Pasqua di Risurrezione (anno B) – Domenica 31 marzo 2024

Vita piena, il kerigma della Redenzione

Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare
a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole.

Marco 16,1-2

Apre la liturgia della Parola del Giorno di Pasqua la proclamazione del kerigma integrale del cristianesimo, annuncio della «salvezza potente suscitata per noi nella casa di Davide, servo» del Signore (Luca 1,69), pronunciato dall’apostolo Pietro di fronte alla famiglia del pagano Cornelio, nel contesto del trittico battesimale dei capitoli 8-10 degli Atti degli Apostoli: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni, come Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, che passò beneficando e sanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Lo uccisero, appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la sua Risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A Lui tutti i profeti danno testimonianza: chiunque crede in Lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome» (Atti 10,37-43, I lettura del giorno).

Nella notte della Veglia, dopo le otto letture uguali tutti gli anni, in questo anno B siamo accompagnati alla scoperta della tomba vuota dal Vangelo di Marco, che si ispira direttamente a Pietro e ripercorre con essenzialità, “dal battesimo di Giovanni alla Resurrezione”, le tappe di questo kerigma, che ha fondato la predicazione dei primi secoli invitando al Battesimo della salvezza, nel quale «siamo morti con Cristo e crediamo che anche vivremo con Lui» (Epistola della Veglia, Romani 6).

Le donne, che hanno seguito con fedeltà il Salvatore e «hanno osservato», con uno sguardo di amore e di tenerezza, «dove veniva posto», sono le prime che, «passato il sabato», «di buon mattino, il primo giorno della settimana» si recano al sepolcro al levar del sole. Abbondano i dati temporali e geografici a dire che la Risurrezione non è un’idea astratta, ma un fatto avvenuto nel tempo e nello spazio, là dove si dispiega la vita fisica di ogni persona umana, unità di spirito e corpo, creata «a immagine e somiglianza» di Dio (Genesi 1,26, I lettura della Veglia). Guida le donne un amore grande, che è la virtù che resta (1Corinzi 13): pur nel dubbio su «chi possa far rotolare via per loro la pietra all’ingresso del sepolcro», esse camminano con perseveranza e fede, come avevano fatto Abramo nella prova (Genesi 22, II lettura della Veglia) e il popolo nella Pasqua antica (Esodo 14, III lettura della Veglia), incontro allo Sposo vero descritto dai profeti (Isaia 54, IV lettura della Veglia), Colui che per primo ama e compie le sue promesse (V-VII lettura della Veglia).

La speranza di vedere il Signore, che è nel cuore di ogni credente (Salmo 26) da Abramo a Simeone, a Pietro e Giovanni (Vangelo del giorno, Giovanni 20), a ciascuno di noi, è coronata oltre ogni attesa: l’Amato non si cerca tra i morti, ma tra i vivi, perché l’Amore non muore! È questa la gioia della Risurrezione: in ogni notte, in ogni alba, Egli, vivens, sempre ci aspetta e si fa vedere nella nostra «Galilea», luogo del lavoro quotidiano, dell’infedeltà e della rivelazione, là dove ci ha chiamati, dove ce ne siamo innamorati, per una Vita che non ha fine, perché è eterna in Lui. Buona Pasqua!

Famiglia Cristiana

Reggio Emilia, Festa della Natività della Beata Vergine Maria: l’omelia dell’Arcivescovo Giacomo

REGGIO EMILIA – “La sapienza del cuore è un dono prezioso che ognuno deve richiedere al Signore, così come fece il re Salomone all’inizio del suo regno.” Lo ha affermato questa mattina, venerdì 8 settembre, l’arcivescovo Giacomo nell’omelia della solenne concelebrazione eucaristica per la solennità della Natività di Maria, presieduta nella basilica della Ghiara gremita di fedeli.

Questa dote permette di saper trattare le grandi problematiche esistenziali, dare senso e significato alla vita, alla sofferenza, alla malattia. Mons. Morandi ha richiamato l’importante indicazione del vangelo di San Luca “Maria concervava tutte queste cose in cuor suo meditandole”, sottolineando la rilevanza della riflessione, della memoria, del pensare; il dimenticare porta al disorientamento, allo smarrimento culturale e spirituale. Un popolo senza memoria è perduto, mentre deve conservare l’esperienza, i valori consegnati dai padri.

Nell’omelia l’Arcivescovo ha rilevato come oggi grande sia la capacità di comunicare ma altrettanto scarsa quella di riflettere; si è bombardati di messaggi, immediatamente consultati, anche quando si dovrebbe utilizzare il tempo per la meditazione, il dialogo in famiglia, con gli amici e le persone che si amano. E’ dunque una “comunicazione virtuale” quella che si vuole instaurare con gli altri. Non ci si riserva il tempo per meditare. Al riguardo il presule ha posto in evidenza i pericoli dell’intelligenza artificiale; non si ha bisogno di “tutorial”, ma di qualcuno che possieda la vera sapienza del cuore. E ha citato un pensiero Pascal – di cui ricorre quest’anno il quarto centenario della nascita -: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. D’altra anche la saggezza popolare usa l’espressione: è una persona di cuore. Ecco allora l’invito: alla scuola di Maria pregare perché la città di Reggio e la diocesi reggiano-guastallese siamo capaci di offrire alle persone il dono della sapienza del cuore.

Al termine della celebrazione, l’Arcivescovo ha avuto parole di apprezzamento per la comunità dei Servi di Maria che custodisce il tempio mariano e per il presidente della Fabbriceria del Tempio Gino Farina che ha invitato le unità pastorali a partecipare alla manifestazione degli altari fioriti in Ghiara.

Infine mons. Giacomo Morandi ha avuto parole di stima e riconoscenza, sottolineate dall’applauso, per il cappuccino padre Lorenzo Volpe – suo compagno di studi -, che dopo oltre venti anni trascorsi nel convento di Reggio, sarà dalle prossime settimane “di famiglia” nella fraternità di Castel San Pietro.

stampareggiana.it

Commento al Vangelo XV Domenica Tempo ordinario – Anno C

A cura di Ermes Ronchi

Avvenire

In quel tempo (…) Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino (…)».
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Uno dei racconti più belli al mondo. Solo poche righe, di sangue, polvere e splendore. Il mondo intero scende da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un’altra strada, io non c’entro. Siamo tutti sulla medesima strada. E ci salveremo insieme, o non ci sarà salvezza. Un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa è un prete, un rappresentante di Dio e del potere, vede l’uomo ferito ma passa oltre. Non passare oltre il sangue di Abele. Oltre non c’è nulla, tantomeno Dio, solo una religione sterile come la polvere.
Invece un samaritano, che era in viaggio, vide, ne ebbe compassione, si fece vicino. Un samaritano, gente ostile e disprezzata, che non frequenta il tempio, si commuove, si fa vicino, si fa prossimo. Tutti termini di una carica infinita, bellissima, che grondano umanità. Non c’è umanità possibile senza compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, senza prossimità, il meno zuccheroso, il più concreto. Il samaritano si avvicina. Non è spontaneo fermarsi, i briganti possono essere ancora nei dintorni. Avvicinarsi non è un istinto, è una conquista; la fraternità non è un dato ma un compito.
I primi tre gesti concreti: vedere, fermarsi, toccare, tracciano i primi tre passi della risposta a “chi è il mio prossimo?”. Vedere e lasciarsi ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in questo fiume di lacrime» (Turoldo), invisibili però a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Fermarsi addosso alla vita che geme e si sta perdendo nella polvere della strada. Io ho fatto molto per questo mondo ogni volta che semplicemente sospendo la mia corsa per dire «eccomi, sono qui». Toccare: il samaritano versa olio e vino, fascia le ferite dell’uomo, lo solleva, lo carica, lo porta. Toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la mano: «Non ho paura e non sono nemico». Toccare l’altro è la massima vicinanza, dirgli: «Sono qui per te»; accettare ciò che lui è, così com’è; toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione per la bontà dell’intera sua persona.
Il racconto di Luca poi si muove rapido, mettendo in fila dieci verbi per descrivere l’amore fattivo: vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò… Questo è il nuovo decalogo, perché l’uomo sia promosso a uomo, perché la terra sia abitata da “prossimi” e non da briganti o nemici. Al centro del messaggio di Gesù una parabola; al centro della parabola un uomo; e quel verbo: Tu amerai. Fa così, e troverai la vita.
(Letture. Deuteronomio 30,10-14; Salmo 18; Colossesi 1,15-20; Luca 10,25-37)

L’arte dell’omelia

liturgia

Settimana News

Nell’arte di celebrare rientra a pieno titolo l’omelia che partecipa del valore sacramentale della Parola proclamata, a condizione che sia un segno leggibile e quindi valido veicolo del messaggio per l’oggi della Parola che è contemporanea ad ogni uomo ieri, oggi, sempre.

Suggestioni introduttive

Come ogni arte che si rispetti, anche l’omelia richiede un lungo apprendistato, una continua ricerca, approfondimenti e sensibilità verso la realtà e il mondo in cui si vive. Nessun musicista è arrivato a comporre i suoi capolavori fin dall’inizio: Brahms compose piuttosto tardi le sue quattro sinfonie, frutto anche di un sofferto lavoro, così come Mozart pervenne ai suoi ultimi capolavori sinfonici dopo un rodaggio con tutta una serie di sinfonie.

Le omelie che facevamo da giovani preti erano frutti acerbi che sono poi maturati nei decenni e sempre migliorati e adeguati al momento storico.

L’apprendistato, per quanto laborioso, non porta all’acquisizione di un risultato ormai consolidato e ripetitivo; è necessario un continuo aggiornamento, per essere al passo con l’evoluzione della teologia, dell’esegesi, del magistero (penso a quello fondamentale per la comunicazione offerto da papa Francesco) e con i tempi.

Ex abundantia cordis os loquitur (Mt 12,34): pienezza, in questo caso, che deriva dalla cura della propria fede e interiorità, e si manifesta come ricchezza di contenuti frutto di letture e di meditazione.

Per un continuo esame critico del modo di fare l’omelia, ritengo importante l’apporto di libri che ci aiutano a scoprire tutto ciò che va a discapito dell’annuncio. Particolarmente importanti sono le osservazioni che provengono dai fedeli, il cui feedback va richiesto e tenuto in gran conto.

Proprio dalla parte dei fedeli, ci sono pubblicazioni che ci mettono di fronte a osservazioni acute e puntuali. Giusto per citarne qualcuna, c’è chi per Salvare l’omelia, ha messo a servizio la sua competenza specifica (Adriano Zanacchi) e chi, come Roberto Beretta, con grande senso dello humor, per Difendersi dalle prediche ammonisce: Da che pulpito…

Claudio Dalla Costa ci porta a conoscenza delle sue Riflessioni laicali sulle omelie dopo un sospiroso Avete finito di farci la predica? Parole molto illuminanti ci offre Andrea Grillo alla voce Omelia nel suo bel libro La liturgia in 30 parole. Col suo stile originale don Alessandro Pronzato, molto vicino comunque alla sensibilità dei fedeli, ci ha regalato due chicche: Il Vangelo secondo noi, in cui si mette dalla parte di Un cristiano qualunque che commenta la predica della domenica e La predica prova della fede?

Al di sopra di tutti però, nel 2013, papa Francesco ci ha donato in Evangelii gaudium un capitolo sull’omelia, una sintetica summa da tener sempre presente, fatta di indicazioni semplici ma puntuali.

Ecco come egli apre il discorso: «Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» (135).

Il papa accenna ai reclami e lui stesso ne segnala alcuni.

Reclami

Il primo reclamo è che «l’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione» (138).

In proposito Giuliano Zanchi fa il suo affondo, com’è proprio del suo stile: «Il vertice indiscusso di questo declino comunicativo resta però, nel senso comune, l’omelia domenicale, patita perlopiù come un’afflizione incorporata al precetto, che anche le sceneggiature cinematografiche, non senza malizia, hanno contribuito a stabilizzare mentalmente come riflesso della parola aerea, prolissa, evasiva e insignificante, un tormento verbale che per definizione non deve necessariamente far corrispondere cose ai suoni. Anche qui il vertice della pena viene toccato a rialzo ogni volta che si cerca di rivitalizzare la parola omiletica ricorrendo a tecniche o espedienti energizzanti mutuati da aggiornate abilità comunicative. Le lusinghe dei metodi si intrecciano sempre ai narcisismi in scena. Allora se ne sentono di tutti i colori. Il tono imbonitore del prete che ha assimilato la lingua della televendita. La retorica frizzante della persuasione insegnata nei manuali di management. L’esaltazione carismatica del mega predicatore americano. Tecniche di incitamento da manipolazione delle masse più che di conversione dei cuori. Tentazioni più che tentativi. Tecnica più che sapienza».

L’altro reclamo è la prolissità. «L’omelia è un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo… La parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (n. 138).

L’omelia non deve sforare il suo tempo a scapito del ritmo, dell’insieme armonico e anche del peso da attribuire a ciò che segue. Se si prolunga troppo, rischia di diventare «lunga e piatta come la spada di Carlo Magno» (Voltaire) e di trasformarsi nel «tormento dei fedeli» (Carlo Bo).

D’altronde, non tutto si risolve nell’omelia: presupposta una corretta e udibile proclamazione della Parola, c’è tutta una serie di richiami nella liturgia del giorno che, come tanti incisi, rimandano al tema centrale, che dovrebbe vedersi riflesso anche nei canti scelti. Lo stesso tempo di silenzio ben calibrato che segue l’omelia contribuisce all’assimilazione della Parola.

La preparazione

Molto dipende dalla preparazione, che richiede una cura particolare da iniziare per tempo, in modo da assicurare una forma corretta, lieve, semplice ma non superficiale, e soprattutto contenuta: «Compendia il tuo discorso. Molte cose in poche parole» (Sir 32,8).

L’abitudine, per esempio, di stendere per esteso l’omelia in uno spazio ben definito e in buona forma espositiva, fa sì che i periodi e le frasi siano tenute sotto controllo e ridotti all’essenziale: questo esercizio aiuta a contenere i tempi. Il fatto che ci sia stato un accurato lavoro di approfondimento permette, durante l’esposizione, di sperimentare la verità del detto di Catone Rem tene, verba sequentur, evitando quindi di ridursi a leggere il testo a scapito della spontaneità e reciprocità di sguardi e reazioni tra l’omileta e l’assemblea.

Una preparazione accurata e fatta per tempo può significare tuttavia accumulare tanto materiale, col rischio di mettere troppa carne a cuocere. Papa Francesco dice al riguardo: «Il linguaggio può essere molto semplice, ma la predica può essere poco chiara. Può risultare incomprensibile per il suo disordine, per mancanza di logica, o perché tratta contemporaneamente diversi temi. Pertanto un altro compito necessario è fare in modo che la predicazione abbia unità tematica, un ordine chiaro e connessione tra le frasi, in modo che le persone possano seguire facilmente il predicatore e cogliere la logica di quello che dice» (158).

L’essersi prefisso, comunque, uno spazio e un tempo ben precisi nella stesura dell’omelia significherà esporre, per esempio, due temi con variazioni e incisi che li mettano a fuoco, anche con rimandi alle altre letture e con puntuali attualizzazioni sempre in tema, il tutto corredato di esempi, immagini, paragoni.

Alcune tentazioni

Dopo aver visionato i testi della liturgia del giorno è facile abborracciare qualche idea avvalendosi della pratica e di un’immediata interpretazione dei testi frutto di una vulgata sedimentata, rischiando di rivestire con parole ricercate il vuoto di contenuti, giusto come ironicamente diceva un vescovo: «Ci possono mancare le idee, ma non le parole».

L’approccio ai testi facendosi guidare da una corretta esegesi suggerirà cosa non dire, per essere fedeli al vero messaggio inteso da chi ha scritto e da Chi ha ispirato quei brani. L’approfondimento condotto su sussidi specifici (penso a Servizio della Parola) garantisce la non arbitrarietà e aiuta anche nel compito di attualizzare la Parola.

Karl Barth diceva che al mattino egli meditava tenendo presente da una parte il giornale e dall’altra la Bibbia. Leggere quindi la storia, gli eventi alla luce della Parola, evitando ovviamente i moralismi.

L’omelia è profezia, «tenere cioè lo sguardo fisso su Gesù, cercando di vedere gli uomini e le vicende con l’occhio stesso di Dio, occhio di misericordia e trasparenza», e avendo presente come sfondo la «profezia radicale: la morte non ha l’ultima parola, la parola di Dio può richiamare alla vita i morti» (Enzo Bianchi, Cristiani nella società, pag. 7 e 13).

Esemplari in questo senso erano le omelie di padre Ernesto Balducci, impregnate della spiritualità di risurrezione pur nella denuncia delle storture nella storia e nel presente. «In ogni caso, se indica qualcosa di negativo, cerca sempre di mostrare anche un valore positivo che attragga, per non fermarsi alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Inoltre, una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività» (159).

liturgia

Non può quindi assecondare le aspettative e le assuefazioni mediocri di una religiosità e società borghese. Jürgen Moltmann è chiaro al riguardo: «Questa speranza fa della comunità cristiana un elemento di perenne disturbo nelle comunità umane che vogliono diventare una “città stabile”. Essa fa della comunità la fonte di impulsi sempre rinnovati tendenti a realizzare il diritto, la libertà e l’umanità quaggiù, alla luce del futuro che è stato annunciato e che deve venire» (Teologia della speranza, pag. 15).

Bando, comunque, ai moralismi e ai toni minacciosi: «La Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato… Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone; così accade anche nell’omelia» (139).

D’altronde, «l’ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo, si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti» (140). Non per nulla omelia significa conversazione fraterna.

Un’altra tentazione nell’ambito della preparazione è quella di pensare subito a ciò che si deve dire al popolo, sorvolando un serio approfondimento personale.

Ci ricorda il papa che «altra tentazione molto comune è iniziare a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita… Alla presenza di Dio, in una lettura calma del testo, è bene domandare, per esempio: “Signore, che cosa dice a me questo testo? Che cosa vuoi cambiare della mia vita con questo messaggio? Che cosa mi dà fastidio in questo testo? Perché questo non mi interessa?”, oppure: “Che cosa mi piace, che cosa mi stimola in questa Parola? Che cosa mi attrae? Perché mi attrae?”» (153). «È ciò che chiamiamo lectio divina. Consiste nella lettura della Parola di Dio all’interno di un momento di preghiera per permetterle di illuminarci e rinnovarci» (152).

Quindi, «prima di preparare concretamente quello che uno dirà nella predicazione, deve accettare di essere ferito per primo da quella Parola che ferirà gli altri, perché è una Parola viva ed efficace che, come una spada, “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”» (150).

La giusta angolazione

L’esigenza di un serio approfondimento non toglie però la necessità di una giusta angolazione nell’iniziare l’omelia, per evitare che essa fin dall’inizio rimbalzi al di sopra delle teste e dell’attenzione. Iniziare abitualmente col dire ciò che la prima lettura ci dice, come e qualmente, lo stesso poi per la seconda e per il vangelo, non garantisce l’attenzione. Lo stesso dicasi se ci si limita a parafrasare il vangelo. Di fronte alla solita solfa abbinata al tipico tono predicatorio molti cambiano canale, mentre i ragazzi si salvano rifugiandosi nella fantasia o preferendo dare una sbirciata al cellulare, dilettandosi semmai con un videogioco.

L’utilizzo trasversale delle tre letture e del salmo responsoriale, richiamandone i punti salienti nei momenti opportuni e tenendo presente il tema portante della liturgia del giorno che i compilatori hanno inteso suggerire nella scelta dei testi (con risultati a volte discutibili), può garantire la fedeltà alla Parola e l’attenzione dai fedeli.

Importante è l’incipit per captare subito l’attenzione. Conviene entrare subito in media res, collegare quanto più è possibile una domenica all’altra, mostrando così una continuità tematica progressiva, quando c’è; mettere Cristo al centro, evidenziando fin dall’inizio ciò che egli vuole comunicare oggi, in continuità con la domenica precedente, per educarci alla fede, alla coerenza e alla testimonianza nella società.

In questo modo si aiutano i fedeli a percorrere lungo l’anno liturgico un itinerario permanente di iniziazione alla fede e alla preghiera, suggerendone le modalità possibili per la gente, come consigliava K. Rahner e come i riti stessi fanno col loro svolgersi performante.

Una preoccupazione costante deve essere la chiarezza. Le parole bisogna romperle, come si rompe il guscio della noce perché venga fuori il mallo. Se certi termini vanno utilizzati, bisogna subito darne la spiegazione che elimini ogni equivoco, perché certe nostre parole hanno un altro significato nell’uso corrente o una diversa risonanza in chi ascolta. Servizio della Parola a questo scopo ha dedicato per anni una sua rubrica Le nostre parole, divenuta poi un libro disponibile in formato kindle.

Sarà sempre necessario mediare il linguaggio biblico, senza tuttavia fare una lezione di esegesi. Ci si potrà valere della strumentazione storico-critica e teologica, di cui però si spremerà in un certo senso il succo. Una volta assimilata, porgeremo della Parola il nutrimento essenziale, ruminato, masticato, come fanno i pellicani nel porgere il cibo ai piccoli, allo scopo di rendere chiaro il messaggio per tutti. Esemplari sono, al riguardo, i divulgatori che, attraverso i media, sanno rendere in un linguaggio accessibile a tutti contenuti densi di retroterra scientifico. Vera cultura è la capacità di dire cose profonde e impegnative con un linguaggio semplice e comprensibile.

Due tasti delicati

«La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore» (143).

Molto dipende, dunque, da che tipo di sintesi teologica e vitale ha maturato il prete che parla al popolo.

Trasmettere una mentalità da fuga mundi, esigenze e spiritualità da monaci, o un cristianesimo molto devozionale, spesso fragile e suscettibile di derive fideistiche e credulone, significa situarsi fuori dalla realtà e venir meno al compito di presentare invece l’aspetto mistico del cristianesimo (come diceva K. Rahner «il cristiano del futuro o sarà mistico, o non sarà»), cioè una spiritualità emanante dal battesimo, per «noi delle strade» (Delbrêl), e tuttavia resa consapevole, mediante intelligenti inserti mistagogici nell’omelia, di essere condotti dall’azione dello Spirito a fidarci di Cristo e ad affidarci al Padre, inseriti nel circuito trinitario.

Diversamente, di fronte a spiritualità alienanti (“bisogna essere distaccati dagli affetti familiari”, e uno pensa “ma quando mai!”; “distaccati dal denaro”, “e come se magna?”) o al prevalere della lagnanza, del lamento e della critica, uno è portato a «sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi», come quando si dà l’idea che «Dio esiga da noi una decisione troppo grande che non siamo ancora in condizione di prendere». La mamma di don Tonino Lasconi diceva al figlio fresco di ordinazione: «Tu, mi raccomando, la predica falla corta, falla bella e falla allegra» (Strada facendo, pag. 66).

Bisogna quindi incoraggiare la gente e aiutarla a non «perdere la gioia dell’incontro con la Parola». Una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività.

«Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”» (164).

L’altro tasto dolente è il cosiddetto ecclesialese. Papa Francesco lo descrive bene: «Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente» (158).

Al riguardo R. Beretta, nel suo simpatico libro ce ne ha dato un esempio, creando in quello stile una pagina fatta di tante piccole frasi a senso compiuto, inserite in una griglia, in modo che, collegandole a caso fra di loro, ne esca fuori un discorso compiuto che però dice tutto e niente. La stessa cosa fece Mozart nella sua composizione Musikalisches Würfelspiel (gioco dei dadi).

L’odore delle pecore

Per arrivare con la Parola al cuore della gente bisogna condividerne la vita, ascoltare molto e adattarsi al suo linguaggio: «La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cf. 2Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (139).

E allora avviene ciò che magistralmente descrive Giuliano Zanchi: «Quando, contro ogni speranza dei presenti, la profezia del vangelo riesce a risuonare nella sua semplice potenza umanizzatrice, capace di legarsi alle questioni vere di esseri umani reali, in cui la Scrittura manifesta tutta la sua potenza rivelatrice, con la ragionevolezza richiesta dal presente, magari con parole scelte con cura, per tempo, con quella naturalezza letteraria che si impara solo con il tempo, allora le teste si alzano, gli sguardi si orientano, gli occhi cominciano a fissare il parlante e si sente quel silenzio che non è rumore della noia ma la sospensione dell’ascolto. Non vola una mosca. La parola ha toccato i cuori e mosso le intelligenze. Un incontro ravvicinato di questo tipo si dà quando il predicatore suscita la meraviglia di una scrittura portata così prossima al pianerottolo della vita reale da sembrare scritta l’altro ieri proprio per noi» (G. Zanchi, Rimessi in viaggio, p. 73).

Quello che Massimo Recalcati afferma a proposito degli effetti che produce la lettura, secondo l’intuizione lacaniana de lalingua, vale anche per l’omelia che sa intercettare il vissuto profondo delle persone. «Leggere contiene sempre la possibilità misteriosa di sentirsi letti. Perché quel libro mi scuote se non perché in esso trovo le risposte o le domande che attraversano la mia vita? Quando leggo sono soprattutto letto. La lettura è esporsi a un’esperienza che può diventare un incontro. Il lettore si trova, attraverso il libro confrontato alla propria lalingua (Lacan)… Un libro mi legge quando mi risponde, mi chiama, mostra i miei fantasmi, affonda, per qualche ragione obliqua nella mia lalingua sorprendendomi e rivelandomi quello che inconsciamente sapevo già, ma non aveva ancora le parole per dirlo» (I tabù del mondo, pag. 138-139).

Concludo con un arguto pensiero del card. Martini: «Riguardo la predicazione, tutti sanno dare consigli, ma pochissimi sanno farla bene. Molti sanno dire come la predicazione dovrebbe essere… però, una volta ricevuti i consigli, il predicare rimane un’avventura».

Vicino e lontano. Commento al Vangelo di oggi. V domenica del tempo ordinario

Is 6,1-2.3-8; Sal 137 (138); 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

Luca 4,31 presentava Gesù già a Cafarnao, di nuovo di sabato, insegnando e suscitando stupore (v. 32) e operando una serie di guarigioni. La sua preoccupazione resta però l’insegnamento e l’annuncio del Regno (v. 43). Nell’ultimo versetto (v. 44) Luca insiste sul suo passare da una sinagoga all’altra, ma in Giudea.

Dato che in 5,1 lo troviamo presso il lago in Galilea, non possiamo pensare che a una sineddoche: un nome solo – e il più conosciuto – per la complessità del territorio. Quanto al guarire e insegnare di sabato può essere una conferma di autorevolezza e, nello stesso tempo, di legame con la gente, che ha nella sinagoga un luogo non solo per l’insegnamento e la preghiera, ma anche di incontro e di aggregazione.

A un certo punto sembra che la sinagoga non basti più. La gente si affolla sulla riva del lago di Gennesaret «per ascoltare la parola di Dio» (v. 1), non solo l’insegnamento di Gesù, ma tutto quello che esso evoca come promessa di salvezza e di giustizia. 

Gesù trova allora un modo originale per essere contemporaneamente vicino, a portata di voce, e lontano, per non essere travolto. 

Nel complesso il racconto si articola in tre momenti, avendo sempre Gesù al centro: il primo è sulla riva del lago, appunto, dove egli è con la folla; il secondo è sulla barca di Simone con alcuni discepoli; il terzo è di nuovo sulla riva del lago con Simone e alcuni suoi koinonoi (v. 10) – termine che indica qualcosa di più di un semplice socio d’affari, bensì qualcuno con cui si ha comunanza in qualcosa, un compagno di vita e di esperienze –.

L’atteggiamento di Gesù è di costante autorevolezza, anche se per gran parte del racconto tace: siede e insegna (v. 3), ordina a Simone di prendere il largo e gettare le reti (v. 4), lo chiama alla sequela in forma indiretta (v. 10). Egli è sempre vicino e lontano, contemporaneamente presente e assente.

Parallelamente cresce la figura di Simone. All’inizio ci sono semplicemente dei pescatori (alieis, v. 2), e tra questi anche lui che è il proprietario di una delle barche in secca (v. 3). Proprio sulla sua sale Gesù. La barca si allontana dalla riva gradualmente: prima è a portata di voce, poi al largo su ordine di Gesù stesso (eis to bathos, v. 5, «la profondità», «gli abissi») e udiamo la voce di Simone per la prima volta: la sua è una considerazione professionale negativa seguita da una sorta di professione di fede, una via di mezzo tra pescatore e discepolo.

Infine lo vediamo buttato in ginocchio (il verbo prosepesen del v. 8 dice un moto di caduta repentino, quasi violento), pronunciando parole che denunciano la sua condizione di uomo e di peccatore (oti aner amartolos eimi, kurie, v. 8), rivolte a Gesù col titolo pasquale di Kyrios. Non a caso il Quarto Vangelo colloca l’episodio sempre sul lago di Galilea, ma dopo la risurrezione (cf. Gv 21,1ss). 

Simone confessa in tal modo di aver ricevuto una doppia rivelazione: ha capito chi sia Gesù, del quale già aveva colto l’autorevolezza chiamandolo epistates, «maestro» (v. 5), dalla parola particolarmente credibile, e ha capito chi sia lui stesso: un uomo bisognoso di perdono e di misericordia.

Come in analoghi racconti del Primo Testamento, Gesù risponde con la frase tipica di quando Dio affida una missione: «Non temere» (v. 10). Non si allontanerà come Pietro gli ha chiesto, sarà sempre lontano e vicino come Dio con il popolo d’Israele. 

Dice un midraš più volte citato da Wiesel che un idolo è o vicino o lontano. Dio invece è contemporaneamente vicino e lontano. In questo breve episodio Gesù obbedisce a questa logica. Certamente non si tratta di una prematura affermazione di divinità, ma può essere l’indicazione di uno stile di Chiesa: in mezzo agli uomini eppure altra.

Presumibilmente la folla di Lc 5,1 è ancora presente in gran misura, talché l’incarico che Gesù affida a Simone e ai suoi koinonoi non è dato nell’intimità di un colloquio, ma sotto gli occhi di diverse persone che possono cogliere come il diventare «pescatori di uomini» sia, a un tempo, un’arte per loro conosciuta e del tutto nuova. 

Pescheranno «uomini vivi» traendoli dall’abisso e rendendoli alla luce e alla vita (Deltombe).

«Effatà»: quando apri la tua porta la vita viene. Commento al Vangelo XXIII Domenica Tempo ordinario Anno B.

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente (…).

Portarono a Gesù un sordomuto. Un uomo prigioniero del silenzio, una vita senza parole e senza musica, ma che non ha fatto naufragio, perché accolta dentro un cerchio di amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù. La guarigione inizia quando qualcuno mette mano all’umanissima arte dell’accompagnamento.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare l’eccedenza e la vicinanza di Dio: lo prese in disparte, lontano dalla folla: «Io e te soli, ora conti solo tu e, per questo tempo, niente è più importante di te». Li immagino occhi negli occhi, e Gesù che prende quel volto fra le sue mani.
Seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Le dita: come lo scultore che modella delicatamente la creta che ha plasmato. Come una carezza. Non ci sono parole, solo la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli della vita.
Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo d’incontro con il Signore, laboratorio del Regno. La salvezza non è estranea ai corpi, passa attraverso di essi, che non sono strade del male ma «scorciatoie divine» (J.P.Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro. Un sospiro non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo, ma il respiro della speranza, calma e umile, il sospiro del prigioniero (Sal 102,21), e Gesù è anche lui prigioniero con quell’uomo.
E gli disse: Effatà, apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici: apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, le braccia all’amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra. Se apri la tua porta, la vita viene.
Una vita guarita è quella che si apre agli altri: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Perché il primo servizio da rendere a Dio e all’uomo è sempre l’ascolto. Se non sai ascoltare, perdi la parola, diventi muto o parli senza toccare il cuore di nessuno. Forse l’afasia della chiesa dipende oggi dal fatto che non sappiamo più ascoltare, Dio e l’uomo. Dettaglio eloquente: sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9). Allora nasceranno pensieri e parole che sanno di cielo.
(Letture: Isaia 35, 4-7; Salmo 145; Giacomo 2,1-5; Marco 7, 31-37)