anche in italiano – e il noto pedagogo e divulgatore Jan-Uwe Rogge spiegano «Come l’educazione spirituale rafforza la famiglia». Qui pubblichiamo uno stralcio del capitolo «I bambini cercano la propria strada».

Grün Anselm; Rogge Jan-Uwe – Le domande dei bambini su Dio. Come l’educazione…

Le domande dei bambini su Dio. Come l'educazione spirituale 
rafforza la famiglia Titolo Le domande dei bambini su Dio. Come l’educazione spirituale rafforza la famiglia
Autore Grün Anselm; Rogge Jan-Uwe
Prezzo
Sconto 15%
€ 16,58
(Prezzo di copertina € 19,50 Risparmio € 2,92) – solo online da qui

I bambini sono diversi e ciascuno è unico. Teologicamente potremmo dire che in ogni bambino Dio pronuncia una sua parola, espressa soltanto in quel determinato bambino. Ognuno è una parola di Dio incarnata. O, in altri termini, ogni bambino è un’immagine unica e irripetibile di Dio. Ogni bambino è un sogno di Dio sull’uomo. I genitori hanno il compito di tenere sempre presente questa particolarità e unicità dei figli. Non sapranno esprimere con parole chiare l’immagine di Dio che si manifesta nel loro bambino perché, così come non ci si devono formare immagini di Dio, non bisogna crearsene neppure dell’uomo. Tuttavia, se si è consapevoli dell’immagine unica di Dio nel bambino, si rimane aperti a ciò che il bambino ha di speciale, al suo carattere individuale; non ci si fissa su un determinato modello. Il teologo e psicologo americano John Bradshaw sostiene che i bambini sono spirituali di per sé, seguono l’atteggiamento naturale «io sono quello che sono», che si può tradurre anche con «io sono io». Un bambino l’avverte chiaramente. È spontaneo, è se stesso. Perciò Bradshaw scrive: «Credo che l’adesione al nostro io sia il nucleo essenziale di ciò che ci rende simili a Dio. Se una persona ha il senso di questa qualità, è in armonia con se stessa e può accettarsi. I bambini ne sono capaci per natura. Se osservate un qualsiasi bambino, riconoscerete in lui quell’espressione che dice: ‘Io sono chi sono’».

La ferita più profonda che i genitori possono infliggere ai figli è quella spirituale. Il bambino è deriso nella sua unicità. È costretto nell’immagine che ci si fa di lui. Se si fida dei propri sentimenti ed esprime i giudizi che ha nella sua anima genuina, si ride di lui. Così è costretto ad adattarsi e a negare la consapevolezza originaria e il senso della propria unicità. Bradshaw dice: «La ferita spirituale è la principale responsabile del fatto che diventiamo dei bambini cresciuti non autonomi, pieni di vergogna. La storia del declino di ciascun uomo e di ciascuna donna racconta di come un bambino meraviglioso, prezioso, speciale, unico abbia perso la sua percezione di ‘io sono chi sono’». I bambini pieni di vergogna non osano più essere se stessi, gli preme soltanto di essere accettati e apprezzati dagli altri, di adeguarsi ai giudizi esteriori, di piacere, insomma. I figli sono ospiti che chiedono la strada, dice una frase molto citata. Ma non domandano soltanto per avere risposte dagli adulti; pongono domande perché osservano il mondo, che li meraviglia, li spaventa e li induce a riflettere su ciò che vedono. I bambini sono filosofi – un’altra constatazione tanto valida quanto comprensibile – che non sono solamente curiosi ma, a modo loro, trovano anche delle risposte: talvolta in tutta serietà, tal altra sottintese, talvolta pratiche, tal altra spiritose e davvero buffe. L’apprendimento – anche quello religioso – non avviene solamente attraverso programmi didattici (per quanto ben concepiti e ponderati), un bambino fa esperienze istruttive anche non pianificate, senza un accompagnamento pedagogico, a casa, a scuola o all’asilo. Quando i bambini crescono e si mettono in cammino per esplorare e conoscere il mondo intorno a loro, quando non gli bastano più le sicurezze familiari, quando varcano i confini per conquistare le terre al di là di essi, quando fanno (come devono) esperienze nuove, ignote e insolite, quando si trovano ad affrontare sfide esistenziali, mettono in discussione molte cose, compresi se stessi, e improvvisamente il sapere acquisito non è più sufficiente. A partire dal terzo o quarto anno di vita i bambini pongono due domande importanti, alle quali desiderano ottenere risposte che li prendano sul serio e li apprezzino nelle loro competenze: da dove vengo? Dov’ero prima di essere qui con voi, prima di venire in questo mondo? E: io morirò? Voi morirete? Sono domande filosofiche sull’inizio e sulla fine, sull’origine e sull’evoluzione. Chi mi dà sostegno, protezione e sicurezza affettiva quando mi metto in cammino, quando mi allontano dal luogo familiare e sicuro? Dietro queste domande si nasconde il desiderio di essere accettati e in buone mani, di disporre di legami sicuri con persone fidate. Lo psicologo sociale Uri Bronfenbrenner ha sottolineato che ogni bambino, ogni giovane ha bisogno di una persona alla quale essere legato in modo irrazionale, emozionale, una persona della quale potersi fidare incondizionatamente. Nella ricerca di protezione, sostegno e sicurezza affettiva è insita anche la ricerca di Dio: Dio Padre e Dio Madre, al quale potersi abbandonare perché altrimenti si sarebbe abbandonati e non si avrebbe il coraggio di uscire nel mondo per diventare una persona autonoma. Gaby von Thun ha scritto su questo argomento un libro di straordinaria sensibilità. Ha chiesto a dei bambini di disegnare la loro immagine di Dio offrendo loro l’opportunità di esprimersi in proposito. Alla domanda su come si immaginasse Dio, un bambino ha risposto: «Dio me l’immagino come una persona che ci osserva! E guardandoci ride e le sue risate donano la pace a noi uomini qui in Terra. E ci dona il sole! Ogni tanto fa piovere per rinfrescarci perché sa quand’è troppo caldo per noi». Bambini e giovani che lasciano il porto sicuro per affrontare le tempeste della vita hanno bisogno di quelli che lo psicanalista Donald Winnicott ha chiamato «oggetti transizionali»: simboli, oggetti, rituali che aiutano a sopportare l’autonomia e l’indipendenza. Per alcuni bambini sono l’orsacchiotto, la copertina, il ciuccio; o per dirla con le parole di Tamara, 10 anni: «Ho una volpe di pezza. Si chiama Ricki, è color salmone e ha la coda bianca. Mi aiuta sempre quando sono nei guai, quando ho bisogno di lei. Magari sa anche parlare e pensare. Potrebbe essere, no? Oppure sta su una nuvola in cielo? Può anche darsi».

Potrà sembrare strano, parlare di Dio come di un «oggetto transizionale». Eppure, in un’epoca in cui i rapporti personali sono talvolta fragili e incerti, i legami simbolici acquistano importanza perché esistono sempre e ovunque. A un certo punto del loro sviluppo, molti bambini non necessitano più di oggetti transizionali reali, bastano loro quelli contenuti in simboli e immagini. I disegni nel libro di Gaby von Thun lo testimoniano: Dio come luce, stella, sole, luna. I bambini sono creativi e sanno definire con precisione le proprie cognizioni. Non divagano. Le immagini infantili contengono la divinità e l’anarchia, parlano del Paradiso, dell’Inferno e del Purgatorio; in esse fantasia e realtà si fondono indissolubilmente. «Mosè ha attraversato il mare a piedi. Probabilmente c’era bassa marea» scrive Leona, 7 anni, che forse è stata con i genitori sulle coste a basso fondo del Mare del Nord. È impareggiabile, poi, il dialogo tra Mario, 9 anni, e Thomas, 7: «Costruisco col Lego una torre fino a Dio – dichiara Mario –. Così salgo fino a lui!». «Poi caschi di sotto – commenta imperturbato Thomas – e muori». «Tanto – ribatte fulmineamente Mario – se muoio torno subito su». Dio come stimolo, come sfida, ma anche come consolazione, come sicurezza ultima. Ed è di questo che hanno bisogno i bambini quando si allontanano per sviluppare l’autonomia e l’autocoscienza. Proprio nelle storie, ma anche nelle immagini, si creano spazi simbolici «per sopportare il fatto di essere soli senza sprofondare nella solitudine, per far fronte ai compiti e alle sfide di questo mondo senza perdersi, per reggere al dolore e conservare la speranza», come scrive la pedagoga della religione Helga Kohler-Spiegel.

Immagini e spazi simbolici confortano, rendono sopportabili le perdite: «Il mio angelo custode è mio fratello – scrive Aulona, 11 anni –. Purtroppo è in cielo… Non l’ho conosciuto bene ma so che aspetto aveva. Se fosse ancora vivo avrebbe 13 anni. È il mio angelo custode e lo sarà sempre». Ad ascoltare le storie che i bambini raccontano di Dio vi si scoprono dei veri tesori e messaggi: una fiducia nelle proprie capacità che può essere vissuta soltanto se ci si sente protetti da legami e rapporti sicuri, con Dio, con l’angelo custode. È la fiducia nel lieto fine, non come in una soap opera o in un drammone hollywoodiano, bensì grazie alla consapevolezza di poter fare conto sulle forze creative delle proprie idee e fantasie, sul potenziale delle immagini interiori (di Dio). I bambini si esprimono in storie nelle quali descrivono dettagliatamente esperienze (religiose). Riflessivi e dotati di senso dell’umorismo, raccontano storie su «Dio e il mondo», sulla gioia e la sofferenza, sulla paura e il modo di affrontarla, sul desiderio di un angelo custode che ci tenga una mano sul capo e di un Dio amorevole che ci dia sostegno e protezione.

Anselm Grün e Jan-Uwe Rogge – avvenire.it

Esperienza religiosa e psicologia

Giovanni Cucci – La Civiltà Cattolica – Elledici

di Pietro Andrea Cavalieri – Città Nuova

per acquistare il libro clicca qui

Nella società di oggi, a differenza di quanto comunemente si creda, è notevolmente aumentato il bisogno di dare un significato alla propria vita, è cresciuto l’interesse nei confronti di esperienze spirituali in grado di appagare la “fame di senso” che caratterizza l’uomo contemporaneo. La dimensione religiosa si conferma, anche per il nostro tempo, una realtà che non può di certo essere eliminata, né tanto meno ignorata dalla ragione e da tutte quelle discipline che, a vario titolo, indagano sull’uomo e sulla mente umana.
 
Lo psicologo americano William James, più di un secolo fa, auspicava un costruttivo dialogo fra esperienza religiosa e psicologia. Sono trascorsi tanti anni, ma un tale auspicio risulta ancora oggi clamorosamente disatteso e notevoli elementi di diffidenza permangono fra quelle che potremmo definire “le due parti in causa”.
 
In verità, soprattutto in questi ultimi decenni, non sono mancati incoraggianti segnali di un reciproco e graduale avvicinamento. All’interno dell’esperienza religiosa è maturata sempre più l’esigenza di un confronto aperto con le scienze umane e la disponibilità a mettersi in discussione. Nell’ambito della psicologia sono venute meno quelle aprioristiche e rigide preclusioni che un tempo riducevano la vita spirituale ad un evento puramente “illusorio”, se non addirittura “patologico”.
 
Al non facile dialogo fra esperienza religiosa e psicologia Giovanni Cucci, gesuita e docente di psicologia alla Gregoriana, dedica un bellissimo libro, intessuto di spunti molto originali e ricco di dense riflessioni, supportate da una vasta e puntuale bibliografia. Con uno stile lineare, che coniuga felicemente la chiarezza espositiva allo spessore della ricerca teorica, l’autore passa in rassegna alcune fra le più complesse problematiche che contraddistinguono il confronto fra il sapere della fede e il sapere della psicologia.
 
Attraverso una serrata analisi delle argomentazioni con cui Freud critica la religione, Cucci affronta una questione di fondo molto rilevante. Le riserve espresse dalla psicoanalisi nei confronti della religione compromettono definitivamente ogni possibilità di dialogo? O, piuttosto, costituiscono soltanto un “apparente” ostacolo? Un ostacolo, cioè, che può trasformarsi di fatto in una preziosa risorsa per entrambe le prospettive di conoscenza?
 
Pur riconoscendo su diversi punti come datata e criticabile la riflessione di Freud, Cucci sa cogliere in essa preziosi spunti in grado di trasformarla in una risorsa, in un utile strumento di “purificazione” del discorso religioso. Sulla scia del filosofo francese Ricoeur, egli ritiene che l’esito finale di un confronto fra religione e psicoanalisi non sia tanto la distruzione della religione stessa o, più in generale, della morale, quanto piuttosto un invito a tornare alle origini, una messa in guardia dalle deviazioni e dalle chiusure autoreferenziali, una salutare critica ad atteggiamenti narcisistici e consolatori, che spesso contraddistinguono il discorso religioso.
 
Le critiche di Freud, in realtà, possono favorire il superamento di una impostazione religiosa esclusivamente fondata sul dovere. Possono condurre ad una fede e ad una morale capaci di valorizzare il desiderio, senza considerarlo un possibile avversario. Esiste, infatti, una “patologia del dovere” in grado di imprigionare l’uomo e il suo sano desiderio di vivere.
Se, per un verso, il rigido formalismo delle norme e delle leggi rassicura e fornisce certezze, per un altro verso esso espone la proposta religiosa al rischio di tramutarsi in un impoverimento dell’esistenza, in una sterile collezione di divieti, in un ostacolo al desiderio, in un disconoscimento del valore della coscienza.
 
Freud, inoltre, ha intuito l’esistenza di una forte correlazione fra funzione del padre e rappresentazione di Dio. Tale geniale intuizione ha aperto la strada ad una serie di riflessioni, approfondite poi da altri psicoanalisti, che pongono in rilievo l’importanza delle figure genitoriali e della vita affettiva nello sviluppo religioso durante l’infanzia. La fiducia di base, che il bambino acquisisce in famiglia, risulta decisiva non solo per una positiva visione di sé e del mondo circostante, ma anche per il suo stesso sviluppo religioso e morale, per l’originarsi in lui di una significativa relazione con un Dio Padre che lo ama personalmente e con affetto materno.
 
Da Freud in poi la psicologia ha considerato Dio come una rappresentazione interna nella quale confluisce l’intero patrimonio di conoscenze, di affetti, di relazioni che caratterizzano il corso dello sviluppo di ciascun essere umano. Al di là del professarsi credente o non credente, la rappresentazione che ognuno ha di Dio riveste un ruolo molto significativo sulla sua psiche, sulla sua visione della vita, sulla concezione di se stesso e del mondo.
Cucci sottolinea come la rappresentazione di Dio non sia da leggersi in un’ottica rigidamente intrapsichica, ma trovi un suo fattore decisivo nella relazione, nell’esperienza affettiva realmente vissuta dal bambino e nel livello di maturazione che ne discende.
 
La rappresentazione di Dio costituisce una condizione di base, una visione da cui può scaturire la decisione di aprirsi alla vita, di giocarsi con fiducia o di chiudersi per paura di subire nuove e ulteriori ferite. Se vengono meno le relazioni sperimentate all’insegna della fiducia, dell’affetto, dell’ordine, l’essere umano si ripiega in se stesso, si rifiuta di vivere, sprofonda nei più complessi labirinti della sofferenza psichica.
 
La rappresentazione di tipo religioso svolge, in ogni uomo, l’importante compito di unificare il suo sviluppo cognitivo, affettivo, interpersonale, facendolo poi sfociare in una significativa e coerente visione della vita.
Non a caso, psicologi di orientamenti diversi concordano nell’affermare che l’evoluzione del senso religioso coincide, per molti aspetti, con le principali tappe che segnano lo sviluppo psichico di ogni bambino. In questa prospettiva, Dio diventa “una totalità di senso” che non rimanda ad una astratta dimensione concettuale, quanto piuttosto ad una convinzione, ad una “fiducia di base”, alla possibilità cioè di “potersi fidare” perché fidarsi ha “senso”.
 
Freud ha associato l’illusione alla fede religiosa. Gli psicanalisti a lui successivi hanno invece scoperto nell’illusione non un elemento negativo da eliminare, ma un aspetto basilare per lo sviluppo delle capacità ideative e affettive del pensiero umano. L’illusione racchiude in sé l’inestimabile potere di attribuire nuovi significati, di leggere in modo creativo la realtà, di plasmarla e di intervenire su di essa modificandola.
 
La critica di Freud, a giudizio di Cucci, è in realtà rivolta ad una religiosità magica che offre illusioni e garanzie a buon prezzo, fatta di ipocrisia, di superstizione, di paura e di immaturità psichica. L’attacco di Freud a questo tipo di esperienza religiosa costituisce di fatto un invito a “purificare” un certo modo di vivere la fede, da cui nessuno è esente, e a superare una relazione con Dio interpretata in termini puramente legali.
 
Tuttavia, osserva Cucci, l’esperienza religiosa cristiana è molto ben diversa dalla religiosità, per lo più naturale e spontanea, a cui si riferisce l’analisi freudiana. L’esperienza cristiana smentisce clamorosamente l’interpretazione che Freud dà della fede come risposta illusoria al bisogno reale, alla paura dell’ignoto e della morte.
Se la paura della morte sarebbe all’origine della fede, allora è necessario ricordare che per il cristiano la morte in croce di Gesù costituisce l’evento centrale del suo credo. Un Dio che muore in croce, che esalta i poveri e i piccoli, che invita alla gratuità e al dono di sé, è un Dio psicologicamente “disfunzionale” ad una esperienza religiosa che nasce, invece, dal bisogno e dalla paura.
 
Altro argomento, a cui il libro di Cucci dedica un considerevole spazio, è il rapporto fra morale e religione. La riflessione della psicoanalisi e della psicologia sul tema della moralità non è molto vasta, né adeguatamente approfondita. Per Freud l’agire etico non è alimentato da una motivazione interiore. Esso, piuttosto, è il risultato di un compromesso tra istanze pulsionali e divieti interiorizzati, a loro volta imposti dalla famiglia e dalla società. La morale, nella prospettiva psicoanalitica, rimanda alla patologia di chi non riesce ad esprimere le proprie pulsioni, alle dinamiche repressive tipiche della nevrosi.
L’attuale ricerca, invece, mostra come il bambino, sostenuto da adeguate relazioni affettive, apprenda le regole morali prima ancora che abbia luogo un conflitto in lui o nel rapporto con i genitori.
 
La rigida conformità a regole imposte dall’esterno sarebbe in realtà da collegarsi ad un carente sviluppo del bambino e delle sue potenzialità. A interessarsi dello sviluppo morale, senza subire l’interferenza di limitanti preconcetti, è stata la psicologia dello sviluppo, soprattutto attraverso gli apporti di Piaget e Kohlberg. Quest’ultimo, più del primo, ha saputo cogliere il forte nesso che unisce fra loro cognizione e affetto nello sviluppo morale del bambino.
Le riflessioni di Kohlberg sul senso morale, però, non tengono in alcun conto dell’elemento religioso e si muovono nell’ambito di concetti già espressi dal “contrattualismo” tipico della filosofia moderna. In questa prospettiva contrattualista il criterio di riferimento della morale è costituito dalla tutela della libertà individuale e dalla necessità di garantire relazioni di giustizia.
 
Ma, si chiede Cucci, cosa accade quando si profila una “asimmetria” fra il mio agire e quello dell’altro? Quando, cioè, il “contratto” non funziona e il giusto contraccambio non è garantito? Quando la fedeltà ai valori e la coerenza morale non sembrano pagare? Di fronte a queste situazioni, per rimanere fedeli ai modelli di comportamento prescelti, è necessario un ideale più alto, occorrono delle motivazioni interiori di gran lunga diverse da quelle prodotte dal freddo calcolo economico o dal semplice compromesso a carattere contrattualista. E’ possibile, incalza Cucci, una morale senza religione?
Nella vita umana ogni scelta implica una rinuncia a qualcos’altro. Ogni scelta rimanda l’uomo alla realtà del suo essere limitato, alla necessità ineliminabile della rinuncia. Si tratta di un “ascetismo naturale” che implica la capacità di vivere l’essenziale, di “morire a se stessi”.
 
In definitiva la ricerca di una pienezza di vita nelle proprie scelte rimanda sempre alla necessità di trovare “il significato della propria morte”. Ed è in questa inevitabile ricerca di significato che si inserisce “la possibilità di una relazione salvifica con la morte di Cristo”. Rapportarsi con essa dà al credente la possibilità di “saper morire” ogni giorno, nelle azioni e nelle decisioni della sua vita quotidiana. Come se “imparare a morire” sia al contempo il segreto per “imparare a vivere”. Da ciò consegue che ogni scelta morale rivela sempre in sé una forte connotazione religiosa. Ogni scelta morale, infatti, costituisce una “affermazione di vita” di fronte al proprio limite, alla propria morte.
 
“Il problema che la rinuncia pone all’atto morale concreto della persona – afferma Cucci – indica come la prospettiva cognitiva, così come quella contrattualista, risultino insufficienti a fornire una risposta appropriata”. Rinunciare ai propri bisogni, scegliere di “morire” ad essi, è possibile solo ponendosi in una prospettiva che invita ad “uscire da se stessi” e che si è confrontata in modo esplicito con la verità della propria morte.
 
Tale prospettiva può essere motivata e sorretta soltanto dall’orizzonte autotrascendente dato dalla fede, cioè “dall’atto di consegnarsi all’Altro da sé”. Infatti, la pienezza totale a cui aspira l’uomo è fuori dalla sua portata, non può essere conquistata, ma soltanto accolta come “dono”. Qui, avverte Cucci, ci troviamo di fronte al paradosso fondamentale dell’esistenza umana: “la realizzazione di sé non si raggiunge quando è cercata come fine in se stesso, ma arriva in modo indiretto, non intenzionale, senza calcoli, come espressione del dono di sé”. In questo paradosso, al pari della soddisfazione e del piacere, la pienezza di sé arriva sempre come “momento secondo”.
 
I capitoli dell’ultima parte del libro sono dedicati al tema della conversione e della mistica. In essi, con puntuali argomentazioni, l’autore pone in evidenza la sanità psicologica dell’esperienza di fede e sfata molti luoghi comuni ancora duri a morire. Di particolare rilievo sono le riflessioni sul ruolo del gruppo nell’esperienza di conversione e l’accento sulla corporeità nell’esperienza mistica. Il libro si chiude con un interessante e originale capitolo su alcuni “luoghi privilegiati” dove il discorso di Dio può trovare espressione: l’eros, l’immaginazione, la bellezza, il simbolo, il gioco.
 
Un filo d’Arianna attraversa l’intera opera e conduce alla conclusione che psicologia e fede possono dialogare. Anzi, il loro dialogo risulta fondamentale per entrambe, in una reciproca e circolare tensione dialettica tra credere e comprendere. Il confronto critico con la psicologia può aiutare la fede di matrice cristiana a purificare se stessa da pericoli, ambiguità e derive malate che ancora oggi la insidiano, restituendola ad una salutare “ingenuità” e soprattutto all’immediata semplicità delle origini. La fede cristiana, d’altra parte, è in grado di fornire alla ricerca psicologica un prezioso contributo, offrendo ad essa quelle basilari risposte sul senso dell’esistenza a cui l’uomo di oggi è tanto interessato.
 
Dopo aver finito di leggere il libro di Cucci, si ha la netta sensazione di avere fra le mani un dono, quasi un atto d’amore, che l’autore ha voluto consegnare al suo lettore, non solo per informarlo del suo sapere, ma anche per condividere con lui la sua più intima esperienza di uomo di fede e al contempo di studioso della psiche umana.