Un’insistita sottolineatura degli aspetti faticosi della vita matrimoniale sembra dominare troppi discorsi ecclesiali, mettendo in ombra ciò che è buono, bello e gioioso del matrimonio

di SERGIO DI BENEDETTO e GILBERTO BORGHI – vinonuovo.it

Dopo aver letto con attenzione gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale e aver avanzato alcune considerazioni sugli elementi positivi e alcune note sui nodi che ci sono parsi problematici, vogliamo condividere un post scriptum finale, una preoccupazione che nasce dal tono generale del documento, insieme a un’aria che si respira ultimamente attorno al matrimonio in alcuni ambiti ecclesiali, ossia quella per cui il matrimonio sarebbe quasi solo fatica, sforzo, sacrificio, rinuncia, crisi, problema: sono termini e questioni che sembrano dominare il discorso sulla vita matrimoniale.

La domanda che nasce spontanea in noi è molto semplice: ma crediamo davvero che il matrimonio sia bello? Che la vita matrimoniale risponda a un desiderio bello e buono di Dio sull’uomo e la donna? Siamo convinti che il matrimonio è anche gioia, letizia, serenità, compimento?

L’impressione è che troppo spesso in ambito ecclesiale tendono a prevalere i toni più drammatici e cupi quando si parla di matrimonio. Indubbiamente, non siamo ingenui né disincarnati: sappiamo che oggi la vita di coppia in senso lato e la vita matrimoniale in modo specifico conoscono un momento di crisi, che la statistica stessa si incarica di ricordare (solo nel 2020 – anno peraltro di pandemia – ci sono state quasi 180.000 rotture, tra separazioni e divorzi). E siamo anche ben coscienti che il contesto sociale e culturale in cui viviamo spinge per ‘relazioni liquide’ (Bauman), con forte insistenza su emotività, identità, individualismo, piena e immediata soddisfazione dei propri desideri: fattori che mal si conciliano con ogni relazione umana, matrimonio incluso.
Dunque, è innegabile che ci siano componenti di fatica nella scelta e nella ‘pratica’ della vita di coppia, ed è bene dare rappresentazioni realistiche del matrimonio, soprattutto in un documento pensato per i fidanzati.
Ma, al tempo stesso, non possiamo nascondere che paiono prevalere le parole di fatica e di dubbio, di pena e di rinuncia del sé. Anche in questo caso Amoris Laetitia era capace di parole di consolazione, speranza, fiducia (fin dal titolo: la gioia dell’amore). E che nella pastorale ci fosse la tentazione a insistere più sulla sforzo che sulla bellezza del matrimonio lo dichiarava lo stesso Papa Francesco: «Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita» (AL, 37).

Quello che si fatica a comprendere è che per uscire dalla dittatura liquida ed emotiva in cui viviamo, non serve più a nulla un richiamo forte alla volontà razionale, affinché si imponga su queste inclinazioni deleterie e ci permetta di vivere il bene, perché questa strada oggi non è più percorribile. E Francesco lo sa bene, quando, ad esempio, per stare alla sfera della sessualità, in AL mostra come la deriva dell’eros da ‘consumare’ non si ferma innalzando barriere etiche e limitandosi a mettere in guardia dai pericoli della sessualità, bensì riconoscendo in una ritrovata unità interiore tra gioia e piacere la condizione che oggi permette di non consegnare l’eros alla mentalità consumistica della post-modernità, e di viverlo perciò in pienezza. «È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere […]. I gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose» (AL 129 e 133). Per il papa un vero amore «non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale» (AL 157) perché da buon figlio di sant’Ignazio di Loyola sa che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose» (Esercizi spirituali, annotazione 2)

Una narrazione della vita matrimoniale che non tenga conto del bene e della gioia che in essa si trova, soprattutto da chi poi ha scelto altri stati di vita, è contraddittoria con quanto la sapienza cristiana e la vita umana hanno sperimentato nel corso del tempo, e cioè che anche una vita che si fondi sull’amore di coppia può essere pienamente umana, pienamente cristiana e bella, feconda, capace di pace, di crescita e di benevolenza. È una vita che merita di essere vissuta. Altrimenti, solo sostando sulla ‘crisi’ e sul ‘problema’ (in un atteggiamento preventivo che poi risulta anche un poco artificiale e moralistico), faremo un discorso parziale: «Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore» (AL, 89).
Insomma, è vero che sempre meno persone scelgono il matrimonio cristiano; è vero che esistono delle difficoltà. Ma se non abbiamo il coraggio di raccontare in modo bello il matrimonio (evitando al tempo stesso le semplificazioni e le ‘fantasie emotive’), di testimoniare la sua ricchezza, la sua fecondità, negheremo quello che dovrebbe essere, invece, un pilastro della sensibilità e della coscienza cristiana: «Il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità» (AL, 201).

A meno che, e questo è un dubbio che non vorremmo avere, non si pensi sottotraccia che una vita evangelica, nelle sue diverse forme, non sia pienamente umana…

Anche su questo, in fondo, bisognerebbe riflettere. Non dobbiamo però dimenticare che pure il tono, il modo, lo stile e l’insistenza solo su certi argomenti tende a consolidare e veicolare una visione della vita.

Amore e coscienza

di: Leonardo Catalano
Settimana News


La coscienza occupa un posto centrale nella riflessione morale moderna.1 È tra i riferimenti più richiamati per interpretare i cambiamenti culturali e storici del nostro tempo. Il Concilio Vaticano II dedica un testo che invita il credente a coltivarla come luogo di ascolto, di giudizio, di scelta e di incontro con la voce dello Spirito.2

«L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale».3

La coscienza è un ponte attraverso il quale credente e non credenti possono ascoltarsi e comprendersi. È in questa grammatica comune che insieme si cerca la verità e nella verità risolvere i problemi morali che sorgono nella vita dei singoli e nella collettività.

La categoria della coscienza viene citata 20 volte nell’Amoris laetitia.4 Eppure la cultura contemporanea sembra aver svuotato il significato antropologico di coscienza e il senso di obbligazione verso gli imperativi della coscienza stessa, in particolare verso tutte quelle “voci” che richiamano a scelte più impegnative e onerose in senso morale come la voce divina che risuona nel segreto, l’ascolto intimo, il giudizio, un Tu con cui dialogare, l’obbedienza sincera al comando interiore “fa’ questo, evita quest’altro”, la responsabilità verso l’altro.

Il Magistero della Chiesa ribadisce il significato di coscienza morale per integrare la verità e la libertà, la legge e la responsabilità, l’autorità e l’obbedienza. È la coscienza morale, infatti, a porre all’uomo alcune domande radicali e ineludibili: come devo comportarmi? In che modo distinguere le voci di bene e di male radicate nel cuore? Chi sono chiamato ad essere? Come amare autenticamente?

La coscienza nel Magistero
Il cardinale John Newman definì la coscienza come «una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità e dovere, timore e speranza. […] Essa è la messaggera di colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».5

Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica alcuni paragrafi alla coscienza e premette: «Quando ascolta la coscienza morale, l’uomo prudente può sentire Dio che parla».6 Per la Chiesa la coscienza morale «è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto».7 Occorrono però due condizioni.

La prima è quella di essere presenti a se stessi, ritornando alla coscienza per interrogarla. Poi è essere prudenti cioè capaci di cercare il punto di equilibrio tra princìpi immutabili e le situazioni concrete della vita: «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza».8 È la coscienza morale che permette di scoprire che cosa è giusto e buono fare nelle circostanze concrete della vita seguendo il principio del bene da fare e il male da evitare.

La coscienza del credente diventa la bussola per comprendere l’amore radicale vissuta da Cristo e la qualità dell’amore che si vive. L’esperienza della fede illumina la coscienza secondo la Lumen fidei: «È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede […] capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. […] La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore […]. Trasformati da questo amore, riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede […] appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo».9

La coscienza va dunque educata ed è questo «il compito di tutta la vita».10 Gli effetti di una educazione prudente includono la guarigione dalle paure interiori, dall’egoismo, dall’orgoglio, dai risentimenti, dai moti di compiacimento. Questa educazione garantisce la libertà del cuore e la pace interiore. Dialogare nella coscienza è lo sforzo di interpretare i dati dell’esperienza, i segni dei tempi che cambiano, i consigli delle persone rette e l’aiuto dello Spirito.

La connessione tra amore e coscienza
Proprio a questo livello, il dialogo nella coscienza, appare evidente la connessione tra amore e coscienza. L’amore è una forza di comunione e di gratificazione che, mentre accoglie il dono, spinge all’impegno di donarsi.

Questa visione, che la fede offre dell’amore determina il rapporto inscindibile tra amore e coscienza nell’atto di decidere e del decidersi del credente. Papa Francesco precisa: «può la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? […] Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà».11

Questo dato sulla coscienza credente, toccata dall’Amore e in cerca dell’amore, spiega perché alcune norme valgono sempre davanti alla propria coscienza. Non è mai permesso di fare il male perché ne derivi un bene. Va sempre rispettata le regola d’oro evangelica: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza, anche se questo non significa accettare come un bene ciò che è oggettivamente un male.

Il cammino della vita è un decidersi davanti ai “casi di coscienza”, quando ci si trova divisi tra l’obbedienza a una legge civile e la voce della propria coscienza. Per decidere moralmente cosa fare è necessario raccogliere più informazioni possibili, richiamarsi ai princìpi che guidano la propria esistenza e interrogarsi sulle conseguenze della propria scelta. Richiamarsi ai princìpi etici richiede il dialogo con un “Tu” perché ci sia un’adesione personale a Cristo che è entrato nella storia. Afferma san Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor che esiste un rapporto inscindibile tra coscienza e verità, una «teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell’uomo alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio».12

Il dialogo interiore
Nella coscienza l’uomo deve esercitare la sua libertà e la sua responsabilità. La coscienza non si può ridurre a un “grillo parlante” o a un censore interiore o una voce sottilmente nemica che prescrive divieti. Quando papa Francesco richiama la responsabilità dei coniugi ad essere storia di salvezza precisa che la Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle».13

Quando il funzionamento della coscienza cristiana è concepito come un tribunale civile, in cui il soggetto è inteso come il reo davanti all’accusa di trasgressione, lo sforzo di autogiustificazione è teso a sottrarsi per quanto è possibile alla pena. Questo è il senso del testo magisteriale: «Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette “irregolari”, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo.

La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”.

Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù, in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù”».14

Così concepita, la voce divina, il richiamo multiforme alla verità, non può che assumere il ruolo del pubblico ministero. Essa non può per definizione essere dalla parte dell’imputato. L’effetto di questa impostazione è quello di assegnare alla “voce” un ruolo accusatorio, facendole assumere interiormente quell’atteggiamento costantemente accusatorio nocivo nelle relazioni educative, proprio perché genera scoraggiamento e irritazione, che allontanano dai richiami che si ascoltano.

«La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia. Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità. Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori. Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira.

Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività. Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: “Padri, non esasperate i vostri figli” (Ef 6,4; cfr Col 3,21)».15

Per san Tommaso l’obiettivo principale non è quello di mettere la persona di fronte alle proprie responsabilità morali, ma quello di accompagnarla in primo luogo nella comprensione dell’esperienza del dialogo interiore, da qui, alla scoperta della presenza benefica della “voce divina”, per divenirne convinta ascoltatrice. «Piuttosto che un pubblico ministero, quello che si incontra interiormente è un partner affidabile, vicino alla persona anche nell’accusa del male che la segna o di cui si è resa protagonista. […] la coscienza va anzitutto compresa come un luogo spirituale, in cui l’esperienza morale può essere ripresa e reimpostata, conducendo a una sempre più affinata capacità di ascolto interiore e di riconoscimento del gusto tipico, quasi del timbro interiore della “voce divina”».16

Il discernimento delle “voci” della coscienza è anzitutto orientato all’incontro con Dio e poi, anche, come frutto di maturazione progressiva di questo incontro, all’agire secondo il bene.

«Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: “L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”. In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali.

Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta. Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: “In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi”».17

In ascolto del vissuto ferito
L’Esortazione apostolica di papa Francesco presenta l’attività della coscienza che si mette in moto non tanto in presenza di infrazioni della legge contestate da altri quanto dinanzi alle fratture della vita. È dal dolore e dai fallimenti di scelte fatte o di esperienze vissute che sorge l’esigenza di chiarire a se stessi come abbia potuto farsi strada il male che ferisce e sfigura. L’ambiente della coscienza inizia dunque a dilatarsi lì dove sorge un’esigenza di comprensione di sé, per capire ciò che si muove dentro, e in particolare di ciò che ha condotto a un agire corrosivo del bene.

È necessario il primato dell’ascolto sia per dare nome alle ferite inferte e autoinferte, sia per comprendere quella nostalgia profonda di conversione, di una vita compiuta e creativa. Si inizia a dare ascolto alla pena più che mettendosi alla ricerca della colpa, che non viene elusa ma capìta a partire dall’esperienza e da una rilettura accompagnata, la quale consente di dare nome tanto al male quanto al bene.

Si tratta del metodo induttivo a cui papa Francesco riconosce maggiore efficacia in campo educativo, proprio perché sostenuto dalla forza della scoperta, della presa di coscienza. «Il compito dei genitori comprende una educazione della volontà e uno sviluppo di buone abitudini e di inclinazioni affettive a favore del bene. Questo implica che si presentino come desiderabili comportamenti da imparare e inclinazioni da far maturare. Ma si tratta sempre di un processo che va dall’imperfezione alla maggiore pienezza.

Il desiderio di adattarsi alla società o l’abitudine di rinunciare a una soddisfazione immediata per adattarsi a una norma e assicurarsi una buona convivenza, è già in se stesso un valore iniziale che crea disposizioni per elevarsi poi verso valori più alti. La formazione morale dovrebbe realizzarsi sempre con metodi attivi e con un dialogo educativo che coinvolga la sensibilità e il linguaggio proprio dei figli. Inoltre, questa formazione si deve attuare in modo induttivo, in modo che il figlio possa arrivare a scoprire da sé l’importanza di determinati valori, principi e norme, invece di imporgliele come verità indiscutibili».18

Le proprie decisioni fallimentari costituiscono l’ambito di riflessione più promettente per chi volesse andare in profondità. In molte situazioni della vita in cui si è protagonisti di scelte non buone, «c’è l’avvertenza della ferita, ma non della contraddizione. […] Sono le situazioni in cui, pur nella problematicità dell’accaduto, la volontà della persona è rimasta integra»19, perché le cose sono andate male, ma quell’esito non era propriamente voluto. Non basta cioè una ferita per mettere in discussione, ci vuole la percezione della contraddizione.

Per questo vanno considerati «i vissuti interessanti per l’introspezione, […] le scelte ed i gesti che esprimono il protagonismo della persona nella decisione e che segnalano una qualche frattura nel piano stesso del volere, non tra il volere e il realizzare. L’analisi introspettiva dovrebbe allora partire preferenzialmente dall’ascolto di quei vissuti in cui le cose sono andate esattamente come la persona voleva che andassero, secondo la propria decisione, e che tuttavia restituiscono in vario modo una percezione di disagio, di insoddisfazione».20

La coscienza si attiva a partire dall’esperienza vissuta, iniziando a dilatarsi sul fronte dell’ascolto di quel che sta attorno ad un fatto dandogli la profondità del vissuto. Il dialogo si coltiva anzitutto in una più acuta e differenziale capacità di ascolto.

Si può dire che il tempo qualitativo di cui necessitano le relazioni e che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, lo si apprende e coltiva anzitutto imparando a sostare dinanzi alle proprie stonature.

Occorre «Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato.

Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”».21

È l’ascolto che implica una capacità di lettura del sentito, un affinamento progressivo nel decifrare il messaggio delle percezioni della gioia, della tristezza, dell’attrazione e della paura, il tutto senza moralismi, senza togliere la cittadinanza interiore ad alcuna delle passioni.

Infatti «provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo.

Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice».22

Piuttosto occorre discernere in che modo i sentimenti si intreccino con i pensieri, «bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia.

Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno».23

È partendo dall’ascolto più attento del fatto che può farsi strada l’attesa di un fare altrimenti, attesa di un cambiamento possibile e non utopistico. Sia i Padri sia san Tommaso invitano a vigilare sui pensieri fin dal loro sorgere.24

Coscienza e discernimento
La coscienza è il luogo in cui ciascuno si misura con la tensione al cambiamento. La lotta interiore può assumere configurazioni diverse. «È la tensione tra una novità suggestiva ma ambigua (tentazione) e una abitudine buona (virtù) che, tra l’altro, mette in guardia dal cambiare rotta; ma è anche tensione tra una provocazione in se stessa buona (legge), che incontra una resistenza nella persona e porta così maggiormente alla luce una cattiva abitudine (vizio)».25

Non ci si può affidare ciecamente all’idea che tutto il male venga dall’esterno e che quindi sia bene fare solo quello che “si sente”. Viceversa, è sensato ritenere che in qualcuno il male prevalga anche perché non c’è una memoria di bene, una virtù, pronta a farsi avanti, a prendere parola interiore.

San Tommaso concepisce la coscienza come un atto della ragione pratica dentro il continuo colloquio interiore26.

Per il magistero la coscienza è anzitutto luogo di incontro spirituale con la voce dello Spirito di Dio, luogo costantemente visitato da parole e in cui risuona la Parola, non esclusivamente come un richiamo a un “no”27, pur necessari, ma come continuo e multiforme invito positivo al cambiamento possibile, alla conversione desiderata, al bene praticabile, fatto di «piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati».28

«È stato scritto che per la Scrittura l’amore è dirsi “eccomi”, più che “ti amo”. L’obbedienza a questo “eccomi” è la fedeltà alle voci benefiche che risuonano nella coscienza».29

1 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e il governo di sé», in La Civiltà Cattolica III (2009) 29-41.

2 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 459-469.

3 GS 16.

4 AL 37.42(2x).83.149(2x).188.218.222(2x).265.279.298(2x).300(2x).302.303(3x).

5 John NEWMAN è citato dal CCC n. 1778. Cfr. John NEWMAN, La coscienza, Jaca Book, Milano 1999.

6 CCC n. 1777.

7 CCC n. 1778.

8 CCC n. 1780.

9 LF 4.

10 CCC n. 1784.

11 LF 26.

12 VS 41.

13 AL 37.

14 AL 301.

15 AL 269.

16 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 465.

17 AL 302.

18 AL 264.

19 Giovanni GRANDI, Alter-nativi. Prospettive sul dialogo interiore a partire dalla “moralis consideratio” di Tommaso d’Aquino, Meudon, Trieste 2015, 153.

20 Ibidem.

21 AL 137.

22 AL 145.

23 AL 303.

24 Evagrio PONTICO, Sentenze. Gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova, Roma 2010; Evagrio PONTICO, Contro i pensieri malvagi, Qiqajon, Magnano 2005; Giovanni IL SOLITARIO, Le passioni dell’anima, Qiqajon, Magnano 2012.

25 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016).

26 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 469.

27 Cfr. Asha PHILLIPS, I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano 2013.

28 AL 271.

29 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 469.

Teologia / Fidanzati, matrimonio, catecumenato: alcune note sul recente documento vaticano

vinonuovo.it – A metà giugno scorso è uscito, a nome del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, un documento dal titolo: Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale. Orientamenti pastorali per le chiese particolari. Come al solito un documento corposo, che dichiara due obiettivi espliciti.
Il primo è quello di «esporre alcuni principi generali e una proposta pastorale concreta e complessiva, che ogni Chiesa locale è invitata a prendere in considerazione nell’elaborazione di un proprio itinerario catecumenale per la vita matrimoniale» (n. 2). Quindi linee guida generali, che ogni chiesa locale considererà come «un vestito che va cucito su misura per le persone che lo indosseranno (papa Francesco, nella prefazione), per ristrutturare la pastorale di accesso al sacramento del matrimonio.

La crisi della famiglia e del matrimonio è sotto gli occhi di tutti. Il documento vuole tentare di essere «un antidoto che impedisca il moltiplicarsi di celebrazioni matrimoniali nulle o inconsistenti» (prefazione). Perciò, così come all’epoca del concilio di Trento l’istituzione dei seminari cercò di ridare spessore e qualità alla vita sacerdotale, ora si tenta di fare lo stesso con gli sposi. È questo è già un elemento positivo, perché finalmente si recepisce e si cerca di colmare una discrepanza tra differenti vocazioni, che lo stesso Papa evidenzia: «La Chiesa è madre, e una madre non fa preferenze fra i figli. Non li tratta con disparità, dedica a tutti le stesse cure, le stesse attenzioni, lo stesso tempo. Dedicare tempo è segno di amore: se non dedichiamo tempo a una persona è segno che non le vogliamo bene. Questo mi viene in mente tante volte quando penso che la Chiesa dedica molto tempo, alcuni anni, alla preparazione dei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa, ma dedica poco tempo, solo alcune settimane, a coloro che si preparano al matrimonio. Come i sacerdoti e i consacrati, anche i coniugi sono figli della madre Chiesa, e una così grande differenza di trattamento non è giusta» (prefazione). Dunque, oltre alla cura che la Chiesa, nei suoi vari organismi e gradi, riserva alla formazione al sacerdozio, così è necessario che medesima cura e simile attenzione, almeno nelle intenzioni, sia riservata ai fidanzati, dimostrando davvero che non esistono ‘preferenze’ tra vocazioni.

Ma ad attirare la nostra attenzione è anche il secondo obiettivo dichiarato nel testo: «Solo riscoprendo il dono dell’essere cristiani – nuove creature, figli di Dio, amati e chiamati da Lui – è possibile un chiaro discernimento sul sacramento nuziale, in continuità con la propria identità battesimale e come realizzazione di una specifica chiamata di Dio» (n. 45). In altre parole ci si è resi conto che dietro la crisi della famiglia e del matrimonio c’è una vera e propria crisi di fede. Perciò, non si può dare per scontato che le coppie che chiedono il sacramento siano coppie che effettivamente vivono la fede in Cristo. Così accade, ed è esperienza diffusa tra gli operatori pastorali, che «coloro che si affacciano alla preparazione al matrimonio con una esperienza di fede molto approssimativa e senza partecipare attivamente alla vita ecclesiale” (n. 35), “[…] oltre a fare un primo discernimento nel fidanzamento, hanno bisogno di approfondire la propria identità battesimale” (n. 37). Per questo motivi il percorso proposto ha le forme tipiche del catecumenato, cioè del cammino di ingresso (o riscoperta) della fede.

Nel percorso proposto sono soprattutto la prima fase (pre-catecumenale) e il primo tempo (accoglienza) della fase catecumenale, ad essere pensate come «annuncio del kerygma, in modo che l’amore misericordioso di Cristo costituisca l’autentico “luogo spirituale” in cui una coppia viene accolta» (n. 38).

Bella idea, abbiamo pensato. Visto che ancora qualcuno entra in Chiesa per sposarsi, quale occasione migliore affinché ciò diventi una riscoperta della propria fede, qualora essa si sia un po’ sopita…. Ed è apprezzabile che, in questo tentativo, si ipotizzi di dover ricominciare proprio dal fondamento della fede: il kerygma, cioè l’esperienza di essere toccati dall’annuncio gioioso della morte e resurrezione di Cristo, esperienza che può cambiare profondamente la mia vita. Era questa già un’intuizione di Evangelli Gaudium, che non a caso è citata nella nota 18: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti (EG 164-165).
In realtà, da tempo la nostra pastorale sperimenta come le forme e i modi che abbiamo di evangelizzare non siano per nulla in grado di andare in questa direzione. E da qui poi la necessità, ormai dichiarata da tutti di una nuova evangelizzazione. Ma è pure evidente come proprio su questo la Chiesa sia ancora quasi tutta al palo, e le strade concrete di questo “secondo annuncio” (come ben lo definisce E. Biemmi) siano ancora molto difficili da tracciare.

Il documento sembra essere consapevole di questa situazione tanto da dire che: «si rende necessario un serio ripensamento del modo in cui nella Chiesa si accompagna la crescita umana e spirituale delle persone» (n. 15). E, in effetti, ci prova ad aprire alcune prospettive di un “serio ripensamento”, almeno ad uno sguardo sintetico. Qui si aprirebbe un discorso anche sul tema dell’Iniziazione cristiana, che però non vogliamo prendere in considerazione al momento; già è bene aver detto che bisogne rivedere e ripensare i modi di accompagnamento della crescita.
Certamente, da ciò deriverebbe che la preparazione al matrimonio richiede una certa serietà e una maturazione, domanda tempo, cammino, verifica, condivisione. Che la dimensione umana della relazione sponsale non può essere separata da quella spirituale, perché altrimenti questa diventa una pure etichetta di “cristiano”, senza consistenza. Che chi è chiamato ad accompagnare le coppie in questi cammini deve avere una formazione solida, pluridisciplinare, relazionale e continuativa (su cui il documento anche interviene). Infine, che le comunità locali possono essere in grado di dare attuazione con creatività, elasticità e personalizzazione alle linee programmatiche. Già questo basterebbe, se realizzato davvero, a segnalare un “serio ripensamento” della pastorale media per le coppie. Perciò sarebbe già molto.
Ma temiamo che, scendendo in una lettura più analitica del documento, si mostrino alcuni aspetti che finiscono per essere veri e propri freni e impedimenti a questo stesso “serio ripensamento” dichiarato. Sembra che permangono alcune tensioni non risolte, talune spinte un poco contraddittorie.

Negli articoli successivi proveremo a mettere a fuoco, passo passo, tali nodi e tali tensioni, anche in dialogo con i lettori, perché ci sta a cuore che la riflessione sulla preparazione al matrimonio non sia solo questione di ‘addetti ai lavori’: come riconosce il papa, «Le coppie di sposi costituiscono la grande maggioranza dei fedeli, e spesso sono colonne portanti nelle parrocchie, nei gruppi di volontariato, nelle associazioni, nei movimenti»: in questo modo crediamo di rispondere anche a un appello dello stesso Francesco: «Faccio appello, perciò, alla docilità, allo zelo e alla creatività dei pastori della Chiesa e dei loro collaboratori, per rendere più efficace questa vitale e irrinunciabile opera di formazione, di annuncio e di accompagnamento delle famiglie, che lo Spirito Santo ci chiede di realizzare in questo momento» (prefazione).

Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale

Matrimonio alla Basilica di San Pietro: la Cappella del Coro

di: Papa Francesco
Un dono e un compito per la Chiesa. Si tratta degli «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale», uno dei frutti dell’Anno speciale dedicato alla famiglia, a cinque anni dalla pubblicazione della esortazione Amoris laetitia, che ora il pontefice, come spiega, affida ai pastori, ai coniugi e a tutti coloro che lavorano nella pastorale familiare, come strumento che risponde alla necessità di un «nuovo catecumenato» in preparazione al matrimonio. Riprendiamo di seguito la Prefazione del papa (qui il testo integrale degli Itinerari).

Settimana News

«L’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia» (Amoris laetitia, 1). Questa affermazione della relatio finalis del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia meritava di aprire l’Esortazione Apostolica Amoris laetitia. Perché la Chiesa, in ogni epoca, è chiamata ad annunciare nuovamente, soprattutto ai giovani, la bellezza e l’abbondanza di grazia che sono racchiuse nel sacramento del matrimonio e nella vita familiare che da esso scaturisce.

A cinque anni dalla sua pubblicazione, l’Anno «Famiglia Amoris laetitia» ha inteso rimettere al centro la famiglia, invitare a riflettere sui temi dell’Esortazione apostolica e animare tutta la Chiesa nell’impegno gioioso di evangelizzazione per le famiglie e con le famiglie. Uno dei frutti di questo Anno speciale sono gli «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale», che ora ho il piacere di affidare ai pastori, ai coniugi e a tutti coloro che lavorano nella pastorale familiare.

Nuovo catecumenato
Si tratta di uno strumento pastorale preparato dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita dando seguito a un’indicazione che ho espresso ripetutamente, cioè «la necessità di un “nuovo catecumenato” in preparazione al matrimonio»; infatti, «è urgente attuare concretamente quanto già proposto in Familiaris consortio (n. 66), che cioè, come per il Battesimo degli adulti il catecumenato è parte del processo sacramentale, così anche la preparazione al matrimonio diventi parte integrante di tutta la procedura sacramentale del matrimonio, come antidoto che impedisca il moltiplicarsi di celebrazioni matrimoniali nulle o inconsistenti» (Discorso alla Rota Romana, 21 gennaio 2017).

Emergeva qui senza mezzi termini la seria preoccupazione per il fatto che, con una preparazione troppo superficiale, le coppie vanno incontro al rischio reale di celebrare un matrimonio nullo o con basi così deboli da «sfaldarsi» in poco tempo e non saper resistere nemmeno alle prime inevitabili crisi. Questi fallimenti portano con sé grandi sofferenze e lasciano ferite profonde nelle persone. Esse restano disilluse, amareggiate e, nei casi più dolorosi, finiscono persino per non credere più nella vocazione all’amore, inscritta da Dio stesso nel cuore dell’essere umano.

C’è dunque anzitutto un dovere di accompagnare con senso di responsabilità quanti manifestano l’intenzione di unirsi in matrimonio, affinché siano preservati dai traumi delle separazioni e non perdano mai fiducia nell’amore. Ma c’è anche un sentimento di giustizia che dovrebbe animarci. La Chiesa è madre, e una madre non fa preferenze fra i figli. Non li tratta con disparità, dedica a tutti le stesse cure, le stesse attenzioni, lo stesso tempo.

Dovere di giustizia
Dedicare tempo è segno di amore: se non dedichiamo tempo a una persona è segno che non le vogliamo bene. Questo mi viene in mente tante volte quando penso che la Chiesa dedica molto tempo, alcuni anni, alla preparazione dei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa, ma dedica poco tempo, solo alcune settimane, a coloro che si preparano al matrimonio. Come i sacerdoti e i consacrati, anche i coniugi sono figli della madre Chiesa, e una così grande differenza di trattamento non è giusta.

Le coppie di sposi costituiscono la grande maggioranza dei fedeli, e spesso sono colonne portanti nelle parrocchie, nei gruppi di volontariato, nelle associazioni, nei movimenti. Sono veri e propri «custodi della vita», non solo perché generano i figli, li educano e li accompagnano nella crescita, ma anche perché si prendono cura degli anziani in famiglia, si dedicano al servizio delle persone con disabilità e spesso a molte situazioni di povertà con cui vengono a contatto.

Dalle famiglie nascono le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata; e sono le famiglie che costituiscono il tessuto della società e ne «rammendano gli strappi» con la pazienza e i sacrifici quotidiani. È dunque un dovere di giustizia per la Chiesa madre dedicare tempo ed energie alla preparazione di coloro che il Signore chiama a una missione così grande come quella famigliare.

Perciò, per dare concretezza a questa urgente necessità, «ho raccomandato di attuare un vero catecumenato dei futuri nubendi, che includa tutte le tappe del cammino sacramentale: i tempi della preparazione al matrimonio, della sua celebrazione e degli anni immediatamente successivi» (Discorso ai partecipanti al corso sul processo matrimoniale, 25 febbraio 2017).

È quello che si propone di fare il Documento che qui presento e di cui sono grato. Esso si articola secondo le tre fasi: la preparazione al matrimonio (remota, prossima e immediata); la celebrazione delle nozze; l’accompagnamento dei primi anni di vita coniugale.

Un dono e un compito
Come vedrete, si tratta di percorrere un importante tratto di strada insieme alle coppie nel cammino della loro vita, anche dopo le nozze, soprattutto quando potranno attraversare crisi e momenti di scoraggiamento. Così cercheremo di essere fedeli alla Chiesa, che è madre, maestra e compagna di viaggio, sempre al nostro fianco.

È mio vivo desiderio che a questo primo Documento ne segua quanto prima un altro, nel quale vengano indicati concrete modalità pastorali e possibili itinerari di accompagnamento specificamente dedicati a quelle coppie che hanno sperimentato il fallimento del loro matrimonio 10 e che vivono in una nuova unione o sono risposate civilmente. La Chiesa, infatti, vuole essere vicina a queste coppie e percorrere anche con loro la via caritatis (cf. Amoris laetitia, 306), così che non si sentano abbandonate e possano trovare nelle comunità luoghi accessibili e fraterni di accoglienza, di aiuto al discernimento e di partecipazione.

Questo primo Documento che viene ora offerto è un dono ed è un compito. Un dono, perché mette a disposizione di tutti un materiale abbondante e stimolante, frutto di riflessione e di esperienze pastorali già messe in atto in varie diocesi/eparchie del mondo.

Ed è anche un compito, perché non si tratta di «formule magiche» che funzionino automaticamente. È un vestito che va «cucito su misura» per le persone che lo indosseranno. Si tratta, infatti, di orientamenti che chiedono di essere recepiti, adattati e messi in pratica nelle concrete situazioni sociali, culturali ed ecclesiali nelle quali ogni Chiesa particolare si trova a vivere.

Rinnovamento pastorale
Faccio appello, perciò, alla docilità, allo zelo e alla creatività dei pastori della Chiesa e dei loro collaboratori, per rendere più efficace questa vitale e irrinunciabile opera di formazione, di annuncio e di accompagnamento delle famiglie, che lo Spirito Santo ci chiede di realizzare in questo momento. «Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi» (At 20,20).

Invito tutti coloro che lavorano nella pastorale famigliare a fare proprie queste parole dell’apostolo Paolo e a non scoraggiarsi di fronte a un compito che può sembrare difficile, impegnativo o addirittura al di sopra delle proprie possibilità.

Coraggio! Cominciamo a fare i primi passi! Diamo inizio a processi di rinnovamento pastorale! Mettiamo la mente e il cuore a servizio delle future famiglie, e vi assicuro che il Signore ci sosterrà, ci darà sapienza e forza, farà crescere in tutti noi l’entusiasmo e soprattutto ci farà sperimentare la «dolce e confortante gioia di evangelizzare» (Evangelii gaudium, 9), mentre annunciamo alle nuove generazioni il Vangelo della famiglia.