E’ morta da 904 anni. Ma tre sacerdoti dicono ancora messa per lei: è Matilde

Domenica 21 luglio alle ore 19.30 a Canossa presso la Casa di Preghiera “Piccola Nazareth” limitrofa all’antica Chiesa di S. Biagio, si svolgerà la Santa messa solenne a suffragio di Matilde di Canossa. Sarà una concelebrazione di tre sacerdoti che rappresentano idealmente le terre legate a Matilde: il parroco di Canossa, Don Mauro Vandelli – Unità Pastorale “Terre del Perdono”, dove la
grancontessa ha vissuto; Don Francesco Avanzi, della Parrocchia di Reggiolo, dove Matilde è morta all’età di 69 anni il 24 luglio del 1.115, nella località Bondeno di Roncore (attuale Bondanazzo); Monsignor Tiziano Ghirelli della Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che tanto si è speso per le Chiese matildiche e non solo.

Elisa Montruccoli, attrice, interprete di Matilde di Canossa

Con questa celebrazione intendiamo onorare un’eredità e un impegno che Matilde ha voluto e sottoscritto: possediamo un Preceptum, (di cui sarà data lettura da Maria Teresa Pantani), nel quale cinque anni prima della morte Matilde aveva scritto: “istituì (Alberico) che il giorno dell’anniversario della morte di lei fosse da celebrarsi da parte di tutti ovunque, in modo sontuoso e festivo, come abitudine che venga fatto ai grandi abati del monastero… e che ogni giorno fino alla fine del mondo, si metta da parte con molto zelo il pane, il vino e il resto del vitto di un monaco per un povero nella mensa principale, come si apparecchia ai singoli monaci, in nome di lei stessa, e l’elemosina sia distribuita assiduamente, fino a che ella vivrà…” e anche a riguardo di Arduino “il suo anniversario sia sempre celebrato con devozione con suono di campane fino alla fine del mondo sempre in tutti i nostri luoghi dove c’è un nostro ordine”. Il momento sarà reso solenne e festoso dalla voce del Soprano – Chiara Giroldini, accompagnata da Pierpaolo Curti al Pianoforte. La Messa solenne nasce dalla collaborazione e dalla volontà di ricordo di tutte le associazioni del territorio: l’Associazione Culturale “Matilde di Canossa”, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Canossa, l’Unità Pastorale Terre del Perdono, ed il Centro Turistico Andare a Canossa.

https://www.redacon.it/2019/07/20/e-morta-da-904-anni-ma-tre-sacerdoti-dicono-ancora-messa-per-lei-e-matilde/

Messa per Matilde e film sulla Grancontessa

Domenica 23 luglio, nel 902° anniversario dalla morte, ai piedi dello storico castello reggiano, si svolgeranno le celebrazioni in onore di Matilde di Canossa, organizzate dall’Unità Pastorale “Terre del Perdono”, dal Comune di Canossa, dalle Contrade storiche canossane, in costumi d’epoca, e dal Centro Turistico “Andare a Canossa” di Mario Bernabei.
Si comincia alle 18, sul belvedere che si affaccia sui noti calanchi, in vista di Rossena e Rossenella, con una messa solenne concelebrata da don Vasco Rosselli parroco di Ciano d’Enza e mons. Tiziano Ghirelli, direttore dell’Ufficio diocesano per i beni culturali di Reggio Emilia e membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sull’Architettura dei Luoghi per la Liturgia. La messa vedrà la presenza del mezzosoprano di Ciano d’Enza Pamela Ragazzini.
Seguirà un momento di incontro al locale bookshop, dove sarà possibile anche una degustazione di prodotti tipici.

All’imbrunire, sulla piazzetta, ai piedi della storica rupe, a lato dell’artistica statua che ricorda e celebra la Grancontessa, ci sarà la presentazione e proiezione del docufilm “In morte di Matilde di Canossa onore e vanto d’Italia vita d’Europa”. Il docufilm (trailer visibile su Youtube) coprodotto dal Consorzio Con.V.A. e dall’ Agriturismo “Madonna della Corte” con il patrocinio del Comune di San Benedetto Po e distribuito dal mensile Tuttomontagna di Michele Campani, è stato presentato per la prima volta nel 2015, in occasione delle solenni celebrazioni per il novecentenario matildico. La prima presso il cinema all’aperto dell’Abbazia Polironiana, successivamente al “Teatro Bismantova” di Castelnovo ne’ Monti e al “Teatro Comunale Matilde di Canossa” di Ciano d’Enza nell’ambito delle manifestazioni per l’annuale Fiera di San Martino.
Precederà la proiezione l’incontro con i registi Ubaldo Montruccoli, insegnante dell’Istituto Comprensivo “Giorgio Gregori” di Carpineti-Casina, appassionato cultore di storia della sua terra ed Elisa Montruccoli, imprenditrice agrituristica, attrice protagonista nel film e più volte valente interprete della figura di Matilde di Canossa in svariate manifestazioni storico rievocative, da diversi anni anche in Germania. La professoressa Clementina Santi, assessore alla Cultura per il Comune di Canossa e presidente dell’Associazione Scrittori Reggiani, illustrerà i luoghi, i personaggi e gli aspetti storico bibliografici inerenti al film.
“Nel docufilm, dai forti connotati introspettivi e caratterizzato da una rigorosa aderenza storica, viene coraggiosamente effettuata l’investigazione spirituale di un’anima, di una donna, di una regina, delle radici e dei segni forti di un passato glorioso, insomma dell’Epopea Canossana: la nostra Storia migliore.”
La serata sarà condotta dal giornalista Gabriele Arlotti. L’ingresso è libero.

Gazzetta di Parma

Anniversari Matilde la contessa di ferro

Mathilda, Dei gratia si quid est: «Matilde che, se è qualcosa, lo deve alla grazia di Dio». Una formula che parrebbe ispirata a una semplice, umile fede: e che invece è usata come motto sul sigillo di una gran signora che dominò, a cavallo tra XI e XII secolo, gran parte del regnum Italiae di tradizione carolingio-ottoniana dalla Lombardia al Lazio settentrionale.

La marca di Toscana, istituita da Carlomagno e grosso modo corrispondente ai confini della Toscana attuale, era d’altronde stata oggetto tra VI e VIII secolo di consistenti insediamenti longobardi: e, poiché il popolo longobardo chiamava i suoi capi con il titolo romano di duces («duchi»), ai marchesi franchi di Toscana si erano anche, tradizionalmente, attribuito il titolo di duca.
Eppure Matilde, figlia di quel Bonifacio conte di Canossa al quale nel 1027 l’imperatore Corrado II detto «il Salico» (in quanto appartenente alla dinastia di Franconia) aveva affidato nel 1027 quella che i Franchi chiamavano la marca e i longobardi il ducato di Toscana, amò sempre definirsi, ancora con apparente modestia, semplicemente «contessa»: un grado inferiore cioè nella nomenclatura del pubblico servizio romano-germanico, a marchesi e a duchi.

Eppure quel dichiararsi «qualcosa per la grazia di Dio» era molto di più d’una dichiarazione di modestia o di una formula teologica che attestava una rigorosa ortodossia antipelagiana. Era l’orgogliosa attestazione della fiducia di stare dalla parte di Dio e di eseguire la sua volontà: così come il vescovo di Roma, allontanandosi nel 1054 con lo scisma d’Oriente dalla fratellanza ecclesiale con il patriarca di Costantinopoli, aveva risposto alla superba autodenominazione di «patriarca ecumenico» da parte di questi dichiarandosi servus servorum Dei con una modestia gonfia d’orgoglio.

Il 1054 richiama a uno dei primi atti di quel grande movimento promosso da un gruppo di monaci e di alti prelati nel pieno XI secolo che è conosciuto dagli storici come «riforma» (la più celebre prima di quella del XVI secolo, che i cattolici definiscono di solito «protestante») e che condusse a partire dal settimo decennio di quel secolo a un durissimo scontro fra gli imperatori romano-germanici (pur protagonisti, nel secolo precedente, dell’avvìo di un robusto movimento di riorganizzazione e di risanamento morale del clero) e quanti intendevano liberare la gerarchia ecclesiale dall’egemonia dei poteri laici.

Una egemonia che fatalmente aveva condotto vescovi e abati a svolgere soprattutto funzioni di governo civile e che aveva fatalmente generato disordini morali quali la simonia (traffico venale dei divini uffici) e un diffuso concubinato, al quale nella Chiesa latina si rimediò – tra l’altro – istituendo il celibato del clero, che liberava i religiosi dalla tentazione di arricchire la propria famiglia sottraendo beni alla Chiesa.
Ne nacque quella contesa nota come «lotta per le investiture»: un violento confronto tra i papi e gli imperatori a proposito della scelta delle gerarchie civili e religiose e del loro rapporto istituzionale, il cui episodio centrale – immortalato anche da Luigi Pirandello nel suo Enrico IV – fu il celebre incontro di Canossa tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV di Franconia. Nel celebre castello dell’Appennino emiliano presso Reggio, la principale rocca del casato che appunto da esso desumeva il suo titolo, ebbe luogo nel 1077 un incontro di riconciliazione tra il capo della Chiesa e quello dell’impero, del quale Matilde (congiunta del sovrano ma amica, alleata e decisa sostenitrice del pontefice e del suo progetto riformatore) fu mediatrice.

Allora poco più che trentenne – era nata nel 1046 dall’unione di Bonifacio di Canossa con la nobilissima Beatrice di Lorena – Matilde fu anche in seguito protagonista delle tumultuose vicende che accompagnarono la prima fase della «lotta per le investiture» e che presiedettero anche, nel 1096, alla partenza delle colonne di guerrieri e di pellegrini verso quell’avventura, al principio enigmatica e perfino disordinata, che noi definiamo «prima crociata». La magna Comitissa, com’era chiamata Matilde, sarebbe morta nel 1115 a Bondeno, tra Mantova e Ferrara, nel cuore delle terre feudali padane dominate dalla sua famiglia.

Non stupisce pertanto che Matilde «di Toscana» sia stata studiata negli ultimi decenni soprattutto da specialisti della storia del medioevo «centrale» (i secoli X-XII) e «padano». Va ricordato fra tutti uno studioso eccezionale, il carissimo e ancor oggi vivamente compianto Vito Fumagalli, precocemente scomparso a metà degli Anni Novanta – era stato appena insignito del laticlavio senatoriale –, che sulla pianura padana dei secoli di mezzo ci ha lasciato ricerche di eccezionale profondità, spazianti dalla storia agraria a quella delle strutture mentali profonde.

Fumagalli ha dato vita a una solida scuola medievistica bolognese e ha studiato a lungo, fra l’altro, la storia di Matilde. Anche per questo si saluta ora con gioia la riedizione di un suo celebre saggio al riguardo, che costituiva l’Introduzione edita nel 1984 all’edizione del contenuto di un celebre manoscritto, il Codice Vaticano latino 4922, contenente il poema latino De principibus Canusinis più noto come Vita Mathildis, redatto dal benedettino Donizone – allora venticinque-trentenne – del monastero di Sant’Apollonio di Canossa in esametri latini del tipo detto «leonino».

Lo studio di Fumagalli è stato opportunamente riedito nel volume di Donizone, Vita di Matilde di Canossa (Jaca Book, pp. XVI-265, euro 28) appassionatamente e inappuntabilmente curato da Paolo Golinelli, che ci fornisce non solo il testo latino tradotto in fluido italiano e generosamente annotato – chi lo leggerà non “salti” le ampie note: sono preziose! – ma corredato anche da un sobrio, puntuale saggio introduttivo.

Chi pensa a un noioso componimento encomiastico si sbaglia. I versi donizoniani, ricchi d’un loro ruvido fascino, sono letteralmente pieni di notizie storiche vive, appassionate, talvolta perfino divertenti e non prive né di una punta di humour né, talora, d’un lontano sapore piccante e insinuante. Donizone è, in ciò, quasi degno antenato del suo quasi-conterraneo Salimbene da Parma, il principe dei cronisti francescani del Duecento. E Golinelli, ch’è ormai considerato il maggiore esperto europeo di studi matildici, si muove con agio e padronanza perfetti all’interno del «suo» testo prediletto.

La Vita Mathildis è una lettura ideale da consigliarsi a chi ritiene gli studi medievistici una cosa ostica, polverosa, desueta, inutile. O a chi continua a parlare di un «buio medioevo», magari accostandolo a certi orrori dell’età contemporanea che sono invece esclusivi, quelli sì purtroppo, di essa.

Ma le novità, in questo novecentenario della scomparsa della Magna Comitissa, sono sul serio molte. Fra le altre appare di grande interesse documentario e critico la raccolta di fonti Documenti e lettere di Matilde di Canossa, con testo latino e traduzione italiana a cura di Franco Canova, Maurizio Fontanili, Clementina Santi e Giordano Formizzi, che si giova di una puntuale postfazione – indovinate un po’ – ovviamente dell’onnipresente Paolo Golinelli (Pàtron, pp. 524, euro 38).

Avvenire

Centenari: Quando MATILDE disse no all’imperatore

Le femministe di oggi si stupirebbero constatando quanto contavano le donne tra XI e XII secolo. Certo, bisognava essere di nobile casato: le contadine, le pastorelle, le guardiane di porci e così via avevano scarso peso nella società, e nemmeno le mogli degli artigiani e dei mercanti se la passavano bene.

Ma le regine, le aristocratiche e le badesse – a loro volta di nobile prosapia – potevano assurgere a livelli di grande potere e di alta responsabilità. Basti pensare a Eleonora duchessa d’Aquitania, consorte prima di re Luigi VII di Francia e poi di re Enrico d’Inghilterra, madre di teste coronate e colta poetessa; a Ildegarda di Bingen, badessa, santa, mistica, astrologa e scienziata (e, si mormorava anche un po’ maga); a Eloisa, coltissima allieva di Abelardo, quindi sua appassionata amante e infine a sua volta badessa. Il secolo XII, quello delle cattedrali e delle università, è stato per eccellenza il secolo della devozione alla Vergine Maria e dell’invenzione dell’amor cortese.

Matilde contessa di Canossa e duchessa di Toscana, è il primo esempio di questo tipo di donna eccezionale. Nelle diafane mani di questa inflessibile signora cadde buona parte dell’Italia settentrionale: ed essa la governò destreggiandosi nell’eterogeneità dei diritti che l’autorizzavano a farlo. Era nata nel 1046 dalle nozze tra Bonifacio, marchese (o, come i toscani amavano dire secondo la tradizione longobarda, “duca”) di Toscana e di Beatrice di Lorena.

In seguito alla morte dei suoi tre fratelli rimase – ancora bambina, nel 1055 –, erede non solo delle terre sulle quali suo padre aveva esercitato per delega il potere pubblico (la marca di Toscana), ma anche di quelle affidategli a titolo beneficiario (e propriamente ‘feudali’) nonché di una quantità di beni ‘allodiali’ (cioè privati) che, misti a quelli feudali stessi, si estendevano nei comitati di Bergamo, Brescia, Mantova, il medio corso del Po e la Toscana. A ciò andavano aggiunti i vasti possessi lorenesi della madre.

Morto nel 1052 il marchese Bonifacio, Beatrice aveva sposato in seconde nozze Goffredo IV il Barbuto, duca dell’Alta e della Bassa Lorena il fratello del quale, divenuto papa Stefano IX, gli aveva affidato lo stesso ducato di Spoleto. Poiché Matilde era erede di un patrimonio immenso, il patrigno cercò di procedere a un’irreversibile unione dei casati di Toscana e di Lorena attraverso le nozze della figliastra con il di lui figlio Goffredo V, detto ‘il Gobbo’. Ma l’unione tra Goffredo e Matilde non avevano tenuto: e il duca era tornato pieno di livore nelle sue terre transalpine.

Nel 1076, Matilde si trovò ormai priva, a sua volta, della madre e del consorte, mentre si stava profilando tra papa Gregorio VII e imperatore Enrico IV la fase più dura della cosiddette “guerra delle investiture”. Matilde prese con energia le redini dei suoi dominii, legandosi alla causa del papa che le pose accanto, come accorto consigliere, Anselmo vescovo di Lucca.

E fu proprio alla rocca avìta del suo casato, a Canossa, che nel gennaio del 1077 avvenne l’incontro – il merito del quale la tradizione attribuisce alla mediazione di Matilde – tra papa Gregorio ed Enrico IV di Franconia che, riconoscendosi vinto, aveva implorato nella neve il perdono del pontefice. Ma la guerra riprese quasi subito, e l’imperatore poté addirittura insediarsi, nel 1081, in quella Lucca ch’era la principale città della marca. Fu proprio da lì che il sovrano la decretò deposta e bandita dall’impero in quanto rea di lesa maestà.

La sorte si era rovesciata, e tutto sembrava ormai perduto: Gregorio VII, assediato in Roma fu liberato solo dall’intervento dei suoi turbolenti vassalli normanni dell’Italia meridionale, ma finì i suoi giorni in amaro esilio. Matilde però, che aveva resistito, riuscì il 2 luglio del 1085 a battere a Sorbaia presso Modena i fautori dell’imperatore: dopo tale vittoria si ristabilì un equilibrio di forze, che permise alla magna comitissa (come la si definiva) di divenire il principale sostegno del partito della riforma, che aveva riacquistato lena sotto la guida di papa Urbano II.

Nel 1089 l’ormai quarantatreenne marchesa accettò il consiglio papale di sposare Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera e d’un quarto di secolo più giovane di lei. Si trattava di una solida alleanza antimperiale, che comportò comunque per Matilde un nuovo infelice legame nuziale: un solo figlio, nato da quell’unione, morì tuttavia
in tenera età.

Ormai divenuta la prima e irremissibile nemica dell’imperatore, Matilde fomentò e appoggio le successive rivolte contro di lui dei suoi figli, Corrado prima, Enrico poi; e si appoggiò alla potente casata comitale dei Guidi, in Toscana – sembra addirittura adottando il conte Guido II Guerra –, per ostacolare un’altra dinastia, gli Alberti, fedeli all’impero.
La morte di Enrico IV e l’ascesa al trono, nel 1111, di suo figlio Enrico V modificò di poco l’atteggiamento della marchesa nei confronti della casa imperiale di Franconia. Al punto che quando essa morì a Bondeno, il 24 luglio del 1115, essendo priva d’eredi essa lasciò la sede pontificia erede di tutti i suoi beni, sia di quelli feudali (che in quanto tali avrebbero dovuto tornare all’impero) sia di quelli allodiali – sui quali pesava l’ipoteca dei diritti ereditari, che a loro volta riconducevano all’impero.

Ciò fu causa di un’annosa questione, appunto detta “matildina”, che turbò i rapporti fra Chiesa e impero per circa un secolo e mezzo ma che non venne risolta nemmeno in seguito: al punto che, a metà Cinquecento, l’imperatore Carlo V si rifiutò di riconoscere il titolo di “granduca di Toscana” che il Papa disponendo appunto dell’eredità matildina aveva conferito a Cosimo I de’ Medici.

La magna comitissa fu sepolta nel monastero di San Benedetto di Polirone, presso Mantova. Nel 1632 le sue spoglie furono trasferite per volontà del papa a Roma, in San Pietro, e deposte in un monumento eretto dal Bernini. Il suo era stato un coraggioso e lungimirante tentativo di costruire, sulla base di terre provenutele da differenti linea di dipendenza, un organico principato feudale analogo a quelli che si andavano nello stesso periodo di tempo costruendo in Francia e in Germania. Forse, se avesse avuto un erede energico, il suo progetto sarebbe stato coronato da successo, tuttavia, difficilmente avrebbe potuto reggere dinanzi al prepotente insorgere della volontà autonomistica dei centri comunali toscani ed emiliano-lombardi, una forza nuova e originale di cui nulla di simile esisteva Oltralpe.

Mathilda, Dei gratia si quid est: il motto inciso sul sigillo di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, sembra respirare la stessa aura d’umiltà che aveva indotto pochi anni prima un papa a definirsi servus servorum Dei.

Il clima che ispirava questi motti era quello, rigoroso e appassionato, della riforma ecclesiale dell’XI secolo che liberò il clero latino – a prezzo tuttavia di molte violenze e di non pochi abusi – dalla simonia e dal nicolaismo, cioè dalle due piaghe della vendita venale delle cariche della chiesa e del concubinato. Ma c’è, al tempo stesso, un’accorta e dura rivendicazione politica in quel motto: dichiarando di essere «qualcosa, solo per grazia di Dio», la gran signora padrona di un “impero” che dal Tirreno toccava quasi l’Adriatico alla foce del Po e che dall’Umbria giungeva alla Lombardia sottolineava di dovere solo a Dio la sua potenza; e sembrava “dimenticare” la mediazione imperiale che in gran parte legittimava il suo dominio.

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