Verso il Meeting. Lagerkvist, la fede e… l’attualità di Barabba

In cartellone una pièce teatrale tratta dal romanzo col quale lo scrittore giunse al Nobel. Un’ambientazione moderna per dare voce alle domande dei non credenti dei nostri giorni

Barabba in un’incisione ottocentesca

Barabba in un’incisione ottocentesca

da Avvenire

“Midnight Barabba” è prodotto da Meeting Rimini in collaborazione con Avl Tek. Oltre al regista Otello Cenci, coautore del testo con Giampiero Pizzol, hanno contribuito al soggetto Davide Rondoni e Nicola Abbatangelo; scene di Nicola Delli Carri, costumi della Sartoria Shangrillà. Sette gli attori in scena: Raffaello Lombardi, Michele d’Errico, Antonella Carone, Franco Ferrante, Carla Guido, Roberto Petruzzelli e Mimmo Padrone. Lo spettacolo andrà in scena al Teatro Galli il 18 e il 19 agosto alle 20.45 (biglietti su www.vivaticket. it).

Pär Lagerkvist

Pär Lagerkvist

La Leporina non sa niente del Maestro. Non sa perché non l’abbia guarita, lasciandole quel viso sfigurato. E non sa perché proprio a lei abbia chiesto di portare testimonianza. Sa solo che non può fare a meno di seguirlo, fino al martirio, fino a essere presa in braccio, per l’ultima volta, dall’unico uomo che sembra averle mai prestato attenzione. Un malfattore, scampato alla croce e destinato ai lavori forzati. Si chiama Barabba e, se il processo non fosse andato com’è andato, sarebbe toccato a lui morire sul Calvario, non a Gesù di Nazareth. Eppure sul Calvario Barabba ci va lo stesso, per contemplare l’agonia del giusto. Per rendere testimonianza, in un certo senso, anche se – almeno in questo – la Leporina è più consapevole di lui, più pronta a obbedire alla chiamata. La tensione fra i due personaggi è uno degli elementi portanti di Barabba, il capolavoro dello scrittore svedese Pär Lagerkvist, che per questo romanzo (ora riproposto da Jaca Book nella classica versione di Giacomo Oreglia e Carlo Picchio e con una nota di Alesandro Ceni, pagine 158, euro 14) ottenne nel 1951 il premio Nobel per la letteratura. Documento di un’inquietudine spirituale che attraversa per intero l’opera di Lagerkvist, Barabba fu trascritto in forma drammatica dallo stesso autore e diede spunto a un fortunato film hollywoodiano, con Anthony Quinn nel ruolo del protagonista.

Del tutto inedito è invece l’adattamento che debutterà a Rimini come spettacolo inaugurale del quarantesimo Meeting per l’amicizia fra i popoli. La rivisitazione si annuncia originale fin dal titolo, Midnight Barabba, che allude alla cornice della messinscena: un party molto sofisticato, nel corso del quale i vari personaggi, tutti intellettuali influenti nella Stoccolma di metà Novecento, si ritrovano a immedesimarsi nelle figure e nelle situazioni del Barabba di Lagerkvist. «Non è un semplice espediente di teatro nel teatro – spiega il regista Otello Cenci, che è anche autore del copione insieme con Giampiero Pizzol –. Al contrario, il confronto col romanzo porta alla luce l’umanità di ciascuno, altrimenti nascosta dalle consuetudini della mondanità. Le maschere sono quelle che i personaggi indossano nella vita quotidiana. L’incontro con le parole di Lagerkvist diventa l’occasione per mostrare il proprio volto, in tutta la sua fragilità e complessità».

Già in precedenza gli spettacoli del Meeting avevano adottato la formula di una fittizia prova generale. «Sì, abbiamo fatto qualcosa di simile per i cori da La Rocca di Eliot e per le parti del Tommaso Moroattribuibili a William Shakespeare – ricorda Cenci –, ma in quei casi c’erano da colmare le lacune presenti nel testo di cui disponevamo. La scelta operata per Barabba è differente. Una versione drammatica esiste già, d’accordo, ma lo stesso Lagerkvist non ne era del tutto soddisfatto: si tratta di una sorta di sacra rappresentazione il cui stile rischia di accentuare la distanza fra la nostra epoca e quella in cui il romanzo fu scritto. Lagerkvist ha operato in un momento storico in cui anche un ‘ateo cristiano’, quale lui si riteneva, non poteva fare a meno di misurarsi con Cristo. Questa è esattamente la condizione di Barabba nel corso del romanzo: salvato dalla morte di Gesù, continua a essere spiritualmente perseguitato dalla grandezza del suo salvatore. Oggi non è più così, al cristianesimo non si riconosce più cittadinanza nei discorsi della quotidianità. Per questo avevamo bisogno di allestire lo sfondo di un ricevimento in cui tutto è apparenza e in cui, all’improvviso, la realtà fa irruzione sotto forma di domanda radicale».

Anche il poeta Davide Rondoni, che ha contribuito alla stesura del soggetto di Midnight Barabba, insiste sulla necessità di rivalutare l’intuizione fondamentale dello scrittore svedese: «Insieme con pochi altri, tra cui Pier Paolo Pasolini, don Luigi Giussani e Carlo Betocchi, Lagerkvist aveva compreso che in Occidente il cristianesimo non poteva più illudersi di vivere di rendita. Il capitale era stato dilapidato, occorreva ricostruire tornando all’origine essenziale del Vangelo. Di tutto questo il personaggio di Barabba offre una rappresentazione geniale. Non sa da dove gli venga la salvezza perché ignora tutto di se stesso, si muove come uno straniero in una terra nella quale il cristianesimo comincia già germogliare. Per lui l’insegnamento di Gesù è nuovo e misterioso, così come può tornare a esserlo per noi al principio del XXI secolo. Finita la stagione dei trionfalismi, rimane il fascino delle cose vere. Pur nella crisi sua personale e della generazione a cui apparteneva, Lagerkvist disponeva ancora di un linguaggio adeguato a esprimere la profondità di questa ricerca. Un suo verso, in particolare, riassume in modo esemplare l’irrequietezza dei Barabba di ogni epoca: ‘Uno sconosciuto è mio amico’».

Uno sconosciuto, non a caso, gioca un ruolo decisivo anche nella partitura di Midnight Barabba: «Ed è proprio la sua presenza a far emergere la personalità autentica degli altri personaggi – osserva Giampiero Pizzol –. Ognuno degli invitati al party allude a una particolare posizione interiore: c’è lo scettico e il curioso, chi si interroga sull’amore e chi preferisce restare in disparte. Lo stesso Barabba, in fondo, sceglie per sé il ruolo dello spettatore ed è per questo che il pubblico può riconoscersi tanto facilmente in lui. Fa pensare a un san Paolo al contrario, recalcitrante di fronte alla conversione, ma ancora capace di consegnare la propria umanità in un abbandono che assume i tratti dell’esperienza mistica».

MEETING DI RIMINI. L’uomo? È in libertà vigilata

«Emergenza uomo» è il tema del prossimo Meeting di Rimini, che si apre il 18 agosto. Un rimando anche alla cosiddetta «questione antropologica», a quel mutamento radicale della nozione “classica” di natura umana che ha superato da tempo i confini del dibattito specialistico con ricadute più che mai concrete, dalla sfera legislativa e politica a quella del costume e della vita quotidiana. In un evento che nasce nell’ambito di Comunione e Liberazione non poteva mancare un approfondimento del tema dal punto di vista, appunto, della liberazione – o meglio della libertà.

Costantino Esposito, ordinario di storia della filosofia all’Università di Bari, che presiederà una tavola rotonda ad hoc, mette luce un’aporia da cui partire per la riflessione. Ovvero la presenza oggi «da una parte di un’idea di libertàabsoluta, svincolata da ogni rapporto, puro feeling individuale»; la libertà come «pratica di diritti», la cui richiesta si allarga a dismisura. Dall’altra parte, la presenza di una visione riduzionista dell’uomo influenzata dalle scienze, che svaluta o nega tout court la possibilità di un agire veramente libero. «In entrambi i casi – spiega Esposito – la libertà non è intesa come qualcosa di originario, ma di costruito: l’uomo è libero quando gli vengono riconosciuti certi diritti, quindi è il riconoscimento da parte dello Stato che fonda la sua libertà; oppure questa è l’esito di dinamiche puramente naturali». Al fondo di tale apparente contraddizione c’è quindi un elemento comune, «il non intendere la libertà come una irriducibilità originaria. Mentre noi siamo dati a noi stessi e la nostra libertà non è “costruita” da noi o dal potere culturale». Per Esposito la libertà è al contrario «uno dei modi più interessanti, più stringenti in cui l’uomo si può accorgere del mistero», di qualcosa cioè che lo supera e in rapporto al quale «scopre in se stesso una capacità di apertura che non è riconducibile a qualsiasi altro antecedente».

Per Salvatore Natoli, già ordinario di filosofia teoretica all’Università di Milano Bicocca, il problema in questione lo si può vedere in una duplice prospettiva. Una è quella della «libertà negativa» e delle sue innegabili conquiste: «L’uomo nella storia ha dovuto emanciparsi da comandi che reprimevano la sua soggettività e gli impedivano di scegliere quello che la sua intelligenza gli indicava. Ci sono processi storici e situazioni in cui alcuni uomini condizionano l’agire di altri. Ora, c’è un tipo di libertà “impediente” – secondo Hobbes lo Stato moderno nasce da questo – dove c’è un potere che impedisce agli uomini di distruggersi, c’è un’interdizione che costringe coloro che vogliono essere nocivi agli altri a non farlo; ma ci sono anche poteri che non permettono all’uomo di realizzare le proprie potenzialità, oppure lo tengono schiavo per sfruttarlo. La storia della modernità, nella sua dimensione più positiva, la possiamo chiamare storia dell’emancipazione, nel senso che i soggetti hanno allargato sempre di più l’ambito della loro decisione. Uno di questi esiti è la democrazia, nella sua forma più corretta, in cui nessuno ha il diritto di restringere la libertà di un altro, ma si discute insieme per decidere la tutela delle reciproche libertà». Questo è insomma il successo, innegabile, della libertà negativa: si sono rimosse le costruzioni autoritarie «che impedivano agli uomini di vivere liberamente e di confrontarsi su un piano di parità circa le loro scelte». Altra cosa, però, continua Natoli, è porsi sul piano della «libertà positiva», che non è semplicemente libertà dalla costrizione, ma l’essere liberi per fare qualcosa. Per il bene o per il male. «Io non posso essere privato della libertà – continua il filosofo – però nel momento in cui scelgo, posso essere uno che fa un cattivo uso della libertà. Anche qui c’è un paradosso: l’uomo è libero di scegliere, perché può fare anche il male. Ma se fa il male la sua diventa una libertà distruttiva. La ragione per cui un uomo non può compiere certi atti non è quindi perché “non li può fare”, ma è perché praticando il male arriva al punto in cui distrugge la possibilità stessa di decidere. Se si guarda la cosa dal punto di vista dell’intenzione del soggetto, la libertà per il bene diventa, quindi, quasi una necessità, perché non si può andare contro la natura. Come dicevano già gli antichi: se vai contro la tua natura alla fine la paghi. Oggi il vero problema è decidere che cosa è bene e che cosa è natura».

Eugenio Mazzarella, ordinario di filosofia teoretica all’Università degli Studi di Napoli, anche lui una voce della tavola rotonda al Meeting, sposta l’attenzione sul piano sociale: «Nelle nostre società liberal-democratiche siamo abituati a raccontarci un’incondizionatezza della libertà che poi si scopre non essere tale. La libertà si scopre essere una libertà vigilata a causa di strutture politiche, economiche, finanziarie, ossia di dimensioni che ci travalicano. E non siamo nemmeno condizionati in modo eguale: c’è un’asimmetria tra chi si può permettere spazi di libertà in funzione dei propri mezzi e chi invece non può. Una libertà disuguale che satura le relazioni sociali di conflittualità». Mazzarella cita Zygmunt Bauman, secondo cui «nella modernità liquida» la libertà che viene promessa o attesa si rivela spesso un miraggio: senza la sua «forma», «la libertà negativa mostra cioè tutto il suo vuoto». E invita a concentrare l’attenzione sulla crisi antropologica in corso, che è «una sorta di inversione dei tre beni fondamentali che Kant aveva individuato e ordinato: prima il bene dell’anima, poi il bene politico, infine il bene del corpo. La società contemporanea vede invece al primo posto il bene del corpo, che è l’asset principale della libertà oggi. Viviamo nella società delle tre “s”: sesso, soldi, successo. Dovremo ripensare questa gerarchia. Il bene non può ridursi a bene del corpo nell’accezione appena citata. Dev’essere un bene che coinvolge anche gli altri, un bene del “noi”, ma anche un bene capace di porsi in un orizzonte di trascendenza. Perché, rifacendomi a un detto napoletano: si può vivere senza sapere perché, ma è molto complicato…».

Andrea Galli – avvenire.it
Meeting-Rimini-2013
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«Ettore dei poveri» in legno e fili

La voce che senti quando in scena le luci piano piano si accendono è quella di Mike Bongiorno. Con la sua cadenza inconfondibile racconta di un religioso che «pensate, ogni sera con la sua auto passa in Stazione Centrale a Milano e raccoglie chi vive per strada». In controluce, dietro il tulle che fa da sipario, appare la sagoma della Ford azzurrina con sul tetto l’immancabile statua della Madonna. La scena è semplice, teatro di figura, quello che lascia i bambini a bocca aperta: un ponte della Stazione Centrale sopra il quale passa un treno. Sotto, silenziosamente invisibile, avvolta in coperte, immagini l’umanità ai margini di Milano.

«Vittorio, un po’ più piano con la sagoma dei vagoni: lascia il tempo all’auto di fermarsi e caricare l’uomo». È la voce fuori campo del regista che dal mixer luci detta i tempi. Infatti la Ford si ferma e, magia del teatro, la sagoma del senzatetto sparisce. Sparisce dietro una quinta, ma l’illusione è che salga in macchina. Ancora la voce di Mike Bongiorno: «Diamoci da fare per aiutare questo fratel Ettore!». Le luci si abbassano. Parte la musica. «Fuori il ponte. Abdul, pronto con la marionetta di Sabatino. Su il tulle, Viorel!». Dalla sua sedia a rotelle Viorel fa uno sforzo enorme per alzarsi in piedi e far salire il tulle: è reduce da una lunga riabilitazione, ma nella struttura sanitaria che lo ha rimesso in sesto si è portato la sua marionetta e ha continuato a fare esercizi. «Bene. Riproviamo da capo». Romeo corre a bere un bicchiere d’acqua. Perché fa caldo. Pieno pomeriggio d’inizio agosto: nel salone nello scantinato di Casa Betania a Seveso, mentre fuori il termometro implacabile segna 38 gradi, si prova senza sosta Ettore dei poveri. Una ventina di giorni e si va in scena. L’appuntamento è per il 23 e il 24 agosto al Meeting di Rimini. Si lavora tre ore e mezza al giorno: non c’è un minuto da perdere per arrivare pronti al debutto perché in cinquanta minuti si concentrerà il lavoro di due anni.

«L’idea di uno spettacolo di marionette che raccontasse la vita di fratel Ettore mi è venuta per caso: un giorno alcuni volontari mi propongono di fare un salto a Saronno per uno spettacolo della Compagnia marionettistica Carlo Colla e figli. Mi si accende una lampadina». Suor Teresa Martino, che ha raccolto l’eredità di fratel Ettore Boschini quando il religioso è andato in cielo il 20 agosto del 2004, mentre sul palco si cambia scena, spiega di come ha alzato la cornetta e ha chiamato Eugenio Monti Colla per chiedergli una mano. «Male che vada mi avrebbe detto no», sorride oggi. Invece l’ultimo discendente della storica famiglia di marionettisti ha raccolto la sfida con entusiasmo. «È venuto a Casa Betania a tenere un seminario su come si costruiscono e su come si manovrano le marionette. Franco Citterio, storico scenografo della compagnia, ha scolpito nel legno i volti dei personaggi». Ma i Colla hanno fatto di più: «Hanno voluto inserirci nel loro cartellone: saremo in scena all’Atelier di via Montegani il 3 maggio 2013 dove un giorno siamo sbarcati con tutti gli ospiti di Casa Betania per scoprire i loro segreti e farci conquistare dalla poesia e dal candore dei loro spettacoli».

Due anni di lavoro per realizzare le marionette, per dipingere le scene, per costruire il castelletto, come si chiama in termini tecnici il teatrino alto 3 metri e quaranta e con un boccascena di cinque metri. Un intreccio di fili, di quinte, di carrucole. E poi il ponte dal quale i marionettisti manovrano i personaggi. Si chiama Teatro della misericordia. Profuma di legno e di colla. Smontato e caricato su due furgoni farà rotta per Rimini dove i sei marionettisti dell’Opera fratel Ettore saranno ospitati in un oratorio. Prima però, il 18 agosto, prova generale davanti agli ospiti di Casa Betania. «Le marionette sono lo strumento ideale per raccontare fratel Ettore perché sono fatte di cose semplici e povere, legno e fili. Sono qualcosa da costruire con un lavoro paziente», sorride suor Teresa che, prima della conversione e prima di farsi cambiare la vita dal camilliano, ha fatto l’attrice accanto ai grandi della scena italiana, da Paolo Stoppa a Corrado Pani. Povertà e lavoro umile. Che vedi a Casa Betania. Che c’è, folgorante scena che richiama al mandato evangelico del farsi servo, anche sul palco quando il pupazzo di Sabatino, primo collaboratore di fratel Ettore e morto proprio trent’anni fa, lava il piede del suo marionettista Abdul. «Più indietro la gamba, deve essere bene la luce», spiega Emanuele Fant, drammaturgo e regista di Ettore dei poveri.

«Non c’è un copione, ma un canovaccio che per immagini racconta fratel Ettore». C’è il rifugio sotto la Centrale che si affolla di poveri. C’è Casa Betania, distrutta da un incendio, ma poi ricostruita così come un senzatetto l’aveva sognata. «C’è il male contro il quale fratel Ettore ha sempre dovuto combattere», riflette suor Teresa mentre le fiamme di plastica mosse da Vittoria ed Emilio invadono il palcoscenico. E c’è l’abbraccio finale in un’immaginaria danza tra il religioso e la Madonna. I sei marionettisti non doppieranno i personaggi, ma le voci saranno quelle originali, montate in un’incalzante colonna sonora attingendo dalla ricchissima nastroteca di Casa Betania. Ecco perché Mike Bongiorno. Ecco anche frammenti dei tg dei primi anni Ottanta con il cardinal Martini che addita il camilliano come “gigante della carità”. Ed ecco la voce di fratel Ettore. «Aiutateci ad essere poveri di quella povertà che merita la beatitudine del Signore», dice la marionetta. Ma se chiudi gli occhi, per un attimo l’illusione è di poterlo rivedere lì, sorridere e pregare con i suoi poveri di Casa Betania.

Pierachille Dolfini – avvenire.it