Libro “La spiritualità nella cura – Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale”

Paglia: la spiritualità nella cura non è un generico sentimento ma prossimità concreta
Presentato il libro del dottor Carlo Alfredo Clerici e di don Tullio Proserpio, cappellano all’Istituto di Tumori di Milano. Nella prefazione firmata dal Papa, l’urgenza di un’adeguata formazione sul campo, al capezzale di chi soffre, “per muoversi in profonda sinergia con l’intera comunità curante”. Per il presidente dell’Accademia per la Vita si tratta di compere una vera “rivoluzione culturale”

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Spiritualità della cura è amare

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Esiste la possibilità di un’alleanza tra medicina e spiritualità, in una realtà sanitaria sempre più tecnologica e standardizzata su grandi numeri ed efficienza delle prestazioni? È l’interrogativo centrale su cui si è incentrata nel pomeriggio di ieri, 21 ottobre, la presentazione del libro “La spiritualità nella cura – Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale”, di Carlo Alfredo Clerici, associato di Psicologia clinica dell’Università degli Studi di Milano e Tullio Proserpio, cappellano presso l’Istituto dei Tumori di Milano. A firmarne la prefazione, Papa Francesco.

Il Papa: l’aspetto spirituale della cura è stato trascurato
Francesco elogia la scelta del tema scelto per questo libro, la spiritualità nel momento della malattia, considerandolo “particolarmente delicato e importante”. Sottolinea anche come l’aiuto spirituale – riconosciuto da parte della comunità scientifica importante per il bene di pazienti, familiari, personale – “forse in questi ultimi anni è stato un po’ trascurato”. Il pontefice inoltre rimarca, come evidenziato nel volume, che “occorre un’adeguata preparazione e formazione sul campo, cioè concretamente vicino al letto delle persone ammalate, per essere in grado di muoversi in profonda sinergia con l’intera comunità curante”.

Guardare la condizione umana dalla ‘periferia’ della vita è un’opportunità
Nelle sue parole introduttive al testo, il Papa torna poi a ribadire che la pandemia ha mostrato di dover necessariamente porsi in una prospettiva non settoriale per valutare e rispondere ai profondi bisogni dell’uomo. Non bisogna lasciarsi trascinare, ripete Francesco, da sole logiche economiche. Bisogna assumere “lo sguardo dalla periferia della condizione umana, segnata dalla precarietà dell’esistenza”: è quello che infatti “favorisce la costruzione di quei ponti necessari – dice – a non dimenticare l’umano che ci caratterizza e a individuare sempre nuovi, spesso imprevisti percorsi”. L’auspicio è che si generi una sempre maggiore efficacia nel dialogo tra l’ambito teologico-pastorale e quello clinico-psicologico.

Paglia: prendersi cura vuol dire amare
Aprendo gli interventi di presentazione del libro, monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha scandito che prendersi cura vuol dire amare. “L’altro ha diritto ad essere amato. Esiste in ogni religione l’indispensabilità di prendersi cura dell’altro. Spiritualità vuol dire non vivere solo per sé stessi”, ha affermato.

Vatican News

Il premio. Nobel per la Medicina ai genetisti che hanno svelato i misteri del bioritmo

Perché lavoriamo meglio al mattino mentre facciamo più fatica a concentrarci nel pomeriggio, quando invece le nostre capacità fisiche raggiungono le loro massime prestazioni? Perché dormiamo di notte e siamo svegli durante il giorno? In mattinata il livello di cortisolo, un ormone che stimola l’organismo, raggiunge il suo massimo: le nostre prestazioni intellettuali e la memoria raggiungono l’apice della loro funzioni. Il pomeriggio è il momento della giornata in cui la temperatura corporea aumenta naturalmente, aiutando cuore e polmoni a sviluppare la loro massima efficienza. Per questo il corpo riesce a fornire le massime prestazioni durante l’attività fisica. Di notte poi la melatonina, l’ormone del sonno, viene abbondantemente prodotta per favorire l’addormentamento, mentre il suo rilascio viene bloccato nelle prime ore del mattino, in modo da permettere il risveglio fisiologico.

Tutto questo non è casuale. Dipende dai meccanismi molecolari che regolano i nostri ritmi circadiani, a loro volta controllati con precisione “svizzera” dal nostro orologio biologico interno, che regola i ritmi del sonno, il comportamento alimentare, il metabolismo, la temperatura corporea, la pressione sanguigna e i battiti del cuore. La scoperta delle basi biologiche di questa perfetta organizzazione periodica, essenziale per il buon funzionamento degli esseri viventi e fondamentale per la salute dell’uomo, è la motivazione con la quale il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina è stato quest’anno assegnato a tre genetisti statunitensi: Jeffrey C. Hall, 72 anni, e Michael Rosbash, 71 anni, che attualmente insegnano alla Brandeis University nel Maine, Michael Y. Young, 68 anni, della Rockefeller University di New York.

avvenire

Isolato nell’intestino un batterio che ‘cura’ la sclerosi multipla Verso nuova era della medicina con i ‘farma-microbi’

Scoperto un tipo di batterio della flora intestinale che potrebbe essere usato come terapia contro la sclerosi multipla, avviando la medicina verso una nuova era di “farma-microbi”, ovvero microrganismi usati come farmaci per curare malattie tra le più disparate, dall’autismo al Parkinson.
È il risultato di una ricerca condotta tra Università dell’Iowa e Mayo Clinic e pubblicata sulla rivista Cell Reports.
Si tratta di una ricerca potenzialmente importante, perché sempre di più aumentano le evidenze sperimentali che dimostrano come i batteri che compongono la flora intestinale siano cruciali non solo per la salute del tratto digerente ma anche di tutto il resto dell’organismo: “Stiamo entrando in una nuova era della medicina – afferma l’autore del lavoro Joseph Murray – in cui useremo i microbi come farmaci per curare malattie (Murray ha coniato il farmaco ‘brug’ dall’unione di ‘bug’, microbo, e drug, farmaco).
Il batterio protagonista di questo studio si chiama Prevotella histicola, gli esperti lo hanno isolato da campioni di flora intestinale prelevati dall’intestino di soggetti sani e lo hanno iniettato in modelli animali di sclerosi multipla.
Grazie a questa ‘terapia’, il quadro neurologico dei topolini malati è migliorato e allo stesso tempo è diminuita nel loro organismo la concentrazione di due proteine che causano infiammazione ed aumenta la concentrazione di cellule che contrastano la malattia, cellule immunitarie come i linfociti T, ‘cellule dendritiche’ e un tipo di ‘macrofago’. Gli esperti ritengono che questi risultati siano il punto di partenza per testare il batterio su pazienti con sclerosi multipla, una malattia autoimmune in cui il sistema immunitario del paziente va in tilt e distrugge la guaina isolante dei nervi, la mielina, determinando danni neurologici progressivi.
Studi recenti hanno evidenziato che pazienti con sclerosi multipla presentano alterazioni della flora intestinale e, guarda caso, sono carenti o privi del batterio Prevotella histicola.

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Medicina, troppe parole e dimenticanze. Il codice di deontologia medica: non cediamo al disamore

salute

Il Codice di deontologia medica è sul punto di cambiare: la nuova versione ha aspetti positivi e punti nevralgici da migliorare, ma c’è una domanda che lo mette sotto giudizio: perché per secoli è bastato un codice ippocratico di dieci righe e ora serve un documento di 80 articoli? Già: l’attuale Codice è un lungo insieme di mansioni, impegni e clausole con tante pagine e articoli a ribadire quello che già la legge o il buon senso prescrivono: infatti c’è davvero bisogno di sancire che «il medico fonda l’esercizio delle proprie competenze tecnico­professionali sui principi di efficacia e appropriatezza», o che «persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private», come se questo non fosse un presupposto intrinseco e ovvio? Ma tanti dettagli normativi servono a far fronte a una perdita di unità, cioè di un’etica che si condensava in poche parole riconosciute e accettate da tutti: onorabilità, rispetto della vita, discrezione, sapienza. Scompare anche la parola «coscienza» (articolo 22) quando si parla di far valere le proprie convinzioni, lasciando solo il riferimento ai «propri convincimenti etici», come se la coscienza non ne fosse una necessaria integrazione. Ora per portare il flusso dell’attività medica negli stessi argini occorrono lunghi discorsi, e si cerca di far fronte con tante regole a un unico disamore. Già, il disamore: la deontologia medica dovrebbe risolvere, in primis, il paradosso di una professione che si è burocratizzata, ma che al tempo stesso tratta intimamente e drammaticamente con la vita e la sofferenza: cosa disorientante e ambivalente per i medici e i malati. E che provoca, appunto, disamore. Urge formare e supportare un medico che unisca – non per contratto, ma per passione – il saper curare col saper comunicare (anzitutto saper comunicare se stessi per dare fiducia). Ma c’è traccia di questo nel nuovo Codice deontologico medico? Si prova a invogliare alla comunicazione col paziente, ma il Codice sembra annoverarla minuziosamente nell’orario di lavoro (articolo 20) lasciandola in un quadro di freddezza e distacco. D’altronde questo è quasi ovvio in un Occidente dove gli ospedali diventano aziende, i pazienti si trasformano in «utenza», i medici sono «fornitori di servizio» o «dirigenti»’. Ma è di questo che c’è bisogno? Di medici-capitreno (con tutto il rispetto per i capitreno) che ti portino laddove per contratto stabiliscono di portarti? Qualche volta si pensa che già questo sarebbe tanto, ma equivarrebbe ad abbassare il tiro. Dalla deontologia medica ci aspetteremmo una riaffermazione di poche cose, ma chiare: che curare vuol dire ‘avere a cuore’, che guarire significa ‘fare schermo al debole’, che la salute non è un utopico completo benessere psicofisico, ma sentirsi a proprio agio anche nel caso la malattia non sia guaribile e la disabilità non si risolva. Oggi davvero pochi sono quelli che insegnano tutto questo. Troppo facile, come fanno molti, è identificare il medico con ‘colui che fa passare il male’, e se non ce la fa ha fallito o delega ad altri il cammino accanto al paziente che i medici di un tempo si ostinavano con coerenza e vigore a chiamare ‘cura’. L’antico giuramento di Ippocrate riassumeva l’arte medica in queste parole: «Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte», con la promessa di rispettare vita e salute, di non rivelare segreti dei pazienti e di regolare «il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio». Queste poche parole sono bastate per secoli. I tempi cambiano, e le parti ‘non politicamente corrette’ del giuramento sono sparite, si sono moltiplicati i precetti e gli articoli. Come avviene quando si perde la semplicità di un’arte, e si resta obbligati a sostituire smarriti la passione con le regole.

Carlo Bellieni – avvenire.it

Medicina: Test Dna? Inefficace per prevedere malattie

Nonostante i progressi degli ultimi anni è molto difficile che si arrivi in tempi brevi a diagnosi fatte interamente sulla base del solo Dna del paziente. Lo afferma uno studio pubblicato su Science Translational Medicine, secondo cui l’analisi del genoma nella maggior parte dei casi non è in grado di prevedere l’insorgere di una malattia.

Lo studio coordinato dalla Johns Hopkins University di Baltimora si è basato sull’analisi di quasi 54 mila gemelli identici degli Usa e di diversi paesi del nord Europa, le cui cartelle cliniche contenevano dati sulla presenza di 24 diverse malattie: “I gemelli identici hanno lo stesso Dna – spiegano gli autori – quindi dal loro studio si può verificare quanto la presenza di una variante può predire una malattia”.

Dal modello matematico sviluppato per lo studio è emerso che la capacità di previsione del Dna è scarsa, e che i soggetti avevano un rischio nella media per la maggior parte della malattie: “C’è anche qualche risultato positivo – aggiungono gli autori – il 90% dei soggetti può scoprire che è ad alto rischio per almeno una malattia, e il sequenziamento del Dna può, almeno in teoria, identificare fino al 75% di coloro che svilupperanno l’Alzheimer, una malattia della tiroide, il diabete di tipo 1 e, per gli uomini, le malattie cardiache”.

Secondo gli esperti gli studi sul genoma più che fornire diagnosi personalizzate, rese difficili dal contributo
ambientale, servono a capire come funzionano le malattie, e a sviluppare terapie adeguate. Un aiuto in questo senso può venire dalla decisione del National Institutes of Health statunitense di mettere a disposizione di tutti su Amazon i dati del progetto ‘1000 genomes’, che contengono le informazioni di
quasi 1700 pazienti.

avvenire