La via dello spirito. Il 20 luglio di settantacinque anni fa moriva Paul Valéry

Gabriel Courderc «L’ingresso al porto di Sète» (1942)

Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova, Paul Valéry sperimentò una crisi esistenziale che gli avrebbe cambiato la vita. Una notte che evoca echi manzoniani, nella figura dell’Innominato: anche lui, in quella fatidica notte che culminò nella conversione, «si spogliò dell’animo antico» dopo essere passato sotto le forche caudine di un processo catartico sviluppatosi in un «covile di pruni», in un letto «duro, duro».

All’alba del 5 ottobre il poeta, scrittore e filosofo francese (il 20 luglio ricorrono i 75 anni dalla morte) decise di ripudiare gli idoli della letteratura per consacrare la sua vita a ciò che indicò come «la via dello spirito». Questa decisione è attestata nei suoi cahiers, diari nei quali annotava ogni mattina le sue riflessioni. In un passo di questi diari scrive: «Avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno».

Alla luce di queste considerazioni sorge, legittimo, l’interrogativo: aveva Valéry bandito la poesia dalla sua vita? La risposta è no, sebbene ci tenesse a puntualizzare che «ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore» e affermasse di condividere il giudizio di Francois de Malherbe secondo cui «un buon poeta non è più utile al suo Paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce». Aveva 21 anni Valéry quella notte, da lui ripetutamente indicata come l’inizio della sua «vera nascita». Trasferitosi dalla città natale Sète a Parigi, cominciò a lavorare come redattore al ministero della guerra, rimanendo lontano dalla scrittura poetica.

Ad impegnarlo assiduamente era la compilazione dei diari, manifesto del suo pensiero intellettuale e del suo profilo psicologico (questi cahiers saranno pubblicati, non tutti, solo dopo la sua morte). Spicca in essi la critica ai concetti «vaghi e impuri» — quali spirito, metafisica, interiorità — di cui si serve la filosofia.

Ma era destino che dopo le prime prove attuate da giovanissimo, Valéry ritornasse nell’alveo della poesia: un ritorno caldamente incoraggiato da André Gide.

Vedranno quindi la luce La Jene ParqueLe Cimitière marin e una raccolta intitolata Charmes. In questi componimenti è palpabile l’influsso di Stéphane Mallarmé, che lo portò a privilegiare il formale dominio della parola a scapito, talvolta, sia del senso che dell’ispirazione. Al riguardo, la mente corre alla celebra sentenza di Oscar Wilde: «Pur di tessere e custodire la bellezza di un verso, sarei disposto a gettare la verosimiglianza dalla finestra».

Le sue poesie gli valsero una fama chiarissima dopo la prima guerra mondiale, tanto da divenire una sorta di “poeta ufficiale”. Fioccarono di conseguenza prestigiose cariche pubbliche: nel 1924 venne eletto presidente del Pen Club francese e l’anno seguente membro dell’Académie francaise. Il discorso tenuto in onore del suo predecessore, come da tradizione dell’Académie, è entrato nella storia perché durante l’orazione non pronunciò mai il nome di Anatole France, reo di aver rifiutato a Mallarmé una pubblicazione su «Le Parnasse contemporain».

Valèry affermava che la sua poesia doveva mandare l’immagine di una festa per l’intelletto: «Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente» soleva dire. La sua poesia tende ad affrancarsi dalle impurità e dalle scorie che una sovrastruttura intellettuale inevitabilmente lascia. Qual è dunque il suo obiettivo: una poesia che sia culla di gioie e di tormenti, e che, al contempo, si configuri come uno specchio dove possa rimirarsi senza sosta e con fierezza la forza dell’intelligenza.

A Valéry notoriamente si lega il concetto di “poesia pura”. Con l’aggettivo “pura” egli precisa il fondamento della poesia, che è lo studio che la poesia fa. Si tratta di uno studio complesso delle complesse relazioni che si stabiliscono tra il linguaggio e gli effetti che esso produce sui lettori. La sua poetica si scinde in due: il significato razionale e critico, e lo studio attento e certosino del linguaggio.

Il linguaggio, in Valéry, stabilisce un ordine preciso, e tale ordine ha bisogno della parola, unica e sola a farsi «saggia e universale». «La poesia — scrive — è il tentativo di rappresentare o restituire attraverso il linguaggio articolato queste cose o questa cosa che oscuramente tentano di esprimere le grida, le lacrime, le carezze, i baci, i sospiri».

A conferma del controllo formale del testo cui Valéry teneva in maniera spasmodica c’è il fatto, rilevato da più di un critico, che se si volesse separare un verso da un altro, l’impeccabile tessitura da lui ordita e la configurazione ritmica da lui forgiata si frantumerebbero.

Esemplare, in merito, è il celebre verso, contenuto ne Le Cimitière marin, che così recita: La mer, la mer toujours recommencée. In questo verso il mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda e, allo stesso tempo, il suo doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours) e con un ritorno senza fine (recommencée): un ritorno che è rinascita, una partecipazione, di carattere affettivo, a una creazione che sempre ricomincia. Il poeta contempla il mare non da una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le tombe dei marinai e dei pellegrini. La contemplazione del poeta entra in simbiosi con l’onda marina istituendo così un andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare — nella quiete e nell’ardimento, nel dubbio e nell’attesa —, dentro un tumulto che è vita.

Nella prima sestina de Le Cimitière marin il poeta scrive: «Un tetto calmo corso da colombe palpita in mezzo ai pini e tra le tombe. Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta il mare, il mare sempre rinascente! Dopo un pensiero, che dono lucente guardare a lungo degli la quiete». Un «monologo del mio io» dirà Valery del suo componimento: «Un monologo nel quale prendono suono e forma — osserva il critico letterario Antonio Prete — i temi della sua vita affettiva e mentale». Rievocando, molti anni dopo, Le Cimitière marin, il poeta dirà che il primo movimento verso la scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di sillabe vane, che era diventata un’ossessione: insomma, una frase musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura metrica del decasillabo. Allo stesso tempo — rileva Antonio Prete — quella misura, mentre risuonava, mostrava di su di sé «l’ombra dei dodici», il numero sillabico alessandrino, con la sua «potenza», e a quella soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle strofe).

Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino; per contro, attivare la sonorità del decasillabo, con una mobilità di cesure interne, significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione che coniuga ragionamento e contemplazione. «È singolare — sottolinea Antonio Prete — come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del pensiero ed offra ad essi una dimora musicale».

di Gabriele Nicolò / Osservatore Romano