FILOSOFIA Rileggere Maritain e la sua “cristianità secolare”

Lo storico Giorgio Campanini difende la validità del progetto del pensatore francese, spesso frainteso in chiave politica E pubblica testi inediti sui rapporti con La Pira – >>> Libro acquistabile su Amazon a prezzo scontato 

Cinquant’anni di studi dedicati al pensiero francese novecentesco di ispirazione cattolica hanno fatto sì che Giorgio Campanini ne sia divenuto uno dei più competenti conoscitori. Egli si è fruttuosamente soffermato in particolare sulla figura e l’opera di Emmanuel Mounier (1905–1950) e di Jacques Maritain (1882–1973). E non per caso proprio quest’ultimo è il protagonista di un suo recente interessante lavoro ( Jacques Maritain. Per un nuovo umanesimo, Studium, pagine 168, euro 18,00), nel quale sono raccolti alcuni interventi che, fra i tanti, il nostro autore ha ritenuto meritevoli di essere riproposti all’attenzione dei lettori, in specie di coloro che si sono appassionati alle questioni relative alla ricezione del pensiero maritainiano in Italia, soprattutto nell’ambito della riflessione e dell’azione politica.

Anche gli scritti inediti presenti nel libro, che testimoniano il rapporto intercorso tra Maritain e Giorgio La Pira, dimostrano chiaramente l’importanza della dimensione politica del maritainismo italiano. Campanini esamina con grande cura tale dimensione, avvertendo che il “consumo politico” del pensatore francese non sempre è stato fedele alle sue più genuine intenzioni. All’indomani della pubblicazione di Umanesimo integrale, l’opera più nota di Maritain, al centro delle discussioni e degli approfondimenti si collocò la meditazione sul rapporto tra fede e storia, all’interno della quale occupava un rilievo del tutto speciale il tema della “nuova cristianità”. Si trattava di una questione non certo facile, come fa notare Campanini: «La “nuova cristianità” era una società che recava l’impronta del Vangelo nelle sue strutture o piuttosto nelle coscienze degli uomini che la componevano? Entrambe le prospettive sono presenti in Maritain e non sempre sono fra loro del tutto conciliabili». Il filosofo transalpino – annota l’autore – comprese che il modello della cristianità medievale, per quanto non privo di meriti storici, era ormai superato e non più proponibile. Egli pensò allora alla realizzazione di una “cristianità secolare”, che autorevoli studiosi hanno giudicato una realtà antinomica e contraddittoria. Campanini ritiene invece che il progetto maritainiano avesse una sua validità: «Maritain – egli scrive a questo proposito – aveva intuito che il “regno di Dio” poteva essere realizzato, o meglio preparato, attraverso la via “sacrale” dell’azione propriamente evangelizzatrice della Chiesa e quella “secolare” dell’impegno dei credenti nella storia». Come è noto, in merito a queste teorie si svilupparono innumerevoli dibattiti che fecero registrare polemiche anche piuttosto aspre, che si allargarono sino a coinvolgere la più generale questione del ruolo e del compito proprio dei laici. Inoltre, sul piano più squisitamente politico, collegata con le problematiche poco sopra accennate, si poneva la questione dell’opportunità o meno di dar vita a un partito dei cattolici. E, nel caso che tale formazione politica avesse visto la luce, quale avrebbe dovuto essere il suo rapporto con la Chiesa e il suo magistero? È nel contesto di tali questioni che Campanini situa la sua lettura di Maritain: i tempi sono indubbiamente cambiati, in molti casi in modo radicale, ma egli è convinto che tornare a leggere i testi del filosofo francese sia cosa sicuramente utile.

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De Lubac – Maritain uniti dal Sessantotto

Si potrebbe ricorrere a una vetusta dizione politologica della Prima Repubblica – «le convergenze parallele» – per spiegare il rapporto tra illustri esponenti del pensiero cattolico del Novecento. Parliamo di Jacques Maritain, filosofo molto vicino a Paolo VI, e Henri de Lubac, celeberrimo teologo esponente di quella nouvelle theologie (ma il gesuita di Lione respinse sempre questa etichetta) che la Roma pre-conciliare guardava con aperta critica e finanche condanna. Proprio tra i due esponenti dell’intellighenzia cattolica d’Oltralpe non potevano essere più lontane le posizioni teologiche, pur nell’ortodossia di ciascuno (il filosofo redasse il testo del «Credo del popolo di Dio di papa Montini»; de Lubac fu creato cardinale da papa Wojtyla nel 1983). Già, perchè il pensatore di Umanesimo integrale era appostato su posizioni neo-tomistiche (almeno inizialmente), mentre l’autore di Il dramma dell’umanesimo ateo può essere definito più chiaramente un agostiniano.

Le dissonanze, i due, non le celavano: nel 1956 il gesuita scriveva a Maritain di aver «letto e riletto più volte, amandolo molto» il suo libro L’esperienza mistica naturale. Per poi puntualizzare: «Vi aderisco per una grande parte, senza essere sicuro di potervi seguire completamente sino alla fine». Proprio sul tema della natura (e della sovranatura, soprattutto) i due si distanziavano: nel 1961, dopo la lettura del Peccato dell’angelo – sottotitolo «Peccabilità, natura e sovranatura» – de Lubac osava riprendere Maritain con il tono quasi sferzante dell’insegnante verso l’allievo: «Un piccolo dettaglio – gli scrisse nel post scriptum di un messaggio epistolare –. Suppongo che il titolo del volume non sia vostro. Ma perché questa parola “sovranatura” che invade la nostra teologia moderna? Non ha nulla della tradizione. La vera scolastica lo ignora. Mi pare una grossa confusione». Le differenze tra i due non devono far pensare a un’opposizione sprezzante o che rifiuta le posizioni dell’altro. Anzi: è quanto sottolinea il cardinale di Lione Philippe Barbarin nella prefazione di queste Corrispondance et rencontres (16 missive inedite) tra Henri de Lubac e Jacques Maritain, che le Editions du Cerf hanno da poco pubblicato in Francia (pp. 134, euro 14: le lettere sono in maggioranza a firma di de Lubac).

Barbarin parla di una capacità dei due intellettuali di «non abolire le differenze di punti di vista totalmente legittimi, insieme all’unica preoccupazione di cercare, scoprire e servire la verità». Un esempio, il «dissenso» teologico del duo transalpino, eloquente nel rifiutare un certo «conformismo intellettuale o la formalizzazione teorica che pretendeva – afferma ancora il cardinale – di fare la sintesi di molteplici accenti e prospettive che invece arricchiscono la Tradizione vivente». Comunque i punti di disaccordo tra i due intellettuali cattolici non sono rari. Ad esempio la questione Teilhard de Chardin. Maritain aveva avuto per il teologo-cosmologo parole molto dure ne Il contadino della Garonna, mentre riconosceva a de Lubac (8 marzo 1967) di essere, rispetto al confratello gesuita, «vicino all’intimo della sua vita spirituale, e questo ispira un profondo rispetto per la fedeltà con la quale lei difende la memoria di Chardin. A me sono le sue idee, il suo sistema e la sua influenza intellettuale che preoccupano». Ancora: il 10 agosto 1969 è di nuovo Maritain a segnalare rispettosamente «un leggero dissenso» a de Lubac sul tema del credere in Dio e credere la Chiesa: «Credere nella Chiesa non mi pare impreciso e per nulla condannabile», afferma il filosofo a differenza delle posizioni del futuro porporato.

Fin qui la divergenze. Fu invece nel post-Concilio che i due giganti del pensiero cattolico si ritrovarono su posizioni consonanti: sintonia anticipata, quasi un prologo, nella prima lettera di de Lubac all’intellettuale «montiniano», missiva che pubblichiamo qui insieme a un messaggio più recente del filosofo. L’elogio del gesuita si riferisce alla condanna che Maritain aveva fatto della «guerra santa» nell’ambito del conflitto civile spagnolo: «A differenza di alcuni teologi, Maritain rifiutava l’idea che il concetto di “guerra santa” potesse giustificare il sostegno al generale Franco», annota il curatore Jean-Miguel Garrigues. Sono più tarde però le consonanze effettive tra i due corrispondenti. Nel 1970 il religioso confida al filosofo la sua approvazione per la denuncia di Maritan circa «l’abuso di assemblee, commissioni, comitati, uffici – di quello che si inizia a chiamare (che orrore!) lo strumento dell’episcopato! Bisogna assolutamente che qualche vescovo, dotato di una forte personalità, osi affrancarsene». Ma i due convergono nettamente soprattutto sul rischio di quella che de Lubac drammaticamente chiama (il 13 marzo 1967: il concilio si è concluso da soli 2 anni!) «un’apostasia collettiva». Anzi, ancor più forte risulta l’allarme dell’antico nouveau theologien, le cui intuizioni (soprattutto la ripresa dei Padri della Chiesa e il ritorno alle fonti del cristianesimo) erano state fatte proprie dal Concilio. Dopo la lettura de Il contadino della Garonna che, come noto, faceva trasparire l’amarezza del «progressista» Maritain per gli esiti (dolorosi) del post-Concliio, de Lubac afferma: «A mio umile avviso, la vostra diagnosi sulla crisi attuale non è abbastanza rigorosa: si tratta di qualcosa di ben più grave che di “sottigliezze” e di “follie”. Esiste un movimento di fondo, che, se gli si cede, ci condurrà in poco tempo all’apostasia collettiva».

Lorenzo Fazzini – avvenire.it