Reggio Emilia, Festa della Natività della Beata Vergine Maria: l’omelia dell’Arcivescovo Giacomo

REGGIO EMILIA – “La sapienza del cuore è un dono prezioso che ognuno deve richiedere al Signore, così come fece il re Salomone all’inizio del suo regno.” Lo ha affermato questa mattina, venerdì 8 settembre, l’arcivescovo Giacomo nell’omelia della solenne concelebrazione eucaristica per la solennità della Natività di Maria, presieduta nella basilica della Ghiara gremita di fedeli.

Questa dote permette di saper trattare le grandi problematiche esistenziali, dare senso e significato alla vita, alla sofferenza, alla malattia. Mons. Morandi ha richiamato l’importante indicazione del vangelo di San Luca “Maria concervava tutte queste cose in cuor suo meditandole”, sottolineando la rilevanza della riflessione, della memoria, del pensare; il dimenticare porta al disorientamento, allo smarrimento culturale e spirituale. Un popolo senza memoria è perduto, mentre deve conservare l’esperienza, i valori consegnati dai padri.

Nell’omelia l’Arcivescovo ha rilevato come oggi grande sia la capacità di comunicare ma altrettanto scarsa quella di riflettere; si è bombardati di messaggi, immediatamente consultati, anche quando si dovrebbe utilizzare il tempo per la meditazione, il dialogo in famiglia, con gli amici e le persone che si amano. E’ dunque una “comunicazione virtuale” quella che si vuole instaurare con gli altri. Non ci si riserva il tempo per meditare. Al riguardo il presule ha posto in evidenza i pericoli dell’intelligenza artificiale; non si ha bisogno di “tutorial”, ma di qualcuno che possieda la vera sapienza del cuore. E ha citato un pensiero Pascal – di cui ricorre quest’anno il quarto centenario della nascita -: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. D’altra anche la saggezza popolare usa l’espressione: è una persona di cuore. Ecco allora l’invito: alla scuola di Maria pregare perché la città di Reggio e la diocesi reggiano-guastallese siamo capaci di offrire alle persone il dono della sapienza del cuore.

Al termine della celebrazione, l’Arcivescovo ha avuto parole di apprezzamento per la comunità dei Servi di Maria che custodisce il tempio mariano e per il presidente della Fabbriceria del Tempio Gino Farina che ha invitato le unità pastorali a partecipare alla manifestazione degli altari fioriti in Ghiara.

Infine mons. Giacomo Morandi ha avuto parole di stima e riconoscenza, sottolineate dall’applauso, per il cappuccino padre Lorenzo Volpe – suo compagno di studi -, che dopo oltre venti anni trascorsi nel convento di Reggio, sarà dalle prossime settimane “di famiglia” nella fraternità di Castel San Pietro.

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Commento al Vangelo XV Domenica Tempo ordinario – Anno C

A cura di Ermes Ronchi

Avvenire

In quel tempo (…) Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino (…)».
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Uno dei racconti più belli al mondo. Solo poche righe, di sangue, polvere e splendore. Il mondo intero scende da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un’altra strada, io non c’entro. Siamo tutti sulla medesima strada. E ci salveremo insieme, o non ci sarà salvezza. Un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa è un prete, un rappresentante di Dio e del potere, vede l’uomo ferito ma passa oltre. Non passare oltre il sangue di Abele. Oltre non c’è nulla, tantomeno Dio, solo una religione sterile come la polvere.
Invece un samaritano, che era in viaggio, vide, ne ebbe compassione, si fece vicino. Un samaritano, gente ostile e disprezzata, che non frequenta il tempio, si commuove, si fa vicino, si fa prossimo. Tutti termini di una carica infinita, bellissima, che grondano umanità. Non c’è umanità possibile senza compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, senza prossimità, il meno zuccheroso, il più concreto. Il samaritano si avvicina. Non è spontaneo fermarsi, i briganti possono essere ancora nei dintorni. Avvicinarsi non è un istinto, è una conquista; la fraternità non è un dato ma un compito.
I primi tre gesti concreti: vedere, fermarsi, toccare, tracciano i primi tre passi della risposta a “chi è il mio prossimo?”. Vedere e lasciarsi ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in questo fiume di lacrime» (Turoldo), invisibili però a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Fermarsi addosso alla vita che geme e si sta perdendo nella polvere della strada. Io ho fatto molto per questo mondo ogni volta che semplicemente sospendo la mia corsa per dire «eccomi, sono qui». Toccare: il samaritano versa olio e vino, fascia le ferite dell’uomo, lo solleva, lo carica, lo porta. Toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la mano: «Non ho paura e non sono nemico». Toccare l’altro è la massima vicinanza, dirgli: «Sono qui per te»; accettare ciò che lui è, così com’è; toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione per la bontà dell’intera sua persona.
Il racconto di Luca poi si muove rapido, mettendo in fila dieci verbi per descrivere l’amore fattivo: vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò… Questo è il nuovo decalogo, perché l’uomo sia promosso a uomo, perché la terra sia abitata da “prossimi” e non da briganti o nemici. Al centro del messaggio di Gesù una parabola; al centro della parabola un uomo; e quel verbo: Tu amerai. Fa così, e troverai la vita.
(Letture. Deuteronomio 30,10-14; Salmo 18; Colossesi 1,15-20; Luca 10,25-37)

L’arte dell’omelia

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Settimana News

Nell’arte di celebrare rientra a pieno titolo l’omelia che partecipa del valore sacramentale della Parola proclamata, a condizione che sia un segno leggibile e quindi valido veicolo del messaggio per l’oggi della Parola che è contemporanea ad ogni uomo ieri, oggi, sempre.

Suggestioni introduttive

Come ogni arte che si rispetti, anche l’omelia richiede un lungo apprendistato, una continua ricerca, approfondimenti e sensibilità verso la realtà e il mondo in cui si vive. Nessun musicista è arrivato a comporre i suoi capolavori fin dall’inizio: Brahms compose piuttosto tardi le sue quattro sinfonie, frutto anche di un sofferto lavoro, così come Mozart pervenne ai suoi ultimi capolavori sinfonici dopo un rodaggio con tutta una serie di sinfonie.

Le omelie che facevamo da giovani preti erano frutti acerbi che sono poi maturati nei decenni e sempre migliorati e adeguati al momento storico.

L’apprendistato, per quanto laborioso, non porta all’acquisizione di un risultato ormai consolidato e ripetitivo; è necessario un continuo aggiornamento, per essere al passo con l’evoluzione della teologia, dell’esegesi, del magistero (penso a quello fondamentale per la comunicazione offerto da papa Francesco) e con i tempi.

Ex abundantia cordis os loquitur (Mt 12,34): pienezza, in questo caso, che deriva dalla cura della propria fede e interiorità, e si manifesta come ricchezza di contenuti frutto di letture e di meditazione.

Per un continuo esame critico del modo di fare l’omelia, ritengo importante l’apporto di libri che ci aiutano a scoprire tutto ciò che va a discapito dell’annuncio. Particolarmente importanti sono le osservazioni che provengono dai fedeli, il cui feedback va richiesto e tenuto in gran conto.

Proprio dalla parte dei fedeli, ci sono pubblicazioni che ci mettono di fronte a osservazioni acute e puntuali. Giusto per citarne qualcuna, c’è chi per Salvare l’omelia, ha messo a servizio la sua competenza specifica (Adriano Zanacchi) e chi, come Roberto Beretta, con grande senso dello humor, per Difendersi dalle prediche ammonisce: Da che pulpito…

Claudio Dalla Costa ci porta a conoscenza delle sue Riflessioni laicali sulle omelie dopo un sospiroso Avete finito di farci la predica? Parole molto illuminanti ci offre Andrea Grillo alla voce Omelia nel suo bel libro La liturgia in 30 parole. Col suo stile originale don Alessandro Pronzato, molto vicino comunque alla sensibilità dei fedeli, ci ha regalato due chicche: Il Vangelo secondo noi, in cui si mette dalla parte di Un cristiano qualunque che commenta la predica della domenica e La predica prova della fede?

Al di sopra di tutti però, nel 2013, papa Francesco ci ha donato in Evangelii gaudium un capitolo sull’omelia, una sintetica summa da tener sempre presente, fatta di indicazioni semplici ma puntuali.

Ecco come egli apre il discorso: «Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» (135).

Il papa accenna ai reclami e lui stesso ne segnala alcuni.

Reclami

Il primo reclamo è che «l’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione» (138).

In proposito Giuliano Zanchi fa il suo affondo, com’è proprio del suo stile: «Il vertice indiscusso di questo declino comunicativo resta però, nel senso comune, l’omelia domenicale, patita perlopiù come un’afflizione incorporata al precetto, che anche le sceneggiature cinematografiche, non senza malizia, hanno contribuito a stabilizzare mentalmente come riflesso della parola aerea, prolissa, evasiva e insignificante, un tormento verbale che per definizione non deve necessariamente far corrispondere cose ai suoni. Anche qui il vertice della pena viene toccato a rialzo ogni volta che si cerca di rivitalizzare la parola omiletica ricorrendo a tecniche o espedienti energizzanti mutuati da aggiornate abilità comunicative. Le lusinghe dei metodi si intrecciano sempre ai narcisismi in scena. Allora se ne sentono di tutti i colori. Il tono imbonitore del prete che ha assimilato la lingua della televendita. La retorica frizzante della persuasione insegnata nei manuali di management. L’esaltazione carismatica del mega predicatore americano. Tecniche di incitamento da manipolazione delle masse più che di conversione dei cuori. Tentazioni più che tentativi. Tecnica più che sapienza».

L’altro reclamo è la prolissità. «L’omelia è un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo… La parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (n. 138).

L’omelia non deve sforare il suo tempo a scapito del ritmo, dell’insieme armonico e anche del peso da attribuire a ciò che segue. Se si prolunga troppo, rischia di diventare «lunga e piatta come la spada di Carlo Magno» (Voltaire) e di trasformarsi nel «tormento dei fedeli» (Carlo Bo).

D’altronde, non tutto si risolve nell’omelia: presupposta una corretta e udibile proclamazione della Parola, c’è tutta una serie di richiami nella liturgia del giorno che, come tanti incisi, rimandano al tema centrale, che dovrebbe vedersi riflesso anche nei canti scelti. Lo stesso tempo di silenzio ben calibrato che segue l’omelia contribuisce all’assimilazione della Parola.

La preparazione

Molto dipende dalla preparazione, che richiede una cura particolare da iniziare per tempo, in modo da assicurare una forma corretta, lieve, semplice ma non superficiale, e soprattutto contenuta: «Compendia il tuo discorso. Molte cose in poche parole» (Sir 32,8).

L’abitudine, per esempio, di stendere per esteso l’omelia in uno spazio ben definito e in buona forma espositiva, fa sì che i periodi e le frasi siano tenute sotto controllo e ridotti all’essenziale: questo esercizio aiuta a contenere i tempi. Il fatto che ci sia stato un accurato lavoro di approfondimento permette, durante l’esposizione, di sperimentare la verità del detto di Catone Rem tene, verba sequentur, evitando quindi di ridursi a leggere il testo a scapito della spontaneità e reciprocità di sguardi e reazioni tra l’omileta e l’assemblea.

Una preparazione accurata e fatta per tempo può significare tuttavia accumulare tanto materiale, col rischio di mettere troppa carne a cuocere. Papa Francesco dice al riguardo: «Il linguaggio può essere molto semplice, ma la predica può essere poco chiara. Può risultare incomprensibile per il suo disordine, per mancanza di logica, o perché tratta contemporaneamente diversi temi. Pertanto un altro compito necessario è fare in modo che la predicazione abbia unità tematica, un ordine chiaro e connessione tra le frasi, in modo che le persone possano seguire facilmente il predicatore e cogliere la logica di quello che dice» (158).

L’essersi prefisso, comunque, uno spazio e un tempo ben precisi nella stesura dell’omelia significherà esporre, per esempio, due temi con variazioni e incisi che li mettano a fuoco, anche con rimandi alle altre letture e con puntuali attualizzazioni sempre in tema, il tutto corredato di esempi, immagini, paragoni.

Alcune tentazioni

Dopo aver visionato i testi della liturgia del giorno è facile abborracciare qualche idea avvalendosi della pratica e di un’immediata interpretazione dei testi frutto di una vulgata sedimentata, rischiando di rivestire con parole ricercate il vuoto di contenuti, giusto come ironicamente diceva un vescovo: «Ci possono mancare le idee, ma non le parole».

L’approccio ai testi facendosi guidare da una corretta esegesi suggerirà cosa non dire, per essere fedeli al vero messaggio inteso da chi ha scritto e da Chi ha ispirato quei brani. L’approfondimento condotto su sussidi specifici (penso a Servizio della Parola) garantisce la non arbitrarietà e aiuta anche nel compito di attualizzare la Parola.

Karl Barth diceva che al mattino egli meditava tenendo presente da una parte il giornale e dall’altra la Bibbia. Leggere quindi la storia, gli eventi alla luce della Parola, evitando ovviamente i moralismi.

L’omelia è profezia, «tenere cioè lo sguardo fisso su Gesù, cercando di vedere gli uomini e le vicende con l’occhio stesso di Dio, occhio di misericordia e trasparenza», e avendo presente come sfondo la «profezia radicale: la morte non ha l’ultima parola, la parola di Dio può richiamare alla vita i morti» (Enzo Bianchi, Cristiani nella società, pag. 7 e 13).

Esemplari in questo senso erano le omelie di padre Ernesto Balducci, impregnate della spiritualità di risurrezione pur nella denuncia delle storture nella storia e nel presente. «In ogni caso, se indica qualcosa di negativo, cerca sempre di mostrare anche un valore positivo che attragga, per non fermarsi alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Inoltre, una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività» (159).

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Non può quindi assecondare le aspettative e le assuefazioni mediocri di una religiosità e società borghese. Jürgen Moltmann è chiaro al riguardo: «Questa speranza fa della comunità cristiana un elemento di perenne disturbo nelle comunità umane che vogliono diventare una “città stabile”. Essa fa della comunità la fonte di impulsi sempre rinnovati tendenti a realizzare il diritto, la libertà e l’umanità quaggiù, alla luce del futuro che è stato annunciato e che deve venire» (Teologia della speranza, pag. 15).

Bando, comunque, ai moralismi e ai toni minacciosi: «La Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato… Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone; così accade anche nell’omelia» (139).

D’altronde, «l’ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo, si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti» (140). Non per nulla omelia significa conversazione fraterna.

Un’altra tentazione nell’ambito della preparazione è quella di pensare subito a ciò che si deve dire al popolo, sorvolando un serio approfondimento personale.

Ci ricorda il papa che «altra tentazione molto comune è iniziare a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita… Alla presenza di Dio, in una lettura calma del testo, è bene domandare, per esempio: “Signore, che cosa dice a me questo testo? Che cosa vuoi cambiare della mia vita con questo messaggio? Che cosa mi dà fastidio in questo testo? Perché questo non mi interessa?”, oppure: “Che cosa mi piace, che cosa mi stimola in questa Parola? Che cosa mi attrae? Perché mi attrae?”» (153). «È ciò che chiamiamo lectio divina. Consiste nella lettura della Parola di Dio all’interno di un momento di preghiera per permetterle di illuminarci e rinnovarci» (152).

Quindi, «prima di preparare concretamente quello che uno dirà nella predicazione, deve accettare di essere ferito per primo da quella Parola che ferirà gli altri, perché è una Parola viva ed efficace che, come una spada, “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”» (150).

La giusta angolazione

L’esigenza di un serio approfondimento non toglie però la necessità di una giusta angolazione nell’iniziare l’omelia, per evitare che essa fin dall’inizio rimbalzi al di sopra delle teste e dell’attenzione. Iniziare abitualmente col dire ciò che la prima lettura ci dice, come e qualmente, lo stesso poi per la seconda e per il vangelo, non garantisce l’attenzione. Lo stesso dicasi se ci si limita a parafrasare il vangelo. Di fronte alla solita solfa abbinata al tipico tono predicatorio molti cambiano canale, mentre i ragazzi si salvano rifugiandosi nella fantasia o preferendo dare una sbirciata al cellulare, dilettandosi semmai con un videogioco.

L’utilizzo trasversale delle tre letture e del salmo responsoriale, richiamandone i punti salienti nei momenti opportuni e tenendo presente il tema portante della liturgia del giorno che i compilatori hanno inteso suggerire nella scelta dei testi (con risultati a volte discutibili), può garantire la fedeltà alla Parola e l’attenzione dai fedeli.

Importante è l’incipit per captare subito l’attenzione. Conviene entrare subito in media res, collegare quanto più è possibile una domenica all’altra, mostrando così una continuità tematica progressiva, quando c’è; mettere Cristo al centro, evidenziando fin dall’inizio ciò che egli vuole comunicare oggi, in continuità con la domenica precedente, per educarci alla fede, alla coerenza e alla testimonianza nella società.

In questo modo si aiutano i fedeli a percorrere lungo l’anno liturgico un itinerario permanente di iniziazione alla fede e alla preghiera, suggerendone le modalità possibili per la gente, come consigliava K. Rahner e come i riti stessi fanno col loro svolgersi performante.

Una preoccupazione costante deve essere la chiarezza. Le parole bisogna romperle, come si rompe il guscio della noce perché venga fuori il mallo. Se certi termini vanno utilizzati, bisogna subito darne la spiegazione che elimini ogni equivoco, perché certe nostre parole hanno un altro significato nell’uso corrente o una diversa risonanza in chi ascolta. Servizio della Parola a questo scopo ha dedicato per anni una sua rubrica Le nostre parole, divenuta poi un libro disponibile in formato kindle.

Sarà sempre necessario mediare il linguaggio biblico, senza tuttavia fare una lezione di esegesi. Ci si potrà valere della strumentazione storico-critica e teologica, di cui però si spremerà in un certo senso il succo. Una volta assimilata, porgeremo della Parola il nutrimento essenziale, ruminato, masticato, come fanno i pellicani nel porgere il cibo ai piccoli, allo scopo di rendere chiaro il messaggio per tutti. Esemplari sono, al riguardo, i divulgatori che, attraverso i media, sanno rendere in un linguaggio accessibile a tutti contenuti densi di retroterra scientifico. Vera cultura è la capacità di dire cose profonde e impegnative con un linguaggio semplice e comprensibile.

Due tasti delicati

«La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore» (143).

Molto dipende, dunque, da che tipo di sintesi teologica e vitale ha maturato il prete che parla al popolo.

Trasmettere una mentalità da fuga mundi, esigenze e spiritualità da monaci, o un cristianesimo molto devozionale, spesso fragile e suscettibile di derive fideistiche e credulone, significa situarsi fuori dalla realtà e venir meno al compito di presentare invece l’aspetto mistico del cristianesimo (come diceva K. Rahner «il cristiano del futuro o sarà mistico, o non sarà»), cioè una spiritualità emanante dal battesimo, per «noi delle strade» (Delbrêl), e tuttavia resa consapevole, mediante intelligenti inserti mistagogici nell’omelia, di essere condotti dall’azione dello Spirito a fidarci di Cristo e ad affidarci al Padre, inseriti nel circuito trinitario.

Diversamente, di fronte a spiritualità alienanti (“bisogna essere distaccati dagli affetti familiari”, e uno pensa “ma quando mai!”; “distaccati dal denaro”, “e come se magna?”) o al prevalere della lagnanza, del lamento e della critica, uno è portato a «sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi», come quando si dà l’idea che «Dio esiga da noi una decisione troppo grande che non siamo ancora in condizione di prendere». La mamma di don Tonino Lasconi diceva al figlio fresco di ordinazione: «Tu, mi raccomando, la predica falla corta, falla bella e falla allegra» (Strada facendo, pag. 66).

Bisogna quindi incoraggiare la gente e aiutarla a non «perdere la gioia dell’incontro con la Parola». Una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività.

«Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”» (164).

L’altro tasto dolente è il cosiddetto ecclesialese. Papa Francesco lo descrive bene: «Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente» (158).

Al riguardo R. Beretta, nel suo simpatico libro ce ne ha dato un esempio, creando in quello stile una pagina fatta di tante piccole frasi a senso compiuto, inserite in una griglia, in modo che, collegandole a caso fra di loro, ne esca fuori un discorso compiuto che però dice tutto e niente. La stessa cosa fece Mozart nella sua composizione Musikalisches Würfelspiel (gioco dei dadi).

L’odore delle pecore

Per arrivare con la Parola al cuore della gente bisogna condividerne la vita, ascoltare molto e adattarsi al suo linguaggio: «La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cf. 2Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (139).

E allora avviene ciò che magistralmente descrive Giuliano Zanchi: «Quando, contro ogni speranza dei presenti, la profezia del vangelo riesce a risuonare nella sua semplice potenza umanizzatrice, capace di legarsi alle questioni vere di esseri umani reali, in cui la Scrittura manifesta tutta la sua potenza rivelatrice, con la ragionevolezza richiesta dal presente, magari con parole scelte con cura, per tempo, con quella naturalezza letteraria che si impara solo con il tempo, allora le teste si alzano, gli sguardi si orientano, gli occhi cominciano a fissare il parlante e si sente quel silenzio che non è rumore della noia ma la sospensione dell’ascolto. Non vola una mosca. La parola ha toccato i cuori e mosso le intelligenze. Un incontro ravvicinato di questo tipo si dà quando il predicatore suscita la meraviglia di una scrittura portata così prossima al pianerottolo della vita reale da sembrare scritta l’altro ieri proprio per noi» (G. Zanchi, Rimessi in viaggio, p. 73).

Quello che Massimo Recalcati afferma a proposito degli effetti che produce la lettura, secondo l’intuizione lacaniana de lalingua, vale anche per l’omelia che sa intercettare il vissuto profondo delle persone. «Leggere contiene sempre la possibilità misteriosa di sentirsi letti. Perché quel libro mi scuote se non perché in esso trovo le risposte o le domande che attraversano la mia vita? Quando leggo sono soprattutto letto. La lettura è esporsi a un’esperienza che può diventare un incontro. Il lettore si trova, attraverso il libro confrontato alla propria lalingua (Lacan)… Un libro mi legge quando mi risponde, mi chiama, mostra i miei fantasmi, affonda, per qualche ragione obliqua nella mia lalingua sorprendendomi e rivelandomi quello che inconsciamente sapevo già, ma non aveva ancora le parole per dirlo» (I tabù del mondo, pag. 138-139).

Concludo con un arguto pensiero del card. Martini: «Riguardo la predicazione, tutti sanno dare consigli, ma pochissimi sanno farla bene. Molti sanno dire come la predicazione dovrebbe essere… però, una volta ricevuti i consigli, il predicare rimane un’avventura».

Vicino e lontano. Commento al Vangelo di oggi. V domenica del tempo ordinario

Is 6,1-2.3-8; Sal 137 (138); 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

Luca 4,31 presentava Gesù già a Cafarnao, di nuovo di sabato, insegnando e suscitando stupore (v. 32) e operando una serie di guarigioni. La sua preoccupazione resta però l’insegnamento e l’annuncio del Regno (v. 43). Nell’ultimo versetto (v. 44) Luca insiste sul suo passare da una sinagoga all’altra, ma in Giudea.

Dato che in 5,1 lo troviamo presso il lago in Galilea, non possiamo pensare che a una sineddoche: un nome solo – e il più conosciuto – per la complessità del territorio. Quanto al guarire e insegnare di sabato può essere una conferma di autorevolezza e, nello stesso tempo, di legame con la gente, che ha nella sinagoga un luogo non solo per l’insegnamento e la preghiera, ma anche di incontro e di aggregazione.

A un certo punto sembra che la sinagoga non basti più. La gente si affolla sulla riva del lago di Gennesaret «per ascoltare la parola di Dio» (v. 1), non solo l’insegnamento di Gesù, ma tutto quello che esso evoca come promessa di salvezza e di giustizia. 

Gesù trova allora un modo originale per essere contemporaneamente vicino, a portata di voce, e lontano, per non essere travolto. 

Nel complesso il racconto si articola in tre momenti, avendo sempre Gesù al centro: il primo è sulla riva del lago, appunto, dove egli è con la folla; il secondo è sulla barca di Simone con alcuni discepoli; il terzo è di nuovo sulla riva del lago con Simone e alcuni suoi koinonoi (v. 10) – termine che indica qualcosa di più di un semplice socio d’affari, bensì qualcuno con cui si ha comunanza in qualcosa, un compagno di vita e di esperienze –.

L’atteggiamento di Gesù è di costante autorevolezza, anche se per gran parte del racconto tace: siede e insegna (v. 3), ordina a Simone di prendere il largo e gettare le reti (v. 4), lo chiama alla sequela in forma indiretta (v. 10). Egli è sempre vicino e lontano, contemporaneamente presente e assente.

Parallelamente cresce la figura di Simone. All’inizio ci sono semplicemente dei pescatori (alieis, v. 2), e tra questi anche lui che è il proprietario di una delle barche in secca (v. 3). Proprio sulla sua sale Gesù. La barca si allontana dalla riva gradualmente: prima è a portata di voce, poi al largo su ordine di Gesù stesso (eis to bathos, v. 5, «la profondità», «gli abissi») e udiamo la voce di Simone per la prima volta: la sua è una considerazione professionale negativa seguita da una sorta di professione di fede, una via di mezzo tra pescatore e discepolo.

Infine lo vediamo buttato in ginocchio (il verbo prosepesen del v. 8 dice un moto di caduta repentino, quasi violento), pronunciando parole che denunciano la sua condizione di uomo e di peccatore (oti aner amartolos eimi, kurie, v. 8), rivolte a Gesù col titolo pasquale di Kyrios. Non a caso il Quarto Vangelo colloca l’episodio sempre sul lago di Galilea, ma dopo la risurrezione (cf. Gv 21,1ss). 

Simone confessa in tal modo di aver ricevuto una doppia rivelazione: ha capito chi sia Gesù, del quale già aveva colto l’autorevolezza chiamandolo epistates, «maestro» (v. 5), dalla parola particolarmente credibile, e ha capito chi sia lui stesso: un uomo bisognoso di perdono e di misericordia.

Come in analoghi racconti del Primo Testamento, Gesù risponde con la frase tipica di quando Dio affida una missione: «Non temere» (v. 10). Non si allontanerà come Pietro gli ha chiesto, sarà sempre lontano e vicino come Dio con il popolo d’Israele. 

Dice un midraš più volte citato da Wiesel che un idolo è o vicino o lontano. Dio invece è contemporaneamente vicino e lontano. In questo breve episodio Gesù obbedisce a questa logica. Certamente non si tratta di una prematura affermazione di divinità, ma può essere l’indicazione di uno stile di Chiesa: in mezzo agli uomini eppure altra.

Presumibilmente la folla di Lc 5,1 è ancora presente in gran misura, talché l’incarico che Gesù affida a Simone e ai suoi koinonoi non è dato nell’intimità di un colloquio, ma sotto gli occhi di diverse persone che possono cogliere come il diventare «pescatori di uomini» sia, a un tempo, un’arte per loro conosciuta e del tutto nuova. 

Pescheranno «uomini vivi» traendoli dall’abisso e rendendoli alla luce e alla vita (Deltombe).

«Effatà»: quando apri la tua porta la vita viene. Commento al Vangelo XXIII Domenica Tempo ordinario Anno B.

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente (…).

Portarono a Gesù un sordomuto. Un uomo prigioniero del silenzio, una vita senza parole e senza musica, ma che non ha fatto naufragio, perché accolta dentro un cerchio di amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù. La guarigione inizia quando qualcuno mette mano all’umanissima arte dell’accompagnamento.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare l’eccedenza e la vicinanza di Dio: lo prese in disparte, lontano dalla folla: «Io e te soli, ora conti solo tu e, per questo tempo, niente è più importante di te». Li immagino occhi negli occhi, e Gesù che prende quel volto fra le sue mani.
Seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Le dita: come lo scultore che modella delicatamente la creta che ha plasmato. Come una carezza. Non ci sono parole, solo la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli della vita.
Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo d’incontro con il Signore, laboratorio del Regno. La salvezza non è estranea ai corpi, passa attraverso di essi, che non sono strade del male ma «scorciatoie divine» (J.P.Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro. Un sospiro non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo, ma il respiro della speranza, calma e umile, il sospiro del prigioniero (Sal 102,21), e Gesù è anche lui prigioniero con quell’uomo.
E gli disse: Effatà, apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici: apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, le braccia all’amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra. Se apri la tua porta, la vita viene.
Una vita guarita è quella che si apre agli altri: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Perché il primo servizio da rendere a Dio e all’uomo è sempre l’ascolto. Se non sai ascoltare, perdi la parola, diventi muto o parli senza toccare il cuore di nessuno. Forse l’afasia della chiesa dipende oggi dal fatto che non sappiamo più ascoltare, Dio e l’uomo. Dettaglio eloquente: sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9). Allora nasceranno pensieri e parole che sanno di cielo.
(Letture: Isaia 35, 4-7; Salmo 145; Giacomo 2,1-5; Marco 7, 31-37)

Il Vangelo. Così Gesù è pane di vita e forza dʼattrazione XIX Domenica Tempo ordinario – Anno B

 In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». […]

Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei Vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret. Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita. Io sono cielo che discende sulla terra.

Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro. Nella sinagoga si alza la contestazione:

ma quale pane e quale cielo!

Sappiamo tutto di te e della tua famiglia… E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi. Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo. E aggiunge una frase bellissima:

nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato.

Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione. Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio. Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura. Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita. Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola “vita”, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio.

Ma non dice il mio “corpo”, bensì la mia “carne”. Nel Vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne. Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere.

Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone. Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.

(Le letture: Primo Libro dei Re 19,48; Salmo 33; Lettera agli Efesini 4,30-5,2; Giovanni 6,41-51)

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Il Vangelo. A Nazaret il sogno di un mondo nuovo

III Domenica
Tempo ordinario – Anno C

[…] In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me» […]

Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Sembrano più attenti alla persona che legge che non alla parola proclamata. Sono curiosi, lo conoscono bene quel giovane, appena ritornato a casa, nel villaggio dov’era cresciuto nutrito, come pane buono, dalle parole di Isaia che ora proclama: «Parole così antiche e così amate, così pregate e così agognate, così vicine e così lontane. Annuncio di un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità» (R. Virgili). Gesù davanti a quella piccolissima comunità presenta il suo sogno di un mondo nuovo. E sono solo parole di speranza per chi è stanco, o è vittima, o non ce la fa più: sono venuto a incoraggiare, a portare buone notizie, a liberare, a ridare vista. Testo fondamentale e bellissimo, che non racconta più “come” Gesù è nato, ma “perché” è nato. Che ridà forza per lottare, apre il cielo alle vie della speranza. Poveri, ciechi, oppressi, prigionieri: questi sono i nomi dell’uomo. Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. E lo scopo che persegue non è quello di essere finalmente adorato e obbedito da questi figli distratti, meschini e splendidi che noi siamo. Dio non pone come fine della storia se stesso o i propri diritti, ma uomini e donne dal cuore libero e forte. E guariti, e con occhi nuovi che vedono lontano e nel profondo. E che la nostra storia non produca più poveri e prigionieri. Gesù non si interroga se quel prigioniero sia buono o cattivo; a lui non importa se il cieco sia onesto o peccatore, se il lebbroso meriti o no la guarigione. C’è buio e dolore e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio. Solo così la grazia è grazia e non calcolo o merito. Impensabili nel suo Regno frasi come: «È colpevole, deve marcire in galera». Il programma di Nazaret ci mette di fronte a uno dei paradossi del Vangelo. Il catechismo che abbiamo mandato a memoria diceva: «Siamo stati creati per conoscere, amare, servire Dio in questa vita e poi goderlo nell’eternità». Ma nel suo primo annuncio Gesù dice altro: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. C’è una commozione da brividi nel poter pensare: Dio esiste per me, io sono lo scopo della sua esistenza. Il nostro è un Dio che ama per primo, ama in perdita, ama senza contare, di amore unilaterale. La buona notizia di Gesù è un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo, che lo mette al centro, che dimentica se stesso per me, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi totalmente “altra” da quello che è. E ogni uomo sia finalmente promosso a uomo e la vita fiorisca in tutte le sue forme.
(Letture: Neemia 8,2-4.5-6.8-10; Salmo 18; 1 Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21)

Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio. Commento al Vangelo Epifania

Epifania del Signore

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. […]

Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo! Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
(Letture: Isaia 60,1-6; Salmo 71; Efesini 3,2-3.5-6; Matteo 2,1-12)

di Ermes Ronchi – Avvenire

Basilica della B. V. della Ghiara, 8 settembre 2018 Omelia per la Festa della Natività di Maria, inizio del nuovo anno pastorale

Cari fratelli e sorelle,

 

come ogni anno iniziamo qui, sotto lo sguardo di Maria, una nuova pagina della nostra vita. È questa per me e per tutti voi – ne sono certo – un’occasione bellissima, molto attesa, desiderata, che permette di ritrovarci assieme attorno alla nostra Madre. Ella ci invita a essere pieni di fiducia e a camminare con letizia verso il Signore.

La fede, fonte di fiducia e di gioia

Proprio questo è ciò di cui più abbiamo bisogno: la fiducia e la gioia. Tutto, intorno a noi, sembra congiurare contro questi due doni. Il nostro sembra il tempo della paura, talvolta motivata, talvolta creata ad arte ed ingigantita dai mass media; il tempo del disorientamento e dell’assenza di speranza. Anche noi possiamo venire inghiottiti da questa nebbia, da queste ombre, perdendo così il senso e l’orientamento dell’esistenza e infine smarrendo proprio il dono della fede e delle altre virtù teologali. La fede è mundi lumen, luce per camminare nel mondo. Non una luce generica, che può andar bene per ogni momento, ma una luce precisa, specifica, attuale, che ci indica i passi da compiere nelle condizioni in cui ci troviamo a vivere.

Il primo compito del vescovo e delle nostre comunità è perciò: alimentare la fede. La preghiera è la strada principale di questa alimentazione. Essa non è un atto devoto e tantomeno magico con cui cerchiamo di catturare la benevolenza di Dio. Piuttosto consiste in un’immersione nella volontà di Dio e nel suo disegno sul mondo. Quando dico “preghiera” penso certamente alle preghiere semplici del Padre Nostro, dell’Ave Maria e del Gloria, che ripetiamo ogni giorno, forse senza più neppure pensare alle parole che diciamo. Penso, anche e soprattutto, ai Salmi, che sono una fonte fondamentale della nostra fede cristiana. Penso alla liturgia domenicale in cui tutta la comunità cristiana è continuamente alimentata dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e dagli altri sacramenti, in cui troviamo il giudizio di Dio sulla storia del mondo e l’indicazione per i nostri passi.

 

La Santa Messa domenicale

 

Stiamo assistendo, in questi ultimi anni, ad una progressiva erosione della frequenza alla santa messa domenicale. Le nostre celebrazioni liturgiche, che vorrebbero essere più partecipate, sono spesso più deserte. Segno che non bastano canti, accoglienza, abbracci di pace. Occorre aiutare le persone a riscoprire il grande tesoro della santa messa, presenza di Cristo, morto e risorto, nella nostra vita. E soprattutto occorre riannunciare Cristo e la fede, perché senza fede la messa è solo un evento ripetitivo, noioso e incomprensibile, tanto più lontano quanto più lo si vorrebbe attualizzare.

Abbassamento e gloria

Quest’anno mediteremo la seconda parte del Vangelo di Giovanni (cioè i capitoli da 13 a 21), il Libro della Gloria. Esso potrà essere uno strumento formidabile di aiuto proprio nell’affronto delle domande che abbiamo tutti sulle labbra e nel cuore. Che rapporto esiste tra morte e vita? Tra abbassamento e gloria? Tra sconfitta apparente e reale vittoria? Come attraversare il tempo della difficoltà e del buio, vivendo già l’anticipo della luce della resurrezione? Queste e altre questioni che riguardano il nostro presente potranno trovare una risposta, non certo meccanica, attraverso la meditazione di questa parte del Vangelo. Il testo scritturistico letto nella Chiesa dalla comunità cristiana, animata dallo Spirito di Cristo, suscita nella stessa comunità e nei singoli credenti le strade per vivere con creatività e verità la fedeltà a Cristo nel nostro tempo con le sue nuove domande.

Leggere il presente

La Chiesa dunque non ci lascia soli. Dobbiamo chiedere alle nostre comunità, ai nostri sacerdoti, alle nostre guide spirituali, ai tanti fratelli e sorelle che vivono la fede accanto a noi di aiutarci in questo discernimento sul presente. Non stiamo vivendo la fine del mondo, ma piuttosto un tempo in cui la nostra fede cristiana chiede di esprimersi in forme nuove attraverso le nuove circostanze in cui la storia del mondo si va svolgendo.

Talvolta ci sembra soltanto di vedere il sole che tramonta. La fede, la carità e la speranza ci permettono invece di scoprire l’alba che si preannuncia. Quante famiglie ancora vivono il sacramento del loro matrimonio come un incontro gioioso con Cristo, sentendosi così una cellula viva della comunità cristiana! Quante ne incontro durante la visita pastorale, durante le udienze, nelle occasioni a loro dedicate! Quante mettono al mondo ancora dei figli! Sanno di non essere incoscienti, godono della confidenza in Dio. Sono felici dei sorrisi dei loro bambini e della possibilità di rinnovare la vita del mondo attraverso il dono di nuove creature. Quante famiglie adottano dei bambini che sono stati abbandonati! Quante dedicano una parte del loro tempo a situazioni di bisogno e di povertà!

Quotidianamente incontro ragazzi, adolescenti e giovani alla ricerca di un senso della loro vita. Quanti di loro hanno incontrato Cristo e non lo lascerebbero più per nessun motivo! Quanti decidono di dedicare una parte consistente della loro vita al volontariato sociale o internazionale! Le opere di carità, così vive nella nostra Chiesa, testimoniano che la fede è una brace che non si è spenta: dobbiamo alimentarla perché certamente ogni stagione della vita ha bisogno di nuove ragioni e nuove risposte.

La fede cristiana spinge all’impegno e al sacrificio, alla creatività e alla gioia. La nostra è una terra nella quale il lavoro ha un grande posto ed è tenuto in particolare considerazione. Vorrei con i giovani riprendere le strade di un loro possibile impegno non solo verso responsabilità sociali, ma anche nella vita politica, secondo le linee maestre tracciate dalla Dottrina Sociale della Chiesa. È un invito pressante di papa Francesco, di cui il nostro Paese ha più che mai bisogno. I grandi politici cristiani, come Alcide De Gasperi, che hanno contribuito decisivamente alla ricostruzione del nostro paese dopo la seconda guerra mondiale, sono stati aiutati dallo Spirito Santo nella loro azione creativa. Anche oggi abbiamo bisogno dell’aiuto dello Spirito per individuare nuove strade di intervento dei cristiani nella vita politica assieme agli uomini e alle donne che condividono la proposta umanistica del Vangelo.

Nuova presenza sul territorio

Ho voluto sottolineare in questa prima parte della mia omelia un giudizio sul momento che stiamo vivendo, per aiutarvi a guardare con creatività e fede ai nostri giorni. Come Chiesa, in questi anni, ci siamo impegnati verso nuove forme di presenza sul territorio e una nuova modalità di lavoro nella nostra curia.

Cosa c’entra tutto questo lavoro che abbiamo compiuto con la crescita della fede, della speranza e della carità? Cosa c’entra la semplificazione che stiamo operando degli Uffici pastorali attraverso la loro dislocazione unitaria nella nostra curia? Cosa c’entra l’intenso impegno per una dismissione dei beni inutili ed una semplificazione dei nostri bilanci?

Siamo persone isolate dal mondo, che badano solo a se stesse, che si occupano di discorsi interni alla Chiesa, autoreferenziali? Non penso proprio che sia così. Così come la Chiesa vive solamente di Cristo e per Cristo, come la luna che riceve la sua luce dal sole, allo stesso modo essa vive per gli uomini. Soltanto la passione per gli uomini, per la loro vita, per il loro bene può dare ragione delle nostre strutture e delle nostre iniziative. Altrimenti tutto sarebbe come un gioco di carta che può tenerci occupati, ma che infine non avrebbe nessun peso nella storia di Dio con gli uomini.

Se abbiamo pensato alle unità pastorali è perché desideriamo che nella nostra diocesi, ben consapevoli delle lentezze e delle fatiche necessarie, ci siano comunità vive, in cui presbiteri, diaconi, laici e religiosi possano sperimentare delle forme di vita comune, essere il cuore pulsante che raggiunge le periferie esistenziali, come hanno fatto gli apostoli. Essi uscirono da Gerusalemme, certamente anche a causa di una persecuzione, ma con lo scopo di raggiungere le regioni più disparate del mondo.

Facciamo fatica ad allontanarci dal nostro campanile. Quel calore che sperimentiamo nelle nostre comunità ci è dato per essere trasmesso, per riscaldare le vite dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. La Chiesa non si misura dai numeri dei suoi aderenti, anche se nessun numero va disprezzato, ma dall’intensità e dalla profondità con cui le nostre comunità vivono quotidianamente l’incontro con il Signore e il suo mandato missionario.

Anno santo della Ghiara

Quest’anno ci è offerta un’occasione bellissima per il rinnovamento delle nostre vite. Ricorre infatti il quattrocentesimo anniversario della traslazione dell’immagine della nostra Madonna della Ghiara dal muro dove era stata dipinta alla Basilica costruita per accoglierla. La Santa Sede ha risposto positivamente all’invito della nostra Chiesa e dei padri Serviti affinché questo sia un anno giubilare, un anno cioè di rinnovamento, anche attraverso l’indulgenza plenaria. Molte sono le iniziative già in cantiere. Ma il cuore del giubileo è la riscoperta di Maria come strada fondamentale della fede. Guardando a Maria, alla sua vita, dall’Annunciazione all’Assunzione, scopriamo tutto l’itinerario della vita del cristiano. Impariamo ancora una volta ciò che è durevole e necessario, ciò che è transitorio e passeggero. Da Maria, però, non impariamo soltanto la fede. Da lei otteniamo la carità che l’ha portata a viaggiare fino alla cugina Elisabetta, che l’ha portata a custodire il proprio Figlio, che l’ha portata sotto la croce. La carità verso tutti i suoi figli che siamo noi. Il Giubileo della Ghiara ci riporti alla recita del Santo Rosario. Penso che a nessuno sia impossibile recitare almeno una decina al giorno. Sappiamo dalla Madonna che attraverso il Rosario si ottengono un’infinità di grazie.

Con questa fiducia apriamoci al nuovo anno pastorale e affidiamoci alle braccia della Madre. Amen.

(di Mons. Camisasca)

Pasqua di Risurrezione Anno B. Il sepolcro vuoto, annuncio di una vita indistruttibile

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. […]

Una tomba, un giardino, una casa e un andare e venire di donne e di uomini. Maria di Magdala esce di casa quando è ancora notte, buio nel cielo e buio nel cuore. Non ha niente tra le mani, solo il suo amore che si ribella all’assenza di Gesù: «Amare è dire: tu non morirai!» (G. Marcel). È pieno di risonanze del Cantico dei Cantici il Vangelo del mattino di Pasqua: ci sono il giardino, la notte e l’alba, la ricerca dell’amore perduto, c’è la corsa, le lacrime, e il nome pronunciato come soltanto chi ama sa fare.
Maddalena ha un gran coraggio. Quell’uomo amato, che sapeva di cielo, che aveva spalancato per lei orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Tutto finito. Ma perché Maria si reca al sepolcro? «Perché si avvicinò alla tomba, pur essendo una donna, mentre ebbero paura gli uomini? Perché lei gli apparteneva e il suo cuore era presso di lui. Dove era lui, era anche il cuore di lei. Perciò non aveva paura» (Meister Eckhart).
E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, nel fresco dell’alba. E fuori è primavera. Il sepolcro è aperto come il guscio di un seme. E vuoto.
Maria di Magdala corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo. È sempre lei, la donna forte accanto alla croce, stordita in faccia al sepolcro vuoto, sempre nominata per prima negli elenchi delle donne che seguono Gesù, è lei che rimette in moto il racconto della fede.
Sugli apostoli era piombato un macigno. Il dolore a unghiate aveva scavato il cuore. Ma loro hanno comunque fatto una scelta intelligente: stanno insieme, non si separano. Uno da solo può essere travolto, insieme invece si fa argine, insieme si può correre e arrivare più lontano e più in profondità: uscirono allora Simon Pietro e l’altro discepolo e correvano insieme tutti e due…
Insieme arrivano e vedono: manca un corpo alla contabilità della morte, manca un ucciso ai conti della violenza. I loro conti sono in perdita. Quell’assenza richiede che la nostra vista si affini, chiede di vedere in profondità. «Non è qui» dice un angelo alle donne. Che bello questo «non è qui». Lui è, ma non qui; lui è, ma va cercato fuori, altrove; è in giro per le strade, è in mezzo ai viventi; è «colui che vive», è un Dio da sorprendere nella vita. È dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, è dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nella fame di giustizia, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente. E chi vive una vita come la sua ha in dono la sua stessa vita indistruttibile.
(Letture: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3,1-4; Giovanni 20,1-9)

di Ermes Ronchi – Avvenire

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