INCHIESTA Trent’anni di mafia rivisti nel “Padrino”

Un saggio di Enrico Deaglio solleva molti interrogativi su depistaggi e latitanze eccellenti Con tanti rimandi al film di Coppola e al romanzo di Puzo

L’installazione “Branco” di Velasco Vitali, realizzata nel maggio scorso nell’Aula Bunker di Palermo in occasione della rassegna #SpaziCapaci promossa dalla Fondazione Falcone / Fondazione Falcone

Quando chiude questo libro di Enrico Deaglio dedicato alla mafia ( >>>Qualcuno visse più a lungo. La favolosa protezione dell’ultimo padrino, Feltrinelli, pagine 284, euro 19,00) il lettore torna a una frase che ha incontrato a pagina 227: «Sono passati trent’anni. Cosa si può sapere dopo trent’anni? Probabilmente nulla». In realtà le tante sentenze emesse dalle corti d’assise, grazie al lavoro ciclopico della magistratura siciliana, ci dicono molto. Ma, come sempre accade di fronte a fenomeni criminali così ampi e profondi, molti interrogativi riemergono e con gli anni si moltiplicano. Proprio questi interrogativi sono il cuore del libro. C’è una domanda principale che lo percorre come un’eco continua: perché ci sono voluti quindici anni e una dozzina di innocenti condannati all’ergastolo per scoprire che il racconto di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio era un depistaggio? Intorno a questo interrogativo di fondo, un corollario di altre domande senza risposta. Perché nel luglio 1979, nel carcere di Rebibbia, si suicida (fu vero suicidio?) Antonio Gioè che, con Giovanni Brusca, aveva azionato il telecomando di Capaci? Perché Giuseppe Graviano, uno dei principali protagonisti della strategia stragista del ’92-’93 e mandante dell’omicidio di don Pino Puglisi, fino al 1994 ha vissuto una latitanza di «circa dieci anni, in totale tranquillità» (parole dei giudici di Reggio Calabria) ad Omegna, ridente paesino sul lago d’Orta da dove si spostava abitualmente per fare shopping e frequentare ristoranti di lusso a Milano? Perché Graviano non fu mai «notato dalle forze dell’ordine, nonostante fosse solito spostarsi in compagnia di svariati soggetti?» (sono sempre i giudici di Reggio a scriverlo in sentenza). Come mai in quei dieci anni a nessuno è venuto in mente di cercarlo ad Omegna, ancorché lì Graviano fosse ostentatamente accolto da un parente di un pezzo grosso della banda di Brancaccio, di cui Graviano era capo incontrastato? E pensare che ad Omegna Graviano riceveva frequenti visite di parenti ed amici che arrivavano in treno e in auto da Palermo. Illuminando questi interrogativi irrisolti, Deaglio è cronista di trent’anni di mafia. Le stragi infinite dei primi anni ’80 (tempi in cui poteva accadere che, nella stessa via di Palermo, in quattro mesi fossero uccise dodici persone!). Gli omicidi eccellenti. La guerra dei corleonesi con lo sterminio di intere famiglie perché – diceva Riina – «non doveva rimanere nulla del loro seme». La Pizza connection e i legami, per il mercato della droga, con i cugini d’America. I rapporti col finanziere Michele Sindona e la sua morte per avvelenamento nel carcere di Voghera (come evitare il richiamo all’avvelenamento, all’Ucciardone, di Gaspare Pisciotta, omicida confesso del leggendario bandito Giuliano?). Il martirio di don Puglisi che, nel regno dei Graviano, a Brancaccio, si ostinava a sognare «che i bambini andassero a scuola e le bambine non si prostituissero ». L’assalto al cielo, contro le istituzioni dello Stato e il massacro dei suoi migliori servitori, fino alle stragi del ’92 e ’93.

A far da colonna sonora a questo racconto dell’orrore c’è un film di 50 anni fa: Il Padrino di Francis Ford Coppola che, con i suoi personaggi più che realisti, ‘divinatori’, aveva già raccontato tutto. «Nel Padrino c’è tutto», dice una celebre battuta di Tom Hanks in C’è posta per te. E così la pensa Deaglio, da sempre innamorato del film di Coppola. I mafiosi vincenti vengono da Corleone, il paese del Padrino, reso famoso nel mondo dal romanzo di Mario Puzo e dal film di Coppola. L’omicidio di Carmine Galante, tranquillamente seduto col sigaro in bocca in un ristorante di New York nel 1979, pare la trasposizione dalla finzione alla realtà della indimenticabile scena in cui Michael, recuperata una pistola nascosta nello sciacquone del bagno, uccide con due soli colpi Sollozzo e il capitano corrotto della polizia. La freddezza tranquilla di certe esecuzioni fa venire in mente il «lascia la pistola, prendi i cannoli», detto da Clemenza a Rocco Lampone dopo che costui ha appena sparato alla nuca di un loro uomo, sospettato di infedeltà. Lo schema organizzativo della ‘Commissione’ di Cosa Nostra è lo stesso di quello raccontato da Puzo. La scelta della famiglia Graviano di lasciare Brancaccio per la Milano degli affari ricorda il trasferimento dei Corleone dalla pericolosa New York al più tranquillo Nevada. Gli accordi tra mafia e mondo di economia e finanza, raccontati dal collaboratore Angelo Siino ci portano a Cuba, capodanno del 1959, quando i maggiori imprenditori americani, incrociando quasi senza accorgersene (solo Michael capisce) i barbudos di Castro che stanno prendendo il potere, si incontrano per stringere affari con i Corleone.

«Tutti si pentono, prima o poi; tutti o quasi», scrive a un certo punto Deaglio. E infatti il suo libro attinge con gusto narrativo ai racconti di tanti ‘dichiaranti’ (puntigliosamente indicati in Appendice). Non solo a quelli recepiti in sentenze definitive ma anche ai tanti racconti resi in processi ancora aperti o nel corso di ‘colloqui investigativi’ o captati durante le intercettazioni. Ma noi sappiamo che non tutti i ‘collaboranti’ (neppure quelli certificati dall’autorità giudiziaria) sono egualmente attendibili. E, alla fine, le loro voci sono come tanti strumenti di un’orchestra. Il risultato finale non è però un’armonica sinfonia, ma un tumulto cacofonico. Non invidiamo i magistrati siciliani e calabresi che in quella foresta di suoni han dovuto addentrarsi e orientarsi. Nonostante alcuni errori, anche gravi, che Deaglio puntualmente denuncia, il loro lavoro, nel complesso, è stato molto importante. L’avvertimento iniziale («cosa si può sapere dopo trent’anni?») forse va rovesciato: «Cosa si può sapere soltanto trent’anni dopo?». Forse solo le nostre e i nostri nipoti, quando saranno aperti certi archivi, quando la nebbia si sarà alzata e la polvere posata, saranno capaci di scrivere la storia di questi decenni di assedio mafioso allo Stato e alla libera vita dei cittadini onesti. Ma sarà compito degli storici, non dei tribunali.

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