Celebrazione Sacramento Riconciliazione in Parrocchia S. Agostino, S. Stefano e S. Teresa a Reggio Emilia (Centro)

CELEBRAZIONE SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
SABATO 9 E 16 MARZO 2024 S. AGOSTINO
DALLE 15.00 ALLE 18.00 D GIANNI MANFREDINI
MERCOLEDÌ 27 MARZO 2024 S. TERESA
DALLE 15.30 ALLE 20.30 D LUCA GRASSI
VENERDÌ 29 MARZO 2024 S. STEFANO
DALLE 07 ALLE 11 D LUCA GRASSI
VENERDÌ 29 MARZO 2024 S. AGOSTINO
DALLE 16.30 ALLE 18.00 D LUCA GRASSI
SABATO 30 MARZO 2024 S. AGOSTINO
DALLE 09.30 ALLE 12.30 D LUCA GRASSI
DALLE 15 ALLE 18 D GIANNI MANFREDINI

Libro. CAMMINANDO VERSO LA PASQUA Meditazioni e piccoli esercizi

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Una piccola guida personale, scandita lungo le settimane, per condurre il lettore a curare la propria vita spirituale in vista delle giornate quaresimali e delle feste pasquali. Con uno spazio per scrivere le proprie riflessioni. Un libro da comprare per sé stessi o da regalare ad amici e parenti che vogliono vivere la preparazione al Triduo Santo in maniera originale. Perfetto da leggere la sera, o in viaggio; una compagnia preziosa con le parole di padre Enzo Fortunato, per i giorni in cui vogliamo dare spazio ai grandi temi della Passione, Morte e Resurrezione, per comprendere meglio il mistero della nostra salvezza.

paolinestore.it

Commento alle letture per la liturgia della Domenica di Pasqua

Santa Maria Maddalena al sepolcro

At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4; Gv 20,1-9

dalla Rubrica de Il Regno La Parola in cammino

Nel Vangelo di questa domenica di Risurrezione l’azione del «vedere» rappresenta un itinerario su cui siamo invitati a riflettere. L’evangelista descrive la scena del sepolcro vuoto utilizzando diversi verbi in greco, che sottolineano diverse sfumature del «vedere».

Si parte da Maria Maddalena, la prima che corre al sepolcro e la prima che incontrerà il Risorto, nel seguito del racconto Giovanneo. Maria, probabilmente originaria di Migdal (Magdala), compare sempre, nei testi evangelici, con l’appellativo «maddalena», anche se poi nella traduzione in italiano a volte si trova tradotto «di Magdala».

Questo piccolo, ma significativo, particolare non era sfuggito ai primi esegeti come Girolamo o Origene, che avevano compreso come questo appellativo «magdalena» non era tanto riferito al luogo di provenienza, ma alla figura stessa di questa donna. Il termine «migdal» significa torre, fortezza, ma, come faceva notare la biblista Maria Luisa Rigato, la radice della parola deriva dall’ebraico gadol, che significa grande. Dunque Maria la «turrita» (da torre, fortezza) come la chiamava Girolamo, o, come suggeriva la Rigato in continuità con Origene, «colei che è stata resa grande».

Ritorniamo al racconto giovanneo: Maria arriva al sepolcro e «vede», anche se è ancora buio, che «la pietra era stata tolta». Il suo vedere è oggettivo e allo stesso tempo confuso: ciò che «vede», anche se reale – un sepolcro aperto – non è comprensibile di per sé. Il testo non ci dice che Maria vede che il sepolcro è vuoto, il suo «vedere» si ferma prima, alla pietra che è stata tolta. Che spiegazione dare?

Corre quindi da Pietro e «dall’altro discepolo che Gesù amava» (non possiamo non notare che quest’ultimo nel racconto non ha un nome proprio) e comunica loro non solo il dato oggettivo, cosa ha visto, ma l’elaborazione del dato: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto».

I due discepoli, a loro volta, corrono verso il sepolcro, «l’altro discepolo» arriva per primo e «vede» (è lo stesso verbo usato per Maria). Anche qui si tratta di un vedere oggettivo: «i teli posati là». Di fronte a tale dato però non viene espressa alcuna elaborazione, anzi l’incapacità di comprendere il dato è sottolineata dal fatto che il discepolo rimane quasi impietrito, non entra nel sepolcro.

Subito dopo arriva anche Pietro che, prima di vedere, entra. Il suo potrebbe essere un agire d’impulso, anziché fermarsi a guardare la realtà che gli sta davanti vi entra dentro, vi si «immerge». E solo dal di dentro di questa realtà il suo «vedere» questa volta è diverso: è un vedere analitico. Nel testo infatti viene utilizzato un altro verbo che sottolinea l’azione del vedere in quanto osservazione, attenzione ai dati, ai dettagli. Pietro vede, osserva, «i teli», «il sudario» posto non nello stesso luogo dove sono i teli, ma «avvolto» da un’altra parte».

Anche questo tipo di vedere, però, non produce una comprensione più profonda o complessiva della realtà, che non solo gli è di fronte, ma in cui è anche immerso, dato che «è» dentro al sepolcro. Un’ulteriore tappa di questo itinerario di visione è segnata dal movimento dell’«altro discepolo», il quale a sua volta entra nel sepolcro e «vede». Il suo, però, è un «vedere» diverso, contrassegnato in greco da un altro verbo, dalla cui stessa radice deriva il verbo «comprendere, conoscere».

Il vedere a cui «l’altro discepolo» giunge non è solo oggettivo, analitico, ma «relazionale», affettivo (che non significa sentimentale). È un vedere che produce quella conoscenza che si raggiunge quando si ama, quando cioè la relazione tra il sé e l’alterità diventa pienezza, intimità, desiderio, presenza; in altre parole, come il testo stesso dice, «fede»: «vide e credette». Ma questa è solo la penultima tappa, di per sé indispensabile per il passo successivo, che è «comprendere la Scrittura».

Dietro a questi personaggi, e al loro modo di porsi e di agire nei confronti di ciò che sta loro davanti, possiamo infatti individuare diversi atteggiamenti o tappe di un modo di porci di fronte alla Parola e di vivere la nostra «fede». C’è chi «vede» e corre subito a delle conclusioni; c’è chi «corre» per arrivare a «vedere», ma si affaccia solo a guardare, chi, invece, pensa che il «capire» analitico, «teoretico» (termine che deriva proprio dal verbo utilizzato per descrivere il vedere di Pietro) sia sufficiente per comprendere la realtà in cui ha scelto di immergersi.

E c’è il vedere «relazionale», la ricerca dell’«altro» in cui tutto è messo in gioco, perché la relazione dell’amore è nuda, totale, coinvolgente, e allo stesso tempo distante; dove non è importante «cum-prehendere» (prendere con sé, possedere), quanto cercare, desiderare, accogliere. Solo con quest’ultima «visione» la Scrittura può svelarsi ai nostri occhi e parlare al nostro cuore, essere «lampada che illumina i nostri passi» (cf. Sal 119,105). Solo così è possibile «vedere» il Risorto, ieri come oggi, ed è così che Maria magdalena, «colei che è stata resa grande», prima fra tutti e tutte, «vedrà» il Risorto nel seguito del racconto evangelico.
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Pasqua: un mondo finisce, un mondo comincia: è la via del Risorto

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Tra i giorni che concludono la vicenda terrena di Gesù di Nazareth e quelli che frantumano il sepolcro, varcando nel mistero il limite umano — il limite più duro, ossia la morte — giace lo smarrimento dei discepoli: smarrimento umanissimo e doloroso di fronte alla tragedia accaduta al maestro, smarrimento umanissimo e stupito davanti a un annuncio di resurrezione. È lo smarrimento di qualcosa che finisce e insieme è lo smarrimento di qualcosa che inizia: che questo generi turbamento, incredulità, confusione, nella tensione tra tristezza e gioia, per noi uomini di questo tempo è molto comprensibile, perché stiamo attraversando uno scorcio della storia che molto condivide con quella manciata di giorni che vanno dall’ultima cena di Gesù alla parola che afferma: Cristo è risorto. Se abbiamo il coraggio dello sguardo, la forza di andare oltre le apparenze, non possiamo che sentirci solidali con i discepoli persi tra il venir meno del vecchio e il sorgere del nuovo; perché spesso anche noi viviamo uno smarrimento simile a quello di Pietro, Giovanni, Tommaso, Maria di Magdala (e anche della Madre): un mondo sta finendo o è già finito, una stagione si va esaurendo e qualcosa di nuovo e inaudito comincia a farsi strada. Modi di vivere la vita, di condurre l’esistenza, anche di intendere, incarnare e comunicare la fede sono ora inesorabilmente al tramonto. Forse questo non piacerà, certamente procurerà dolore e tristezza, alimenterà paura e perfino angoscia: sentimenti compagni a quelli avvertiti dai discepoli che ben altre aspettative, ben altre idee avevano sul Nazareno, il quale non poche volte — ricorda il vangelo — erano stati rimproverati perché non capivano che la strada del maestro era diversa da quella che loro desideravano. Essi (penso soprattutto a Pietro) avevano una loro idea di salvezza, una loro idea di Dio. Ma i giorni della Passione videro il naufragare di quelle attese, di quelle convinzioni. Qualcosa di umano e di vecchio andava morendo. Ma quella non fu l’ultima parola, perché Dio, dentro quel fallimento, nel fondo dell’abisso, nella forza di un’offerta gratuita, tracciò la via di una nuova vita, di una vita risorta. Nella storia del mondo, nella storia di ogni persona, non sono poche le morti e le risurrezioni: ma dall’alba di quel giorno questa diviene pure la legge del Regno.

Ugualmente oggi, in questo tratto del tempo che abitiamo, c’è un’epoca che muore e c’è un’epoca che nasce, di cui non capiamo bene i tratti, i caratteri, il bene e il male. O forse sappiamo cogliere solo il male, solo ciò che non corrisponde al nostro immaginario, alle nostre aspettative, alla nostra idea di tempo visitato da Dio. Ma la forza della Pasqua di Gesù è quella di una vita che prosegue, di una custodia di Dio che permane e che, in ciò, è capace di diffondere speranza. Non speranza a basso prezzo, non speranza di superficie: ma speranza profonda, vera, radicata in ciò che prima è accaduto ed è morto e che ora rinasce, in forme nuove e sorprendenti; gli evangelisti lo annotano più volte nei racconti pasquali: nessuno dei discepoli riconobbe Gesù, segno che egli aveva forme nuove, insolite per loro che pure lo avevano conosciuto molto bene e per questo dovettero fare uno sforzo di lettura, uno sforzo di comprensione, cercando qualcosa che fosse solo per ognuno di essi.

Mi colpisce che il Risorto abbia un modo unico e una parola differente per ogni discepolo: spinge Maria di Magdala e l’altra Maria ad andare al sepolcro e mentre esse tornano si fa loro incontro, nel giardino; spinge Giovanni e Pietro ad uscire dalla sala della paura e arrivare fino alla tomba, per trovarla vuota, ma per andare poi lui stesso dentro quella medesima stanza chiusa; trova due discepoli a sette miglia da Gerusalemme, lungo la via per Emmaus e si fa loro accanto; si fa toccare da Tommaso; si fa trovare su una spiaggia da alcuni discepoli, tra cui Pietro. Ci sono modi misteriosi e diversi, ma sempre generativi, attraverso cui il Risorto incontra i suoi discepoli: non un modo solo, un momento solo, una parola sola e unica per tutto, sempre, ovunque. Parole personali in tempi e luoghi personali; parole diverse in tempi e luoghi diversi. Per generare il nuovo, per ripartire, per rifondare una vita servono parole accostate a vite singole, strade uniche, annunci singolari, nei luoghi e nei momenti più fecondi per ognuno.
C’è una delicatezza tenerissima nel Risorto, che si accosta, si rivela nella ricchezza di ogni vita e può così, anche nel pronunciare ogni nome, trarre fuori dai sepolcri che ognuno deposita sul fondo di sé.

«Con l’immenso amore che provi per te stesso — mi pare di leggere in Gesù — ama tuo fratello, che è uguale a te, ma che non sei tu; riconoscerai in lui un fratello, ma quello che vi accomuna è il sangue di Dio stesso, vostro padre. Ritengo che questo sia il senso del Vangelo e la grande rivelazione del Cristo, il vero trasmutatore dei valori»: così scriveva Antonio Machado a Miguel de Unamuno, il 16 gennaio 1918, in una lettera che è un tassello ricchissimo nel rapporto tra i due grandi pensatori spagnoli. E subito Machado aggiungeva: «L’amore fraterno ci fa uscire dalla nostra solitudine e ci conduce a Dio. Quando riconosco che c’è un altro io, che non coincide con me stesso né è opera mia, mi rendo conto che Dio esiste e che devo credere in Lui come a un padre». Ci sono fratelli e sorelle con propri io, con proprie vite: in tanta ricchezza, in tanta particolarità giunge il Risorto, che fa nascere fratellanza nel rispetto di ogni identità, di ogni storia, di ogni ripartenza: Cristo è vivo, Cristo è capace di generare vita, di morire e risorgere, accostandosi, facendosi incontrare, facendosi vedere a singoli volti di uomini e donne.

Questa è la dinamica del Regno che crediamo diventi, da quel «mattino del primo giorno dopo il sabato» anche la dinamica della storia. È il primo giorno che nasce da un sabato, che nasce da un tempo che c’è stato e che però si è concluso; ora comincia il nuovo. Su questo possiamo continuare a fondare il nostro sguardo buono sull’oggi e sul domani; sperare nel futuro; avere fiducia che il mondo è già salvato; non farci travolgere dalla paura che il nuovo può suscitare, sia esso nelle grandi arcate delle epoche quanto nelle piccole vite; non temere l’alba di un tempo dove ci sarà una fede diversa, un modo diverso di viverla, ma che sarà sempre cristocentrica, perché fondata sull’annuncio che il Cristo è risorto: la legge della vita è veramente la legge della vita e non della morte.

vinonuovo.it 

La Pasqua è il culmine del Triduo pasquale, centro e cuore di tutto l’anno liturgico

Pasqua significa etimologicamente “passaggio”. La data è mobile perché dipende dal plenilunio di primavera mentre l’origine è legata al mondo ebraico, in particolare alla festa di Pesach, durante la quale si celebrava il passaggio di Israele, attraverso il mar Rosso, dalla schiavitù d’Egitto alla libertà. Il significato dell’agnello e delle uova
La Pasqua è il culmine del Triduo pasquale, centro e cuore di tutto l’anno liturgico. È la festa più solenne della religione cristiana che prosegue con l’Ottava di Pasqua e con il tempo liturgico di Pasqua che dura 50 giorni, inglobando la festività dell’Ascensione, fino alla solennità della Pentecoste.

COSA SIGNIFICA LA PAROLA “PASQUA”?

Deriva dal greco: pascha, a sua volta dall’aramaico pasah e significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”. Gli Ebrei ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.

QUALI SONO LE ORIGINI DI QUESTA FESTA?

Presso gli ebrei la Pasqua (Pesach) era in origine legata all’attività agricola ed era la festa della raccolta dei primissimi frutti della campagna, a cominciare dal frumento. Altre feste, solo per ricordarle, erano la Festa delle Settimane, che celebrava la raccolta del grano ai primi di giugno, e la Festa dei Tabernacoli, cioè della vendemmia, a settembre.
In seguito, la Pasqua diventa la celebrazione annuale della liberazione degli ebrei dalla schiavitù, significato che si aggiunse all’altro, come ricordo della fuga dall’Egitto e del fatto che con il sangue degli agnelli si fossero dipinti gli stipiti delle porte affinché l’angelo sterminatore, come dice la Bibbia, passando da quelle case, risparmiasse i primogeniti.

Ancora oggi, la cena pasquale presso gli Ebrei si svolge secondo un preciso ordine detto Seder. Ci si nutre di cibi amari per ricordare l’amarezza della schiavitù egiziana e la stupore della libertà ritrovata.
Per celebrare la Pasqua gli israeliti al tempo di Gesù ogni anno si recavano a Gerusalemme. Anch’egli vi si recava. La sua morte avvenne, infatti, in occasione della pasqua ebraica. Egli per i cristiani è l’agnello pasquale che risparmia dalla morte, il pane nuovo che rende nuovi (cfr 1Cor 5,7-8)

PERCHÉ SI MANGIA L’AGNELLO?

La tradizione di consumare l’agnello per Pasqua deriva dalla Pesach, la Pasqua ebraica. Infatti l’agnello fa parte dell’origine di questa festività. In particolare si fa riferimento a quando Dio annunciò al popolo di Israele che lui lo avrebbe liberato dalla schiavitù in Egitto dicendo “In questa notte io passerò attraverso l’Egitto e colpirò a morte ogni primogenito egiziano, sia fra le genti che tra il bestiame”. Ordinando, così, al popolo d’Israele di marcare le loro porte con del sangue d’agnello in modo che lui fosse in grado riconoscere chi colpire col suo castigo e chi no. Inoltre in passato esisteva un comandamento riguardo la Pasqua ebraica che diceva di fare l’offerta dell’agnello il giorno 14 del mese ebraico di Nisan e di consumare quella stessa notte il sacrificio di Pesach.
Con il Cristianeismo, il simbolo dell’agnello immolato per la salvezza di tutti diventa Cristo stesso e il suo sacrificio ha valore di redenzione.

Una delle tradizioni culinarie pasquali è quella di preparare l’agnello di pasta di mandorla.

PERCHÉ LA DATA DELLA PASQUA È MOBILE?

Perché è legata al plenilunio di primavera. La datazione della Pasqua, nel mondo cristiano fu motivo di gravi controversie fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, la prima era composta da ebrei convertiti e la celebrava subito dopo la Pasqua ebraica e cioè nella sera della luna piena, il 14 Nisan, primo mese dell’anno ebraico; quindi sempre in giorni diversi della settimana. Solo con il Concilio di Nicea del 325, si ottenne che fosse celebrata nello stesso giorno in tutta la cristianità e cioè adottando il rito Occidentale, fissandola nella domenica che seguiva il plenilunio di primavera. Oggi la celebrazione cade tra il 22 marzo e il 25 aprile denominandola così Pasqua bassa o alta, secondo il periodo in cui capita.
Essendo una festa mobile, determina la data di altre celebrazioni ad essa collegate, come la Quaresima, la Settimana Santa, l’Ascensione, la Pentecoste. La Chiesa contempla per i cattolici l’obbligo del Precetto Pasquale, cioè confessarsi e ricevere l’Eucaristia almeno una volta nel periodo pasquale.

COSA DICONO I VANGELI? DALLA SEPOLTURA “PROVVISORIA” ALLA RISURREZIONE DI GESÙ
Dopo la morte in Croce, la sepoltura di Gesù fu una operazione provvisoria, in quando essendo ormai un’ora serale e si approssimava con il tramonto il Sabato ebraico, in cui è noto era proibita qualsiasi attività, il corpo di Gesù fu avvolto in un lenzuolo candido e deposto nel sepolcro nuovo scavato nella roccia, appartenente a Giuseppe d’Arimatea, membro del Sinedrio, ma ormai seguace di Gesù. Le operazioni necessarie per questo tipo di sepoltura, che non era l’inumazione nel terreno, e cioè il cospargere il corpo con profumi ed unguenti conservativi e l’avvolgimento dello stesso corpo con fasce o bende (ne abbiamo l’esempio nel racconto di Lazzaro risuscitato dallo stesso Gesù); queste operazioni, dicevamo, furono rimandate a dopo il Sabato dalle pie donne, le quali dopo aver preparato gli aromi e visto dove era stato deposto il corpo di Gesù, alla fine si allontanarono.

Dopo la Parasceve (vigilia del Sabato) quindi appena dopo sepolto Gesù, i sacerdoti ed i Farisei si recarono da Pilato dicendogli che si erano ricordati «che quell’impostore quando era ancora in vita, disse: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risorto dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». E Pilato, secondo il solo Vangelo di Matteo, autorizzò il sigillo del sepolcro e dispose alcune guardie per controllarlo.

Trascorso il Sabato, in cui tutti osservarono il riposo, Maria di Magdala, Maria di Cleofa e Salome, completarono la preparazione dei profumi e si recarono al sepolcro di buon’ora per completare le unzioni del corpo e la fasciatura; lungo la strada dicevano tra loro, chi poteva aiutarle a spostare la pesante pietra circolare, che chiudeva la bassa apertura del sepolcro, che era composto da due ambienti scavati nella roccia, consistenti in un piccolo atrio e nella cella sepolcrale; quest’ultima contenente una specie di rialzo in pietra, su cui veniva deposto il cadavere. Quando arrivarono, secondo i Vangeli, vi fu un terremoto, un angelo sfolgorante scese dal cielo, si accostò al sepolcro fece rotolare la pietra e si pose a sedere su di essa; le guardie prese da grande spavento caddero svenute. Ma l’Angelo si rivolse alle donne sgomente, dicendo loro: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete». Proseguendo con il racconto del Vangelo di Matteo, le donne si allontanarono di corsa per dare l’annunzio ai discepoli.

Va ricordato che la Risurrezione di Gesù viene annunciata da alcune donne, che secondo l’antico Diritto ebraico, erano inabilitate a testimoniare, quindi con questo evento che le vede messaggere e testimoni, viene anche ad inserirsi un evento storico nella socialità ebraica. Quando le donne raggiunsero gli apostoli e riferirono l’accaduto, essi corsero verso il sepolcro, ma Pietro e Giovanni corsero avanti, al sepolcro arrivò per primo Giovanni più giovane e veloce, ma sulla soglia si fermò dopo aver visto il lenzuolo (Sindone) a terra, Pietro sopraggiunto, entrò per primo e constatò che il lenzuolo era per terra, mentre il sudario, usato per poggiarlo sul capo dei defunti, era ripiegato in un angolo, poi entrò anche Giovanni e ambedue capirono e credettero a quanto lo stesso Gesù, aveva detto in precedenza riguardo la sua Risurrezione.

COS’È LA BENEDIZIONE PASQUALE URBI ET ORBI?
Urbi et Orbi è un’espressione latina che significa “Alla città (di Roma) e al mondo”. La benedizione Urbi et Orbi è la prima benedizione fatta da un Papa, subito dopo l’elezione in Conclave, dalla Loggia centrale della Basilica vaticana.

Viene inoltre diffusa dal Pontefice nei giorni di Natale e Pasqua alla folla riunita in piazza San Pietro e in occasioni particolari. La benedizione, solitamente accompagnata da un messaggio, comporta l’assoluzione di tutti i peccati temporali per tutti i presenti in Piazza San Pietro e per coloro che la ricevono per tramite dei vari mezzi di comunicazione.
PERCHÉ SI MANGIANO LE UOVA?

La tradizione di decorare uova risale già ai primi cristiani che pitturavano le uova di rosso, per ricordare il sangue di Cristo, e le decoravano con croci o altri simboli (una tradizione che dura ancora oggi nei paesi ortodossi e cristiano-orientali). La simbologia dell’uovo è evidente: dall’uovo nasce la vita che a sua volta veniva associata con la rinascita del Cristo e quindi con la Pasqua. In realtà, le uova decorate secondo questa simbologia sarebbero andate bene anche per il Natale, in occasione della nascita di Cristo, ma secondo alcuni studi la tradizione delle uova pasquali venne rafforzata da un’usanza tipicamente pasquale: la Quaresima, il periodo di quaranta giorni prima della Pasqua nel quale i credenti sono tenuti al digiuno e all’astinenza. In questo periodo è vietato mangiare carne.
In passato, e tuttora nelle chiese cristiane orientali, era vietato mangiare anche le uova. Era difficile però costringere le galline a non depositare uova in quel periodo, così i primi cristiani si trovavano con un surplus di uova che non potevano mangiare.
Dalla necessità di farci qualcosa sarebbe nata la tradizione di bollirle fino a farle diventare dure come sassi e poi dipingerle con colori sacri e simbolici.

Pasqua: eppure danziamo, stringendo mani amiche e sconosciute, scorgendo nel volto di tutti i tratti del volto di lui


Nel giorno di Pasqua un’esistenza umana, vissuta nel segno di una dedizione che non conosce confini, viene ad abitare per sempre l’intimità del mistero di Dio – e la trasforma in maniera indicibile. Proprio perché Pasqua è l’evento di questa trasformazione intima di Dio, essa può essere anche la speranza che vince la pretesa del reale di essere tutto e che nulla è possibile al di fuori di esso. E lo fa, appunto, ospitandolo in sé e coinvolgendolo nella inenarrabile trasformazione che Dio vive nella risurrezione di Gesù – il Figlio amato da sempre, primo tra molti fratelli e sorelle nel corpo di carne.

Le dice Gesù: Mariam! Voltatasi, quella, gli dice: Rabbunì! Maestro.
Dice a lei Gesù: non trattenermi… (Gv 20,16-17).
E dissero l’un l’altro: non era forse il nostro cuore ardente quando parlava a noi nella via,
quando spalancava a noi le Scritture? (Lc 24,32).

Non sappiamo cosa pensare… Maria di Magdala e due dei nostri da Emmaus si sono precipitati da noi, pieni di gioia, danzando sulle note della vita di lui. Proprio oggi, mentre noi ci preparavamo a onorare un morto ci raggiungono canti di festa, passi di danza, volti che trasudano gioia e speranza.

Perché non trattenerlo? Perché sentire il cuore inebriato di gioia allo sparire di lui? Perché la luce di questo mattino di festa è così gentile e discreta da apparire l’abbaglio di una follia? E continuiamo a essere senza parole – se non fosse per Maria e per i due di Emmaus non avremmo nullla da dire, saremmo ancora rinchiusi nel nostro sconforto a temere per noi, anziché a gioire per lui.

C’è qualcosa di insondabile nella gioia di Maria e in quella dei due dei nostri: è come se avvessero incontrato ciò che non scambierebbero con nulla al mondo, qualcosa che non si corrompe e rimane per sempre fedele compagno dei nostri giorni – qualsiasi cosa succeda.

Per la prima volta nella nostra vita, la mancanza ci appare in una luce diversa – non come il peso insopportabile di ciò che non potremmo mai ottenere, ma come uno spazio aperto in cui far abitare e riposare la vita.

Una radura senza nulla in cui trovano posto i nostri desideri, le nostre attese, i nostri dolori, le nostre domande, l’ansia che ci attanaglia, e quella speranza che non osavamo confessare neanche a noi stessi.

E passeggiamo in questa radura dove tutto manca perché tutto possa essere ospitato per sempre. Non solo il nostro, non solo noi, ma quello di tutti attraverso i secoli, le vite e i volti di coloro che non sono più e di coloro che non sono ancora.

E mentre camminiamo in questa radura, i nostri piedi iniziano a muoversi, le braccia si sciolgono, le mani si protendono – danziamo la vita, danziamo i giorni, cerchiamo corpi a cui stringerci, vite da abbracciare, storie da custodire, giorni a noi ignoti da ascoltare anche se non li vivremo mai.

È da millenni che ci muoviamo sulla musica di un’alba diversa, siamo arrivati dove mai lo avremmo immaginato, contornati e custoditi da innumerevoli fratelli e sorelle nella fede e nell’umano. Danziamo la mancanza, perché solo essa ci dice che c’è posto per tutti sotto i raggi caldi di questo mattino di Pasqua.

Vi guardiamo e scorgiamo nei vostri volti i nostri volti, sulle note di un Dio che danza insieme a noi e che assomiglia tantissimo al corpo di lui.

Raccolti nella sua dimora quando ancora abitiamo i duri giorni della nostra terra, illuminati dalla gioia quando ancora usiamo violenza contro gli altri, avvolti nella speranza quando ancora disperiamo di un’esistenza riuscita degna di essere vissuta.

Eppure danziamo, stringendo mani amiche e sconosciute – scorgendo nel volto di tutti i tratti del volto di lui.

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