De Lucia: «La mafia non è finita: tutti uniti e più risorse»

Il procuratore di Palermo: dopo Messina Denaro, non ci siamo fermati. Ma se vogliamo continuare a contrastare i loro piani criminali, tutto deve funzionare

Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia

Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia – ANTONIO PARRINELLO

Lo Stato non si è fermato a Palermo, quella mattina del 16 gennaio 2023 in cui è stato catturato il latitante più pericoloso di Cosa nostra. «L’arresto di Matteo Messina Denaro era un dovere per le istituzioni», spiega oggi il procuratore Maurizio de Lucia, che di quell’operazione fu il regista. «La mafia non è finita allora, d’altra parte 160 anni di storia non si possono chiudere in poche settimane. Però siamo riusciti a indebolirla e abbiamo in testa una strategia chiara per continuare a colpirla, perché questa volta sappiamo dove i clan vogliono andare». La capacità del crimine di mimetizzarsi, di creare legami pericolosi e insondabili, di inabissarsi per poi riapparire improvvisamente, è ciò che maggiormente preoccupa. «Se vogliamo continuare a contrastare con efficacia i loro piani, ogni cosa deve funzionare. La macchina della giustizia ha bisogno di maggiore personale e di maggiori risorse» sottolinea ad Avvenire il magistrato che guida la Procura del capoluogo siciliano.

Procuratore de Lucia, l’arresto di Messina Denaro ha segnato una linea di confine, un prima e un dopo, nella lotta alla mafia. Cosa è accaduto da allora?

Non ci siamo mai fermati. Diversi soggetti sono stati individuati e posti in custodia cautelare. Altre indagini sono in corso e riguardano l’organizzazione di Cosa nostra nel Trapanese, con il coinvolgimento di altri soggetti riferibili all’area di influenza dello stesso Messina Denaro. Sono stati tanti i processi conclusi e le indagini che hanno portato alla cattura di esponenti mafiosi. Oggi magistratura e forze dell’ordine sono in grado di individuare gli associati mano mano che assumono posizioni più rilevanti. Attenzione, però: Cosa nostra per continuare a esistere ha bisogno di un vertice e ora non ce l’ha più. Ha la necessità di dare ordine a quello che succede nelle città, per questo tende a una ristrutturazione costante della sua organizzazione, con un obiettivo su tutti: tornare a essere ricca, ad avere risorse, per riuscire a riacquistare forza sul piano militare e politico, ridiventando così un punto di riferimento per quella che viene chiamata la borghesia mafiosa. Perciò dobbiamo perseguire non solo i mafiosi, ma anche i patrimoni dei mafiosi.

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo la cattura

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo la cattura – ANSA

Come si finanzia oggi Cosa nostra?

Registriamo un forte interesse verso il traffico degli stupefacenti. Le cosche stanno cercando di reperire fondi dal mercato della droga e per questo hanno iniziato a lavorare con l’organizzazione che da trent’anni ha il monopolio del settore: la ‘ndrangheta. Da una posizione servente, di collaborazione, Cosa nostra vuole diventare socio di minoranza in business come questi, che sono largamente i più redditizi. Può spendere il suo brand, che esercita ancora un forte richiamo soprattutto verso i cartelli del narcotraffico sudamericano, e insieme ha a disposizione un mercato importante come la Sicilia, dove la cocaina è richiesta anche nei palazzi delle famiglie del ceto medio.

Nel libro “La cattura”, che ha scritto per Feltrinelli con Salvo Palazzolo, lei cita tra gli altri un vecchio capomafia, Nino Rotolo, intercettato nel 2005, quando dichiarava: “Noi campiamo per il popolino”. A che punto è l’erosione del consenso sul territorio per la mafia, soprattutto al Sud?

Quelle parole, così come ha poi dimostrato in questi mesi l’inchiesta sulla rete che proteggeva Messina Denaro, dimostrano che superare la soglia dell’omertà in determinati territori resta estremamente difficile: c’è gente che è abituata a ragionare con la mafia, c’è chi è indifferente e fa finta di non vedere, chi infine riesce ad opporsi. Poi abbiamo esempi luminosi come quello di don Pino Puglisi, che ha sacrificato la sua vita per difendere i ragazzi dalla trappola dei clan. Penso che paura, connivenza e convivenza si superino solo con due fattori: sviluppo economico e sviluppo culturale, che però devono camminare uno insieme all’altro. L’impegno dei giovani di Addiopizzo è un segnale, ad esempio. Dal punto di vista invece dell’impatto sull’opinione pubblica, la risposta più importante data dallo Stato alla mafia è stata senza dubbio il maxiprocesso, un fatto che ha segnato la storia di questo Paese e che è costato la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In questi giorni è riemersa una fotografia, quella di Messina Denaro e Giuseppe Graviano in platea al “Maurizio Costanzo Show”. Che impressione le ha fatto?

Quella foto (un frame di un video) in realtà era nota agli investigatori da molto tempo. Ma il vero volto dei due mafiosi ritratti è quello che emerge da anni di processi e dalle sentenze che li hanno condannati . Certo, la cattura di un superboss che non era il capo dei capi, ma una persona così carismatica da dettare le strategie seppur malato, non basta oggi per dire che si sia messa per sempre una pietra sopra la stagione della mafia stragista, il biennio terribile 1992-1993. Le Procure di Caltanissetta e di Firenze, coordinate dal Procuratore nazionale antimafia Melillo, su quel periodo continuano a indagare. Il lavoro non è finito.

Cosa serve adesso?

In terra di mafia, Procure e Tribunali distrettuali non possono concedere vantaggi alle strutture criminali. Eppure, in un settore fondamentale della nostra vita pubblica come la giustizia, mancano persone e mancano risorse. Tutti gli uffici giudiziari italiani hanno organici inferiori a quel che sarebbe necessario. La Procura di Palermo ad esempio dovrebbe avere 61 pubblici ministeri, ma ne abbiamo soltanto 47. Quattordici pm sono tanti, se si pensa che con le nostre forze copriamo le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Come Dda del capoluogo siciliano, in questi giorni, abbiamo deciso di mettere a concorso due dei 13 posti mancanti, ma si tratta sempre di strumenti d’emergenza. Lo stesso vale per le procedure avviate per assumere i nuovi magistrati in tutta Italia. Sono in corso concorsi per 500 posti e ne sono assai opportunamente previsti altri: benissimo, ma entreranno in servizio solo tra qualche anno. Nel frattempo, cosa si fa? Per combattere contro un nemico senza scrupoli, tutto deve funzionare. Invece scontiamo tanti errori fatti in passato. Non servono, ad esempio, più tribunali, ma tribunali attrezzati.

Collaboratori di giustizia e intercettazioni restano strumenti indispensabili.

Certamente. Teniamo alta la guardia, ma devo dire che su questi fronti arrivano segnali confortanti. Le intercettazioni ci hanno permesso di conoscere le dinamiche più riservate dei clan, il 41 bis è prezioso per impedire che i capimafia continuino a comunicare con l’esterno. Non è purtroppo saltato il tappo di tutte le connivenze e di tutti gli affari illeciti trattati dai boss, in realtà economicamente depresse. Figurarsi laddove c’è ricchezza. Dove ci sono tanti soldi, c’è tanta mafia: si fanno pochi omicidi e molti affari. Pensi al Nord Italia: Luciano Liggio venne arrestato a Milano nel 1974, a testimonianza del fatto che la presenza mafiosa anche nelle grandi città settentrionali non è mai mancata, soprattutto nei posti dove è possibile confondere i profitti illeciti con altre ricchezze. Per questo, guardiamo con grande attenzione all’arrivo dei fondi del Pnrr: Cosa nostra ha tutto l’interesse a entrare nel business dei cantieri e noi dovremo vigilare, in particolare sui subappalti. Servono controlli preventivi, indagini a tappeto. Poi toccherà agli imprenditori e alla società civile muoversi: la mobilitazione positiva degli ultimi mesi deve continuare.

avvenire.it

Il fratello di don Puglisi: “Pino, un prete vero fra i preti per mestiere. La Chiesa svolti e stia con gli ultimi”

Franco Puglisi

Franco Puglisi racconta il sacerdote e l’uomo: “Ironia e buonumore”. E critica le istituzioni: “Solo annunci, Brancaccio un mondo isolato”

repubblica.it

«Ogni giorno è il ripetersi di un dolore, un dito che si muove nella piaga. Ogni giorno è un pensiero intenso». Franco Puglisi parla al presente di suo fratello Giuseppe, don Pino, il parroco ucciso dalla mafia. Anche se sono trascorsi trent’anni da quel 15 settembre 1993. «Un dolore grande che si rinnova non solo perché ho perso un fratello, ma perché alcuni dei suoi sogni per Brancaccio non sono stati realizzati.

Palermo. Borsellino e Falcone, Giusti contro la mafia

L'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice

L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice – Collaboratori

La Messa celebrata dall’arcivescovo nella chiesa in cui sono stati battezzati Paolo Borsellino, nel 1940, e don Pino Puglisi, nel 1937

Trentuno anni fa, il diciannove luglio del 1992, era una domenica di piena estate, a Palermo. Un’esplosione devastò il silenzio e la serenità del giorno. Il giudice Paolo Borsellino fu travolto dalla violenza della mafia. Con lui morirono coloro che avevano giurato di proteggerlo, la sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. L’autista Toni Vullo, unico sopravvissuto, si salvò. Ma le cicatrici e gli incubi di quella strage non passarono mai.

Trentuno anni dopo, ieri, Palermo ha vissuto un rito della memoria divisa, con due manifestazioni – la fiaccolata serale, una tradizione della destra, e un corteo di segno opposto – che hanno sfilato, in orari diversi, fino al luogo dell’eccidio. Ma c’è stata anche una città che si è riunita, senza bandiere e senza polemiche, per onorare il sacrificio dei suoi umanissimi eroi che non saranno mai statue. Una parte si è raccolta nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa per la messa celebrata dall’arcivescovo, monsignor Corrado Lorefice. «Quando i malvagi distruggono i fondamenti dell’umanità solo l’azione dei Giusti può evitare che il loro disegno perverso possa avere successo – ha detto l’arcivescovo nella sua omelia -. Chi uccide un uomo è come se uccidesse il mondo intero e chi salva un uomo è come se salvasse il mondo intero».

«Teniamo desta la memoria dei Giusti – ha aggiunto – di questi nostri memorabili e amabili Giusti, uccisi nella strage di via D’Amelio 31 anni fa, che hanno dato la vita per una Sicilia libera dal maledetto, nefasto e antievangelico potere mafioso. Oggi ci è chiesto di onorare questi nostri martiri della giustizia e della legalità con un rinnovato impulso di fedeltà corresponsabile di tutti agli impegni sanciti dalla nostra Costituzione. Lo dobbiamo anche ai familiari delle vittime».

L’appuntamento ha visto la presenza, tra gli altri, del presidente della Regione, Renato Schifani, del sindaco, Roberto Lagalla, del prefetto, Maria Teresa Cucinotta, del questore, Leopoldo Laricchia, del procuratore, Maurizio De Lucia, del presidente del Tribunale, Piergiorgio Morosini.

Nelle panche, accanto a quelle riservate alle autorità, c’erano i parenti delle vittime. L’arcivescovo Lorefice li ha abbracciati uno per uno.

C’è un particolare che ha reso ancora più preziosa la celebrazione di Santa Maria della Pietà alla Kalsa. In questa chiesa sono stati battezzati sia il giudice Paolo Borsellino che padre Pino Puglisi. Il parroco di Brancaccio fu battezzato il 21 ottobre 1937, il giudice Borsellino il 24 febbraio del 1940. Padre Giuseppe Di Giovanni, il parroco, ha ricordato: «La casa di Borsellino, in via Vetriera, è a poche centinaia di metri dalla chiesa. Nel passato, molte famiglie del quartiere di Romagnolo facevano riferimento alla parrocchia della Kalsa. Tra queste anche quella di padre Puglisi».

«Don Pino Puglisi – ha aggiunto don Di Giovanni – è stato mio professore di religione a scuola e poi mio padre spirituale. Ricordo la sua dolcezza e il suo modo inimitabile e profondamente umano di rapportarsi con il prossimo». Una targa, al fonte battesimale, sottolinea la circostanza. Nell’archivio della parrocchia sono conservati i certificati. Chi maneggia quei reperti di carta, li sfiora con commossa riverenza. Qui, due bambini che avrebbero seminato tanto bene a Palermo, si incrociarono, per un caso. E cominciarono un cammino di speranza.

avvenire.it

Palermo. Il messaggio di Mattarella: combattere indifferenza e zone grigie

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D'Amelio

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D’Amelio – Ansa

Il capo dello Stato: Falcone e Borsellino hanno dimostrato che la criminalità organizzata può essere sconfitta. L’omaggio della premier, che non parteciperà alla fiaccolata serale: “Ma non scappo”

«Nell’anniversario della strage di via D’Amelio la Repubblica si inchina alla memoria di Paolo Borsellino, magistrato di straordinario valore e coraggio, e degli agenti della sua scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina – che con lui morirono nel servizio alle istituzioni democratiche». Lo scrive il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una dichiarazione aggiungendo che «quel barbaro eccidio, compiuto con disumana ferocia, colpì l’intero popolo italiano e resta incancellabile nella coscienza civile». «Il nome di Paolo Borsellino, al pari di quello di Giovanni Falcone, mantiene inalterabile forza di richiamo ed è legato ai successi investigativi e processuali che misero allo scoperto per la prima volta l’organizzazione mafiosa e ancor di più è connesso al moto di dignità con cui la comunità nazionale reagì per liberare il Paese dal giogo oppressivo delle mafie. Loro «avevano dimostrato che la mafia poteva essere sconfitta. Il loro esempio ci invita a vincere l’indifferenza, a combattere le zone grigie della complicità con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità».

Intanto la premier Giorgia Meloni è arrivata nella caserma Lungaro per la cerimonia in memoria dei cinque agenti di scorta assassinati nella strage di via D’Amelio, dove 31 anni fa fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. L’ingresso non è consentito ai giornalisti come comunicato ieri sera dalla questura. Meloni deporrà una corona sulla lapide in ricordo dei poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Poi si è recata nei luoghi in cui sono sepolti Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, al cimitero di Santa Maria di Gesù e nella chiesa di San Domenico. Subito dopo in Prefettura per presiedere il Comitato per l’ordine e la sicurezza. Meloni non sarà presente questa sera alla tradizionale fiaccolata organizzata da Fdi «per altri impegni concomitanti». «La strage di Via D’Amelio, dove Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta vennero uccisi dalla mafia, è stato il motivo per il quale ho iniziato a fare politica. La data del 19 luglio 1992 rappresenta una ferita ancora aperta per chi crede in un’Italia giusta». Lo scrive in un post su Facebook la presidente del Consiglio. «Paolo sfidò il sistema mafioso senza mai temere la morte, insegnandoci a non restare a guardare e a non voltarci mai dall’altra parte. Il suo coraggio e la sua integrità sono doni che ci ha lasciato e che tanti giovani hanno deciso di raccogliere per affermare due valori imprescindibili: la legalità e la giustizia», prosegue la premier. «Oggi, a 31 anni di distanza da quel terribile attentato, ricordiamo tutti quegli eroi che non ebbero paura di denunciare al mondo il vero volto della criminalità organizzata e che servirono lo Stato fino all’ultimo. Nel loro esempio portiamo avanti il nostro impegno quotidiano per estirpare questo male dalla nostra Nazione: solo così – continua Meloni – il loro sacrificio non sarà mai vano».

Intercettata dai cronisti durante la visita mattutina a Palermo, la premier ha risposto sulla mancata partecipazione al corteo serale: «Chi fa queste polemiche non aiuta le istituzioni. Mi ha stupito quello che ho letto sui quotidiani: una polemica inventata sul fatto che avrei scelto di non partecipare alla manifestazione per paura di essere contestata. Chi mi può contestare? La mafia? La mafia può contestare un governo che ha fatto tutto quello che andava fatto sul contrasto alla criminalità organizzata. Ma io non sono mai scappata in tutta la mia vita. Io sono un persona che si permette sempre di camminare a testa alta. Sono qui oggi e sarò qui sempre per combattere la mafia», afferma la premier al margine delle commemorazioni di Palermo.

avvenire.it

Palermo. Dopo lo choc della preside arrestata la comunità dello Zen vuole ripartire

L’ingresso della scuola

La scuola dedicata alla memoria del giudice Giovanni Falcone, nel cuore dello Zen, periferia estrema di Palermo, vuole riacquistare la propria serenità. Il quartiere ha bisogno di voltare pagina. Ma non è semplice. Lo choc proposto dalla cronaca è fortissimo e non accenna a diminuire. L’ex preside, la professoressa Daniela Lo Verde, è stata arrestata, nei giorni scorsi, con addebiti pesantissimi. Un colpo al cuore per chi guardava al cancello della scuola con fiducia. Non si deve mai generalizzare, oltre le singole responsabilità, oggetto di indagine. Né si può dimenticare l’impegno strenuo di tanti presidi e docenti a latitudini complicate. Però è vero che i simboli investono percezioni a larghissimo raggio.

Era una dirigente scolastica antimafia apprezzata, Daniela Lo Verde, insignita dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, nota per il suo impegno in una zona difficile. Gli addebiti di corruzione e peculato sono punteggiati da ricostruzioni inquietanti. Come la sottrazione di pc e tablet, destinati agli alunni e il cibo tolto alla mensa scolastica. Notizie che indignano, in questa parte poverissima di Palermo, tra padiglioni diroccati, spazzatura non raccolta, esposta alla luce del sole, e disagi di vaste proporzioni. Quaggiù fare la fame non è un modo di dire.

Il dirigente reggente Domenico Di Fatta con alcuni docenti dell’istituto “Falcone” del quartiere Zen di Palermo

Il dirigente reggente Domenico Di Fatta con alcuni docenti dell’istituto “Falcone” del quartiere Zen di Palermo – Web

Ora tutti gli occhi sono puntati sul nuovo reggente, il preside Domenico Di Fatta che era già stato alla “Falcone” dieci anni fa. Toccherà a lui riannodare i fili della fiducia spezzata, un compito arduo.

«Non voglio entrare nel merito dell’inchiesta, ma so che le cose che si sono viste e sentite non sono belle – ha detto il preside appena insediato –. Le mamme e i papà percepiscono un tradimento ed è comprensibile, io dovrò cercare di far loro cambiare idea e di spiegare a tutti che gli errori, se ci sono stati, investono la responsabilità di singole persone».

Il professore Di Fatta è un dirigente esperto e tenace: «Dopo essere stato preside della “Falcone”, dieci anni fa – ha raccontato, illustrando il suo curriculum – sono andato al liceo “Danilo Dolci” a Brancaccio a poche centinaia di metri da dove venne ucciso don Pino Puglisi. Ora sono dirigente al “Regina Margherita” la cui succursale è stata vandalizzata l’anno scorso. Le prime cose da fare qui? Ascoltare le famiglie e le associazioni che operano nel territorio. Da questo brutto momento dobbiamo uscire tutti insieme».

«Confesso che nell’apprendere la notizia il primo sentimento è stato di pietà per la preside – ha detto padre Giovanni Giannalia, parroco allo Zen da un anno e mezzo –. Mi sembra, però, sbagliato inquadrare la cosa a partire dalla realtà del quartiere. Io ci leggo invece la profonda crisi e confusione nella quale la nostra umanità può precipitare se non preghiamo e vegliamo su noi stessi. Mi permetto anche di far notare che i crolli evidenziano spesso che qualcosa non funziona a livello di struttura, scambio, vigilanza, compartecipazione. Piuttosto che piangersi addosso credo sia giusto rimboccarsi le maniche e ripartire con umiltà rafforzando tutti questi aspetti».

E ci sono le parole di frate Loris, nato nel quartiere, oggi cappellano al carcere “Pagliarelli”: «Il danno che si è prodotto lo considero gravissimo. La ferita inferta è molto profonda e non si rimarginerà subito. È necessario ripartire dalla riconquista della fiducia di tutti, dai bambini, dai ragazzi. E ci vogliono i servizi. Qui si deve attuare un progetto di rinascita non più rimandabile».

La rabbia dei genitori che accompagnano i figli a scuola, ogni mattina, è palese. Devono attraversare strade ricolme di rifiuti e rottami per arrivare al presidio dell’istruzione e della legalità. Ma cadono le braccia se perfino i luoghi che consideravi un’isola felice mostrano delle crepe.

C’è stata un’assemblea all’interno dell’istituto, un momento serrato di confronto. Ognuno ha condiviso con gli altri la propria sofferenza. Davanti al cancello una mamma si è sfogata: «La vita non è comoda, abbiamo i mariti al “Pagliarelli” e dobbiamo fare tutto da sole. Mio figlio è sconvolto, mi ha detto: se la preside rubava, perché non posso rubare pure io…».

All’incontro è intervenuto il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla: «La scuola e le istituzioni vanno al di là delle singole persone, il messaggio educativo continua – ha detto –. Sono sgomento per ciò che viene proposto dalla stampa sull’operato della preside Daniela Lo Verde e mi auguro che alla fine possa essere dimostrato che abbiamo fatto tutti solo un brutto sogno perché, prima da assessore e poi da sindaco, ho sempre ritenuto l’istituto Falcone un avamposto di legalità che non può ammettere tradimento». Allo Zen c’è bisogno, ancora più di prima, di fare bei sogni.

avvenire.it

Mafia. Arrestato il superlatitante Matteo Messina Denaro. Era a Palermo

I carabinieri lo hanno tratto in arresto in una clinica sanitaria. Il boss di Castelvetrano era ricercato da trent’anni. Meloni: grande vittoria dello Stato, lotta alla mafia senza tregua
Matteo Messina Denaro dopo l'arresto, nel furgone dei carabinieri

Matteo Messina Denaro dopo l’arresto, nel furgone dei carabinieri – Carabinieri del Ros

avvenire.it

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.

“Oggi 16 gennaio 2023 i Carabinieri del Ros, del Gis e dei comandi territoriali della Regione Sicilia nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Palermo hanno tratto in arresto il latitante Matteo Messina Denaro all’interno di una struttura sanitaria a Palermo dove si era recato per sottoporsi a terapie cliniche” ha detto il generale di divisione Pasquale Angelosanto, comandante dei Ros. Si tratta della clinica specialistica La Maddalena, dove il boss era andato in day hospital sotto falso nome. Si faceva chiamare Andrea Buonafede, nato il 23 ottobre del 1963.

A novembre Il Gazzettino aveva riportato le dichiarazioni di Salvatore Baiardo, che aveva gestito la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in Nord Italia. Baiardo aveva dichiarato che Messina Denaro era gravemente ammalato. Si tratterebbe di un tumore al colon.

Non si è opposto all’arresto e del resto il dispositivo allestito poteva fare fronte a ogni emergenza, garantendo la sicurezza di tutti” ha aggiunto Angelosanto. E’ finita, dunque, la latitanza di Messina Denaro, che si nascondeva dal 1993 e ritenuto l’ultimo padrino di Cosa Nostra. Ad arrestarlo sono stati i carabinieri del Ros che 30 anni fa con un blitz riuscirono anche ad arrestare il capo dei capi, Totò Riina.

Tre giorni fa il via libera al blitz

La certezza è arrivata tre giorni fa. I magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dato il via libera per il blitz. I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena dove, da un anno, Messina Denaro si sottoponeva alla chemioterapia e a maggio aveva subito un intervento.

Il boss, che aveva in programma dopo l’accettazione fatta con un documento falso, prelievi, la visita e la cura, era all’ingresso. La clinica è stata circondata dai militari col volto coperto davanti a decine di pazienti. Un carabiniere si è avvicinato al padrino e gli ha chiesto come si chiamasse. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro. L’ho detto, sono Matteo Messina Denaro” ha risposto.

Il boss avrebbe anche tentato di scappare ma poi si è arreso. Assieme a lui è stato arrestato il suo autista, Giovanni Luppino.

IL VIDEO. MESSINA DENARO PORTATO VIA DAI CARABINIERI ​

Cappello bianco, occhiali scuri, giubbotto in pelle marrone. Smagrito, sofferente e col volto stanco, conseguenza anche delle terapie a cui era sottoposto. Così è apparso Messina Denaro, di cui non si hanno foto degli ultimi decenni se non gli identikit ricostruiti dagli inquirenti.

Tenuto sotto braccio dai carabinieri, ha attraversato a piedi in manette per alcune centinaia di metri il viale della clinica arrivando in strada. Poi è stato fatto salire su un furgone nero e portato alla caserma San Lorenzo in via Perpignano per le operazioni di identificazione. Da qui traferito in elicottero in una località protetta.

Meloni: grande vittoria dello Stato. Piantedosi: giornata straordinaria

“Una grande vittoria dello Stato che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia”, ha commentato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “All’indomani dell’anniversario dell’arresto di Totò Riina, un altro capo della criminalità organizzata viene assicurato alla giustizia. I miei più vivi ringraziamenti, assieme a quelli di tutto il governo, vanno alle forze di polizia, e in particolare al Ros dei Carabinieri, alla Procura nazionale antimafia e alla Procura di Palermo per la cattura dell’esponente più significativo della criminalità mafiosa. Il governo – prosegue Meloni – assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua, come dimostra il fatto che il primo provvedimento di questo esecutivo, la difesa del carcere ostativo, ha riguardato proprio questa materia”.

Da Ankara, dov’è arrivato oggi per incontrare il suo omologo turco, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso “grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia”. “Complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo e all’Arma dei Carabinieri che hanno assicurato alla giustizia un pericolosissimo latitante. Una giornata straordinaria per lo Stato e per tutti coloro che da sempre combattono contro le mafie”.

Una nota del Quirinale informa che “il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato questa mattina al Ministro dell’Interno e al Comandante dell’Arma dei Carabinieri per esprimere le sue congratulazioni per l’arresto di Matteo Messina Denaro, realizzato in stretto raccordo con la Magistratura”.