Pastorale. «Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

L’Ufficio Cei di pastorale familiare ha avviato una ricognizione delle proposte attive nelle diocesi per le coppie di conviventi e per le giovani coppie. L’analisi del teologo Francesco Pesce

«Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

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avvenire.it

“Adesso che siamo andati a convivere, preghiamo insieme ogni giorno e ci sentiamo più vicini anche nella fede”. Non è una frase inventata. L’hanno detta due fidanzati a don Francesco Pesce, direttore del Centro Famiglia della diocesi di Treviso. E don Francesco, docente di teologia, l’ha raccontata in forma anonima ieri sera nel corso dell’incontro periodico tra i responsabili diocesani di pastorale familiare coordinati dal direttore nazionale dell’Ufficio Cei, padre Marco Vianelli.

Al centro del confronto il tema dell’accompagnamento delle coppie conviventi e delle giovani coppie, una questione complessa, con diverse angolazioni, su cui l’Ufficio Cei di pastorale familiare ha sentito il bisogno di mettere a confronto le diverse esperienze avviate nelle comunità. Dovrebbe uscirne un quadro esauriente per una riflessione più mirata, ma anche una serie di spunti legati alle esperienze locali, per capire qual è l’oggi l’atteggiamento del giovani – e meno giovani – che chiedono alla Chiesa di essere accompagnati nelle loro storie d’amore. Dai primi risultati si delinea una diffusione di questi percorsi – che sono diversi da quelli tradizionali di preparazione al sacramento del matrimonio – in oltre il 50% delle diocesi.

Don Francesco Pesce, che studia da tempo queste dinamiche di antropologia pastorale, ha messo in luce come il desiderio di accompagnamento, di confronto e di accoglienza delle coppie conviventi assuma diverse forme, quasi impossibili da definire con uno sguardo univoco. “Spesso, durante questi incontri – ha riferito l’esperto – mi chiedono se le coppie conviventi possono fare la comunione. La mia risposta è “dipende”, perché la varietà delle situazioni impedisce le chiusure troppo nette, ma anche la tolleranza generalizzata”. Difficile, per esempio, nel caso della coppia di cui si diceva all’inizio, quella che prega insieme con più fervore proprio grazie all’avvio della convivenza, capire se deve prevalere la considerazione positiva per il rinnovamento impegno nella fede oppure il dato problematico legato alla convivenza.

“A rigore di dottrina – ha aggiunto don Pesce – dovremmo dire che le coppie impegnate a vivere come fratello e sorella possono accedere ai sacramenti, le altre no”. Ma, ha argomentato ancora il teologo, cosa significa vivere “come fratello e sorella”? Non si tratta di uno sguardo che impoverisce il concetto di fraternità? E ancora – diciamo noi – perché per le coppie conviventi non può valere l’apertura previste dal capitolo VIII di Amoris laetitia? Don Francesco ieri sera ha citato il punto 304 dell’Esortazione postsinodale: “… meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.

Più che la norma, serve allora un confronto sereno ed autentico sulla “qualità cristiana” della vita di coppia dei conviventi. Stanno percorrendo un cammino di fede? Pregano insieme? Affrontano insieme, con un dialogo non banale, le questioni fondamentali della vita? Esprimono il desiderio di aprirsi alla vita? Si pongono il problema di avvicinarsi al sacramento del matrimonio? “Ci sono coppie di conviventi che dopo dieci anni di vita in comune – ha riferito ancora il teologo – sono ferme, anche umanamente, all’ABC della relazione e mostrano anche scarso interesse a condividere la vita quotidiana, per esempio hanno il contocorrente rigorosamente separato. E altre, invece, che vivono con pienezza umana e cristiana la loro unione”. Evidentemente la considerazione, anche sotto il profilo pastorale, non può che essere diversa. Anche di fronte a una coppia convivente lo strumento di valutazione si chiama discernimento.

Don Pesce ha parlato per la maggior parte delle coppie di un percorso che sempre più spesso segue una sorta di “cammino a tappe”. E, con un pizzico di ironia, ha elencato i vari momenti: conoscenza, innamoramento, week end insieme, poi vacanze estive, poi trasferimenti periodici l’uno nella casa dell’altra e viceversa, poi convivenza, adozione di un cane (“giusto per provare che sono in grado di prendersi cura insieme di un altro essere vivente”) e infine – quando le cose vanno bene – la grande decisione, un figlio. Al termine, se tutto ha funzionato al meglio, arriva il matrimonio. “Inutile scandalizzarsi o rimpiangere i “bei tempi andati”, anche i nostri ragazzi sono immersi in questa cultura. Cosa facciano? Prendiamo le distanze o poniamo il massimo impegno per non far sentire sole queste coppie? Perché non mostrare loro che vita quotidiana insieme è un’opportunità per crescere anche nella vita spirituale?”.

La grande sfida – ha concluso il teologo – è quella di tenere insieme l’annuncio del matrimonio sacramento e l’invito a integrare tutti. “Integrare tutti – ha argomentato – non significa oscurare il significato del matrimonio sacramento. Ma mettere al cento il matrimonio non significa neppure svalutare tutte le altre situazioni”. Che, come spiegato, sono davvero tante e comprendono persone che non vogliono o non possono in quel determinato momento della loro vita puntare al matrimonio sacramento. La Chiesa continua ad annunciare che il matrimonio è la via fondamentale per vivere l’amore in pienezza, ma tutte le altre situazioni non sono da demonizzare. Anche se non sono l’ideale della proposta cristiana per la vita di coppia, hanno in sé quei semina Verbi che una pastorale attenta e prudente ha il dovere di accogliere e di far maturare con strumenti nuovi e atteggiamenti attenti alle trasformazioni socio-culturali.

Su questa strada, i coniugi Barbara Baffetti e Stefano Rossi, collaboratori del direttore nazionale dell’Ufficio Cei, hanno illustrato le diverse esperienze avviate nei territori la cui varietà dimostra l’ampiezza della richiesta: dai percorsi per chi convive e chiede il matrimonio, ad altri finalizzati ad approfondire soltanto il legame affettivo, oppure che, a partire dalla preparazione per il battesimo dei figli, invitano a riflettere sugli snodi della vita di coppia, sugli strumenti per il discernimento, sui momenti di preghiera e di festa. Una bella e opportuna ricognizione quella avviata dall’Ufficio Cei per la pastorale familiare che continuerà nei prossimi mesi e si preannuncia densa di spunti e di proposte innovative.

Nel Messaggio inviato ai vescovi brasiliani per la Campagna di fraternità, il richiamo al bisogno di costruire una vera fraternità nel segno dell’amicizia sociale. L’esempio di Helder Camara

Il manifesto della Campagna di Fraternità
È un appuntamento che si rinnova da sessant’anni giusti giusti. Con l’avvio della Quaresima i vescovi del Brasile lanciano la tradizionale Campagna di fraternità, un’iniziativa nata a livello regionale nella seconda metà del secolo scorso a sostegno di opere sociali nell’arcidiocesi di Natal e poi estesasi a livello nazionale. Decisivo in quel senso l’impulso dato dall’arcivescovo Helder Camara (1909-1999), padre conciliare di cui è in corso la causa di beatificazione.
Quest’anno il tema guida delle iniziative è “Fraternità e Amicizia Sociale” con il motto “Voi siete tutti fratelli e sorelle” (cfr. Mt 23, 8), ispirato dall’enciclica “Fratelli tutti”. Un richiamo che papa Francesco sottolinea nel messaggio inviato ai vescovi brasiliani per il lancio dell’iniziativa. Purtroppo, scrive il Pontefice, «nel mondo vediamo ancora molte ombre, segnali della chiusura in sé stessi. Perciò, ricordo il bisogno di allargare la nostra cerchia per arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi, di estendere il nostro amore a “ogni essere vivente”, vincendo frontiere e superando “le barriere della geografia e dello spazio”». In questo senso, prosegue il messaggio, «come fratelli e sorelle, siamo invitati a costruire una vera fraternità universale che favorisca la nostra vita in società e la nostra sopravvivenza sulla Terra, nostra Casa Comune, senza mai perdere di vista il Cielo dove il Padre ci accoglierà tutti come suoi figli e figlie».
Come ricorda l’Osservatore Romano, il manifesto della campagna, realizzato da due giovani di Brasília, presenta l’ambientazione della comunità come una casa, con al centro un tavolo attorno al quale si riuniscono tutti: donne, bambini, giovani, anziani, persone disabili, di ogni origine. Un rimando al banchetto eucaristico e, come spiegano i vescovi della Chiesa brasiliana, al sacramento dell’amicizia di Dio con l’umanità. Nel manifesto compare anche papa Francesco che indossa una croce pettorale ispirata a quella che portava Camara, apostolo della Chiesa al servizio degli ultimi, nel segno dell’opzione preferenziale per i poveri.
La campagna culminerà con una colletta nazionale di solidarietà che si svolgerà il 24 marzo, Domenica delle Palme. La raccolta servirà ai fondi di solidarietà diocesani e nazionali che permettono il finanziamento di centinaia di progetti sociali in tutto il Brasile.

Le parrocchie del futuro

La trasformazione della parrocchia “classica” implica, non da ultimo, nuove ministerialità e nuove forme di collaborazione: unità pastorali, raggruppamenti di parrocchie, comunità pastorali. Su entrambi i versanti occorre ragionare, sperimentare e… investire convintamente le proprie energie.

«Esisterà ancora la parrocchia?»: questo interrogativo, che apre la serie dei contributi raccolti nel volume, interpreta una preoccupazione comune sul destino delle comunità cristiane e delle prassi pastorali legate al cristianesimo sociale.
Nella Chiesa italiana (e non solo) si stanno delineando nuovi scenari, che vanno criticamente pensati: è in atto una trasformazione della parrocchia classica, che ne chiama in causa la forma, i tempi e gli spazi di azione. Non si tratta di avviare un’operazione di “ingegneria pastorale”, quanto di disporsi a un’autentica “ecclesiogenesi”, a partire da alcune coordinate fondamentali: la pastoralità come tensione all’ascolto di Dio e dell’umano, la sinodalità, il dinamismo di riforma, la vocazione alla fraternità e sororità, l’ospitalità e il servizio, il dialogo con la realtà contemporanea. Queste e altre dimensioni, consapevolmente assunte, strutturano una pastorale in conversione missionaria, capace di misurarsi con le sfide della città e di rimodularsi valorizzando una ministerialità plurale – maschile e femminile, individuale e familiare – attraverso cui dare forma a una nuova presenza della Chiesa sul territorio, più corrispondente al sogno di Dio.

Le parrocchie del futuro

Andrea Toniolo, Assunta Steccanella (edd.)
Le parrocchie del futuro
Nuove presenze di Chiesa
Collana: Giornale di teologia 445
ISBN: 978-88-399-3445-1
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 240
© 2022

Fonte: queriniana.it

Chiesa viva e Chiesa estraniante

Chiesa viva e Chiesa estraniante: Enrico Peyretti sul settimanale diocesano di Torino

Adista
«La Chiesa sa di vecchio, per i giovani, sa di museo». La considerazione è di Enrico Peyretti e compare in un articolo pubblicato sull’edizione stampata del settimanale diocesano di Torino La Voce e il Tempo (4/12/22) con il titolo “Germogli, giovani e Chiesa”. Sono riflessioni critiche– pur nella pacatezza dell’esposizione – della Chiesa istituzione che difficilmente trovano spazio sulla stampa diocesana, sotto stretto controllo episcopale.

«Grandi ricchezze e grandi povertà spaccano la società. Le città sono come formazioni cancerogene nella natura. I giovani portano il peso maggiore di questa situazione», osserva Peyretti. «Le generazioni precedenti crescevano sui libri e sull’esperienza trasmessa, i giovani crescono sugli schermi, irreali. Il villaggio che è necessario per educare un bambino, è imbarbarito. I vicini (genitori, adulti) sono lontani, e tutto ciò che è lontano (social, immagini) è vicino, addosso, senza dimensione temporale. La sua reperibilità continua è irreale. Il compito delle religioni è indicare e ricondurre alle fonti della realtà, alla vita come tempo e cammino e orizzonte».

«Nella chiesa cattolica torinese – seguita l’Autore, venendo alla diocesi della città dove abita – il nuovo vescovo Repole chiede se si vedono germogli nuovi per la chiesa di domani. Su questo ci si interroga nelle realtà ecclesiali locali». «La chiesa è viva in comunità territoriali, nel contatto con altre realtà sociali», è la risposta di Peyretti, come anche «in associazioni e movimenti di scopo, trans-territoriali; la Chiesa vive non solo a opera del clero, ma grazie a sempre più importanti ministeri laicali, grazie alla presenza attiva delle donne, non riconosciute in piena parità, ed è grave inspiegabile danno alla credibilità della Chiesa; è importante l’ecumenismo non diplomatico ma reale, come la più che decennale esperienza torinese della reciproca ospitalità eucaristica tra cattolici e protestanti; molto importante è rinnovare il linguaggio, le modalità di comunicazione, le immagini che la Chiesa dà di sé».

Se «la Chiesa sa di vecchio, per i giovani», nondimeno essi «vedono che su pace e guerra essa parla, anzitutto con papa Francesco, in modo molto più vero e chiaro della politica, di tutta la politica. Così sui gravi problemi dell’ambiente, della giustizia sociale, della selezione mondiale tra ultra-garantiti e sradicati…».

E tuttavia «partecipare alla Chiesa è un’altra cosa. A partire dagli edifici, per lo più monumenti del passato, agli abiti liturgici, strani e teatrali (la mitria vescovile di origine faraonica): sono scene estranianti. Dov’è davvero la chiesa, dove la si trova? Tertulliano (155-230), scrittore cristiano molto severo, ricordava lo stupore dei pagani quando incontravano una comunità cristiana: «Vedete come si vogliono bene?» (Apologetico, 39,7). Non è forse proprio questo il maggiore criterio evangelico per una pur piccola Chiesa? Quanto spesso si verifica? Senza però farsi setta chiusa, ma sempre accogliente, non discriminante».

I giovani non avvicinano più la Chiesa per trasmissione familiare, «le vere scelte interiori avvengono per esperienza personale, non determinate dall’ambiente, sia pure affettivo. (…) È positivo che la fede non sia un’influenza sociologica, ma una vicenda personale autentica. Il fatto conta molto più dei numeri. La Chiesa è minoranza sociale, anche piccola: non coincide più con la “società cristiana”, come si illudeva ieri, a prezzo di conformismi insinceri, una chiesa numerosa, ma non tutta vera. I nuovi “segni dei tempi” spazzano via certe apparenze, e questo è bene, anche se fa soffrire chi si appoggia a forme tramontate, come le belle pietre del tempio, che Gesù vede già rotolate a terra. Il “segno dei tempi” è Cristo Gesù, sempre nuovo e veniente, con la sua parola, con l’offerta totale di sé per ispirare vita buona e vera, che non muore». In questa situazione, aggiunge Peyretti, «la Chiesa – lo ricorda sempre papa Francesco – non ha da fare “proselitismo”, non ha da agitarsi per reclutare, non ha da temere la povertà di presenze. Ha solo da essere viva, da respirare vangelo, che potrà comunicarsi ad altri, per grazia, come la Chiesa l’ha ricevuto».

«Se un ragazzo mi dice», esemplifica infine Peyretti, «“Io non credo in Dio”, posso chiedergli: quale dio? quello lontano, extraterrestre, sorvegliante, legislatore e giudice severo, amministrato da una potenza religiosa? Oppure puoi pensare che quel dio astratto sia un nome improprio ed equivoco del Bene vivente, dell’Amore, del Respiro di cui sentiamo il bisogno, della Bontà ispirata in noi che ci anima alla giustizia, alla dedizione? Puoi pensare che sia il nome popolare della Speranza portata da Cristo che la forza bruta e la morte non regnino sulla vita e sulla giustizia? Se possiamo dire questo a un ragazzo, in modo credibile, abbiamo fatto quanto dovevamo come Chiesa, mi pare».

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

Con-work e Con-study: due iniziative che partono dal primo novembre nella chiesa di Santa Maria di Gesù di Catania per aiutare i giovani studenti e i professionisti a combattere l’isolamento

Il convento: venite qui per smart working e studio

Si chiama Con-work ed è lo smart working in convento. L’idea è stata lanciata da fra’ Massimo Corallo, parroco della chiesa di Santa Maria di Gesù di Catania con l’intento di aiutare i giovani professionisti, fornendo anche fornire una risposta per superare le difficoltà post-Covid di chi, non potendo far fronte alle spese necessarie dell’affitto di studi o di postazioni di co-working, è costretto a lavorare da casa in costante isolamento. In questo senso si è mossa la parrocchia catanese decidendo di concedere gratuitamente una sala del convento, adibita a spazio di co-working al servizio dei professionisti non solo catanesi. Il nome del progetto, “Con-work”, partendo dal concetto di co-working, mediante l’inserimento della “N”, lo contestualizza nella realtà del convento, enfatizzandone al contempo la condivisione della relazione con gli altri.

“Vogliamo mettere in pratica l’idea di ‘Chiesa in uscita’ tanto voluta da papa Francesco – ha spiegato Fra Massimo ad alcuni giornali locali che gli chiedevano dell’iniziativa – la mission consiste nel combattere l’isolamento domestico fornendo l’opportunità di uno spazio in cui non soltanto svolgere le proprie attività professionali ma anche relazionarsi con gli altri, favorendo quindi la socialità“.

Va ricordato inoltre che il primo novembre a fianco degli spazi di “Con-work” vengono inaugurate anche le aule “Con-study“: altro progetto di “condivisione sostenibile degli spazi” pensato per gli studenti del liceo e dell’università, affinché possano trovare il silenzio e la fraternità di cui c’è bisogno per dare il massimo nello studio. Come gli spazi di co-working anche le aule studio sono a disposizione dal lunedì al venerdì, dalle 8:30 alle 20:30.

Oltre al parroco fra’ Massimo Corallo un gruppo di un cinque giovani professionisti: Epifanio Chiavetta, Rachele Soma, Irene Fatuzzo, Francesca Magrì e Giuseppe Furneri hanno attivamente collaborato per rendere possibili tali iniziative e dare vita a questi nuovi spazi comunitari.