Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

Con-work e Con-study: due iniziative che partono dal primo novembre nella chiesa di Santa Maria di Gesù di Catania per aiutare i giovani studenti e i professionisti a combattere l’isolamento

Il convento: venite qui per smart working e studio

Si chiama Con-work ed è lo smart working in convento. L’idea è stata lanciata da fra’ Massimo Corallo, parroco della chiesa di Santa Maria di Gesù di Catania con l’intento di aiutare i giovani professionisti, fornendo anche fornire una risposta per superare le difficoltà post-Covid di chi, non potendo far fronte alle spese necessarie dell’affitto di studi o di postazioni di co-working, è costretto a lavorare da casa in costante isolamento. In questo senso si è mossa la parrocchia catanese decidendo di concedere gratuitamente una sala del convento, adibita a spazio di co-working al servizio dei professionisti non solo catanesi. Il nome del progetto, “Con-work”, partendo dal concetto di co-working, mediante l’inserimento della “N”, lo contestualizza nella realtà del convento, enfatizzandone al contempo la condivisione della relazione con gli altri.

“Vogliamo mettere in pratica l’idea di ‘Chiesa in uscita’ tanto voluta da papa Francesco – ha spiegato Fra Massimo ad alcuni giornali locali che gli chiedevano dell’iniziativa – la mission consiste nel combattere l’isolamento domestico fornendo l’opportunità di uno spazio in cui non soltanto svolgere le proprie attività professionali ma anche relazionarsi con gli altri, favorendo quindi la socialità“.

Va ricordato inoltre che il primo novembre a fianco degli spazi di “Con-work” vengono inaugurate anche le aule “Con-study“: altro progetto di “condivisione sostenibile degli spazi” pensato per gli studenti del liceo e dell’università, affinché possano trovare il silenzio e la fraternità di cui c’è bisogno per dare il massimo nello studio. Come gli spazi di co-working anche le aule studio sono a disposizione dal lunedì al venerdì, dalle 8:30 alle 20:30.

Oltre al parroco fra’ Massimo Corallo un gruppo di un cinque giovani professionisti: Epifanio Chiavetta, Rachele Soma, Irene Fatuzzo, Francesca Magrì e Giuseppe Furneri hanno attivamente collaborato per rendere possibili tali iniziative e dare vita a questi nuovi spazi comunitari.

Il tema del Sinodo era: “Testimoni e annunciatori della misericordia di Dio”, declinato in cinque ambiti: la comunità cristiana, la famiglia, i presbiteri, i giovani e i poveri

di: Gabriele Ferrari – settimana news

Apertura del Sinodo diocesano

Da ventidue anni abito nella casa saveriana di Tavernerio (Como) e, concluso il periodo di insegnamento nel Seminario nazionale del Burundi, sono ora impegnato nella vita della diocesi di Como. Il Vescovo mi ha nominato delegato episcopale per la vita consacrata e, come tale,  faccio parte del Consiglio episcopale. Vivo quindi da vicino la vita di questa Chiesa. A partire dal 2017 il Vescovo mi ha chiesto di partecipare alla progettazione del XI Sinodo diocesano di cui sono poi diventato membro effettivo. In questa veste, ma a titolo del tutto personale, offro un primo sguardo incompleto e provvisorio, del Sinodo da poco tempo concluso.

Il XI Sinodo diocesano della Chiesa di Como, indetto il 31 agosto 2017 ed inaugurato dopo la fase preparatoria e la consultazione del popolo di Dio, il 12 gennaio 2020, è giunto alla sua conclusione il 4 giugno 2022.

Il tema del Sinodo era: “Testimoni e annunciatori della misericordia di Dio”, declinato in cinque ambiti: la comunità cristiana, la famiglia, i presbiteri, i giovani e i poveri. Ben presto ci si è resi conto di aver messo troppa carne al fuoco.

Per questo il 26 settembre del 2020 (3a sessione sinodale) i sinodali hanno votato una mozione presentata dalla presidenza del Sinodo che concentrava l’attenzione su un unico tema: “Misericordia e comunità cristiana”. Tuttavia, come era facile prevedere, anche gli altri quattro ambiti, in modo surrettizio, sono rientrati nell’unico tema sinodale.

Il numero dei sinodali, gli eletti dalla base, i membri di diritto e quelli nominati dal Vescovo, era 288, di essi 199 erano uomini e 89 le donne, 174 i laici, 88 i presbiteri, 4 i diaconi permanenti, 21 i consacrati e le consacrate e un seminarista. La loro età media era 53 anni; i giovani tra i 20 e i 30 erano 22. Il Sinodo si è concluso lo scorso 4 giugno 2022, vigilia di Pentecoste, in Cattedrale, dopo quasi cinque anni dall’indizione e dopo 12 sessioni sinodali plenarie, due delle quali on line a causa della pandemia.

Il Documento finale, approvato dal Sinodo nella 12° sessione (21 maggio 2022), è composto di 136 proposizioni ed è stato presentato al Vescovo Oscar nel corso della celebrazione eucaristica conclusiva, il 4 giugno 2022. Esso sarà promulgato con apposito documento dal Vescovo Oscar, appena saranno conclusi gli impegni legati alla sua nomina a cardinale, annunciata dal Papa lo scorso 29 maggio.

Ripensando al cammino percorso, si possono già fare alcune prime considerazioni.

  • Il Sinodo è stato un tempo di grazia che ha fatto crescere la coscienza ecclesiale del popolo di Dio, nell’ascolto comunitario della Parola, nel bisogno di essere insieme. La consultazione previa della comunità diocesana è stata ben partecipata e coinvolgente, anche se non è riuscita a produrre una riflessione profetica, aperta non solo al mondo di oggi ma anche al futuro. Sarà un compito per il post-sinodo proiettare le proposte del Sinodo nel futuro della pastorale diocesana.
  • È stato tuttavia un esercizio di autocoscienza, prezioso ma impegnativo per mancanza di abitudine alla ricerca comune e all’ascolto reciproco. I sinodali divisi in oltre venti circoli territoriali, hanno via via affrontato gli argomenti che l’Instrumentum laboris proponeva e, sempre illuminati dalla Parola di Dio e dalle puntuali indicazioni del Vescovo Oscar, sono riusciti a superare la fatica del ricercare punti di equilibrio fra le molte opinioni, e la stanchezza prodotta anche dalla pandemia che ha accompagnato i lavori sinodali.
  • La fatica fatta nella elaborazione del documento finale e, prima ancora, nella conduzione dei lavori dell’assemblea, delle commissioni prima e dei gruppi territoriali di riflessione, è stata ampiamente ripagata anche se non tutti gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti. Credo che si possa dire che è cresciuta coscienza di Chiesa, il senso di corresponsabilità e di comunione superando i limiti oggettivi della struttura geografica della Chiesa di Como molto estesa e composita che si estende su tre diverse province.
Che cosa ci ha insegnato il lavoro sinodale?

La prima “scoperta” (se così la si può chiamare) è stata la grande varietà di ambienti, di approcci pastorali e di persone e quindi di pareri e opinioni che caratterizza la diocesi di Como. Di qui il bisogno di “convenire”, di ascoltarsi e di dialogare per approfondire la comunione nella corresponsabilità, comunione che non è un’uniformità che livella, ma un comune sentire e volere, in una parola, la sinodalità della Chiesa.

È quindi emerso il bisogno di ascolto delle molte voci, prima di pretendere di armonizzarle in una sinfonia pastorale. Dalla lettura dei risultati della consultazione preliminare fino alle proposte di modifica nel corso dei lavori sinodali è emerso il bisogno di cercare ancora insieme e di discernere quello che riguarda il futuro della nostra Chiesa, per non rimanere vittime della passività, della dispersione e del clericalismo.

Di fatto il lavoro sinodale ci ha avvicinato mostrando – a chi la voleva vedere – l’azione discreta e silenziosa dello Spirito che ha trasformato il Sinodo in una “conversazione spirituale” tra i sinodali e tra di loro e il primo Interlocutore, lo Spirito, emersa anche nella votazione finale del Documento.

Un altro insegnamento emerso dai lavori sinodali è il bisogno che il Sinodo avrebbe avuto di un più puntuale e continuo discernimento. Questo è forse ciò che più è mancato nel lavoro sinodale. D’altro canto, il discernimento è un compito impegnativo perché richiede tempo e pazienza e perché non è un’operazione spontanea. Malgrado l’intervento di un gesuita esperto in materia, non abbiamo saputo mettere in pratica quello che egli ci ha insegnato: la teoria era per sé chiara, ma non lo è stata altrettanto la sua applicazione pratica.

Pur sapendo che lo Spirito parla attraverso i piccoli e i semplici, abbiamo anche compreso che Egli parla e istruisce la Chiesa attraverso competenze che non sono date a tutti. Soprattutto su temi complessi non si deve correre il rischio, verificatosi puntualmente anche nel nostro Sinodo, di pronunciarsi sulla base di sensazioni o emozioni o rappresentazioni non fondate o verificate nella realtà.

La più importante scoperta fatta durante il Sinodo è che esso è stato un evento di grazia, il cui metodo (la “sinodalità”) deve rimanere come un “modulo” per la vita delle comunità cristiane. Il Sinodo quindi non si è concluso il 4 giugno u.s. in Cattedrale. “Una conclusione, cioè un nuovo inizio” è stato il tema dell’omelia del Vescovo alla fine del Sinodo. Lo stile sinodale deve rimanere come stile e metodo della Chiesa di Como da mettere in atto ai diversi livelli di comunità, locale, vicariale e diocesana. La “sinodalità” come la comunione e la missione è lo spirito e il metodo della Chiesa nell’evangelizzazione.

Elementi di criticità emersi nel corso del Sinodo

Un primo elemento di criticità è stato il numero eccessivo dei sinodali. Una assemblea di quasi trecento persone è difficile da guidare in modo che ciascuno se ne senta davvero parte attiva. Questo spiega – almeno in parte – il diradarsi della partecipazione e una certa stanchezza o disaffezione che è progressivamente emersa fino a giungere ai 183 votanti nell’ultima assemblea. Anche la molteplicità dei temi e la metodologia cambiata in corso d’opera hanno distolto certi sinodali dal perseverare nel cammino.

Un altro elemento oggettivo di criticità, difficilmente rimediabile, è la composizione geografica e culturale della diocesi di Como che si estende su tre province, Como, Sondrio e Varese con sensibilità umane e pastorali molto diverse tra loro. Pensare a scelte uguali o omogenee è fuori della realtà. Del resto, anche a prescindere dalle differenze geo-culturali, le attese erano troppo disparate: chi dal Sinodo attendeva un codice di norme per tutti, chi soltanto una legge quadro, chi nessuna delle due ipotesi, ma solo una generica spinta profetica che aprisse gli orizzonti della nostra Chiesa.

Il risultato finale – presente però dall’inizio – ha rivelato una comunità cristiana abbastanza introversa, che rischia di dimenticare che la Chiesa esiste per gli “altri” (“Andate in tutto il mondo”) e non anzitutto per il benessere dei fedeli. Anche a Como ci sono molti non cristiani, molti cristiani indifferenti oltre a molti genuini cercatori di Dio che però rimangono al margine della nostra pastorale. A parecchie riprese il Vescovo ha richiamato il Sinodo a essere profetico, concreto e missionario, attento a chi non varca le soglie delle nostre chiese, a diventare una “chiesa in uscita”, come suggerisce Papa Francesco.

Una sorpresa e un frutto insperato

Il protrarsi del tempo del Sinodo, dovuto soprattutto alla pandemia, ha sicuramente complicato il lavoro sinodale e ha contribuito a diluire l’attenzione dei sinodali. Ma questo non è stato solo un elemento di criticità che si è aggiunto.

È stato anche un provvidenziale appello a cercare di comprendere ciò che Dio voleva dire alla Chiesa di Como, l’occasione per concentrarci sull’essenziale della fede, rendendoci conto della crisi già in atto nella Chiesa già prima della pandemia. Ci ha anche costretti a individuare vie nuove per la missione. “Nella fine è l’inizio” è stato uno slogan di questo tempo.

E il Sinodo potrebbe esserne la prova anche se cambiare è sempre impegnativo e la strada conosciuta è sempre un richiamo che pericolosamente attira più che la proposta di una nuova via.

Riflettendo sulla misericordia di Dio abbiamo scoperto che non è ciò che Dio fa, ma chi è Dio e ci siamo convinti che la misericordia deve essere, come detto dal Papa, “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa”, anche della Chiesa di Como, chiamata ad essere una Chiesa che non giudica ma accoglie, che non esclude ma include, che non conta sui suoi mezzi e strutture ma una Chiesa povera e semplice che conta solo sulla misericordia ricevuta e offerta.

Ci siamo accorti di essere lontani da questo traguardo. Il vescovo Oscar l’aveva detto nella messa crismale del 2020: “Siamo sicuri che ne uscirà una nuova immagine di Chiesa più povera, più umile, meno dotata di strutture, ma forse più accogliente, non giudicante, amica degli uomini e in cammino con loro a immagine di Gesù”.

Lo stesso concetto è stato ripreso dal Vescovo nell’omelia della celebrazione conclusiva del Sinodo: “La Chiesa è infatti chiamata a diventare un segno vivo, una presenza semplice, ma trasparente della misericordia di Dio, della sua tenerezza e del suo amore di Padre”. Riuscirà la Chiesa di Como a diventare una chiesa più popolare e solidale e soprattutto una chiesa sinodale, come la desidera papa Francesco e come essa è e deve essere?

Il Sinodo della Chiesa di Como, pur precedente nella sua indizione, si sta intrecciando con il cammino sinodale della Chiesa italiana che, pungolata da Papa Francesco, ha finalmente messo in moto un proprio cammino sinodale e nello stesso tempo, non può ignorare il sinodo che il Papa ha proposto alla Chiesa universale che prevede addirittura due anni di sinodo.

Il Sinodo comasco si inserisce quindi in questo auspicato processo di rinnovamento e di “conversione pastorale e missionaria” della Chiesa di cui sentiamo il bisogno in questo tempo di transizione verso il “cambiamento d’epoca” che stiamo faticosamente vivendo.

Settimana News

Nei prossimi mesi diversi gruppi di giovani parteciperanno, in qualche modo, a iniziative ecclesiali: è il momento opportuno di dare loro la parola in una sorta di versione estiva del Sinodo (oltre l’evanescenza del Sinodo 2018)

C’è una felice coincidenza nel calendario: da una parte le lezioni stanno per finire, restituendo a molti ragazzi un necessario tempo libero, che in diversi casi verrà presto occupato da molteplici attività estive — tra le quali, in molte parti d’Italia, anche alcune forme di volontariato di ispirazione ecclesiale. Dall’altra i risultati resi pubblici dei primi lavori sinodali, che manifestano una sana preoccupazione che diventa anche una lamentatio: nell’ordinario delle comunità cristiane i giovani sono i grandi assenti. Di per sé, il fenomeno non è certo nuovo: negli ultimi decenni se ne parla con frequenza via via maggiore. Addirittura è stato convocato un Sinodo a tema giovanile (2018) che a quanto pare non ha prodotto molto, se ancora si brancola nel buio, almeno in molte parti dell’Occidente (allarghiamo un po’ lo sguardo oltre il nostro orticello) tra fatiche enormi a capire cosa vivono i ragazzi e le ragazze di oggi, mancanza di visione degli adulti, proposte vetuste che allontanano più che avvicinare, gabbie ideologiche novecentesche che con ostinazione vengono calate, miopia nell’interpellare chi lavora quotidianamente con i giovani.

Dunque, da una parte un’emorragia quasi senza pausa, che lascia interdetti, delusi, affranti fino ad arrivare al pessimismo più nero, magari non cogliendo i semi buoni che ci sono e le figure che rimangono e ci provano, dall’altra il tempo estivo che, in qualche modo, vede una parte dei ragazzi mettersi in gioco, darsi da fare, trovare ancora qualche approdo latamente ecclesiale.

Come fare in modo che la coincidenza faccia scattare la scintilla di un nuovo cammino? Le ricette si sprecano, come le parole d‘ordine, i modelli, gli studi. Ma poi, a settembre, tutto come prima, o quasi. Riprende la routine quotidiana, che macina energie, tempo, idee… schiacciando molto spesso giovani e adulti. E i primi, lo sappiamo, troppe volte si allontanano in un movimento a fisarmonica su cui vogliamo sentirci innocenti. E su cui, alla fine, rinunciamo a educare e a farci educare.

Sarebbe bello se in quest’estate sinodale, nei mesi che arrivano, ogni comunità provasse seriamente e semplicemente a togliersi preconcetti e idee e solo osservare, solo ascoltare. Non per avere conferma di quello che già sappiamo, ma per farci letteralmente ‘convertire’ da qualcosa che i giovani possono dire agli adulti. Dovremo però dare loro spazio e tempo, fiducia e libertà. Senza la pretesa di sapere già tutto: oggi non funziona più così (ammesso che prima funzionasse). È un’estate sinodale che deve, proprio nei prossimi mesi, aprirsi ad adolescenti e giovani, che nella stragrande maggioranza non sanno nemmeno cosa sia un sinodo e cosa sta accadendo nella Chiesa in Italia. È il momento per farli davvero entrare nel cantiere. È faticoso, indubbiamente. Ma se non leggiamo nei tre mesi a venire un kairos e lo abitiamo, se non abbiamo il coraggio di mettere da parte tutto quello che è servito alle generazioni precedenti ma che oggi non funziona più, allora rimarremo a crogiolarci nelle nostre lamentele, nei nostri idealismi poco misurati e poco concreti, o nell’esaltazione acritica dei giovani, sorella un po’ più simpatica della critica feroce. È un cammino che va fatto insieme. Se almeno provassimo, in ogni gruppo, parrocchia, associazione a mettere in gioco un paio di serate per chiedere: ma tu cosa pensi e cosa sogni sulla Chiesa?

Se avessimo il coraggio di vivere una sorta di anno zero della pastorale giovanile, oltre l’evanescenza del Sinodo 2018, per provare a maturare insieme, tutti, una visione di Chiesa del futuro, dove risuoni una Parola per vite da XXI secolo…

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