6 gennaio. Tutto sui Magi: chi erano, da dove venivano, perché sono citati nel Vangelo?

Semplicemente sapienti o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? Partendo dai 12 versetti di Matteo, ricostruiamo la loro carta d’identità

I re magi: chi erano davvero?

I re magi: chi erano davvero? – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

I magi questi (s)conosciuti. Si potrebbe titolare così l’atteggiamento generale nei confronti dei “misteriosi” personaggi che il 6 gennaio portano i doni a Gesù Bambino, la cui carta di identità “ufficiale” (contenuta nel Vangelo di Matteo) è stata arricchita nel corso dei secoli da una lunga, fantasiosa e multiforme tradizione. Dunque conosciuti, anzi conosciutissimi, perché in ogni presepe che si rispetti non mancano mai, ma al contempo anche sconosciuti, perché nell’immaginario collettivo i confini tra realtà e invenzione sono spesso molto labili. Ad esempio: semplicemente magi o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? E con quale significato hanno un posto nella Scrittura?

A quest’ultima domanda molte sono le risposte nella catechesi, nella predicazione e nella teologia. Valga per tutte quella che diede papa Francesco nell’omelia dei 6 gennaio 2016: “I Magi – disse il Pontefice rappresentano gli uomini di ogni parte della terra che vengono accolti nella casa di Dio. Davanti a Gesù non esiste più divisione alcuna di razza, di lingua e di cultura: in quel Bambino, tutta l’umanità trova la sua unità”.

Per tutti gli altri quesiti vale la pena di soffermarsi su alcuni particolari. Anche perché nel loro viaggio attraverso il tempo, i magi hanno avuto una fortuna inversamente proporzionale al breve episodio di cui sono protagonisti nel Nuovo Testamento. Di essi infatti si narra unicamente nei primi dodici versetti del secondo capitolo del Vangelo di Matteo. E tutto ciò che ricaviamo sulla loro identità dal racconto dell’evangelista è racchiuso in tre semplici parole: “Giunsero da oriente”. Non si dice invece che i magi erano tre, né che erano re, né tanto meno si fanno i loro nomi. Da dove derivano, dunque, questi particolari? Attingendo al molto che è stato scritto sull’argomento da autorevoli studiosi, vediamo di separare il “grano” della storia dal “loglio” delle leggende.

Innanzitutto è da respingere la tesi formulata ai nostri giorni che i magi di cui parla Matteo non siano mai esistiti e che l’evangelista li abbia inseriti nella sua narrazione solo a scopo didattico: attestare cioè che la divinità di Gesù era stata riconosciuta presso tutte le genti fin dalla nascita.

Fa fede per loro la stessa parola magi, che è una carta di identità ben conosciuta nell’antichità. Quasi cinquecento anni prima che l’apostolo scrivesse il suo Vangelo, ne parla anche lo storico greco Erodoto, che li descrive come una delle sei tribù dei Medi, un antico popolo iranico stanziato in gran parte dell’odierno Iran centrale e occidentale, a sud del mar Caspio. Essi precisamente costituivano la casta sacerdotale ed erano perciò sacerdoti della religione mazdea (credevano nel Dio unico Ahura Mazda), il cui culto fu riformato nel VI secolo a.C. da Zarathustra. Coltivavano anche l’astronomia ed erano dediti all’interpretazione dei sogni, come attestano fonti storiche riguardanti, ad esempio, l’imperatore persiano Serse.

In quanto astronomi è dunque plausibile che si siano messi in viaggio seguendo una “stella”. Tra l’altro, nel loro credo si parla di un Messia o «Soccorritore», nato da una vergine e annunziato da una stella, destinato a salvare il mondo. A tal proposito lo storico Franco Cardini scrive: “Matteo, povero pubblicano, dei magi mazdei non doveva sapere un bel niente o quasi: com’è che con tanta sostanziale esattezza ha mostrato reminiscenze che noi conosciamo soltanto dall’Avesta, giuntoci peraltro attraverso redazioni tardive e non anteriori comunque al III secolo d.C.?”. L’Avesta è, potremmo dire, la Bibbia, ossia il testo della rivelazione, di quella religione.

La fantasia dei popoli e delle culture si è invece esercitata, lungo i duemila anni della storia cristiana, per dare un volto, un nome e un «curriculum» ai magi evangelici. E qui vengono in primo piano i Vangeli apocrifi, cioè non ispirati, che la Chiesa ha sempre tenuto a debita distanza in quanto sovente si tratta di elaborazioni derivanti da eresie (soprattutto quella monofisita, tendente ad attribuire a Gesù la sola natura divina, e quella nestoriana, che professa la totale separazione tra le due nature, umana e divina, del Cristo). I Vangeli apocrifi, però, erano molto diffusi e hanno dato linfa alle tradizioni stratificatesi tra l’VIII e il XII secolo dell’era cristiana. Ad ogni modo, come ricorda Cardini, la maggior parte delle nostre conoscenze tradizionali sui magi deriva da due fonti: la translatio delle loro supposte reliquie da Milano a Colonia, voluta da Federico Barbarossa nel 1164, e il testo del domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova alla fine del Duecento e autore della Legenda Aurea, testo composto tra il 1260 e il 1298, anno della morte dell’autore.

Probabilmente alla trasformazione dei magi in re ha contribuito anche l’interpretazione, per così dire estensiva, di alcuni passi dell’Antico Testamento, soprattutto Isaia 60,1-6 e Salmi 72,10. Nel primo passo si dice: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” e si fa riferimento anche a doni come oro e incenso. Nel secondo si elencano i re di Tarsis, di Sceba e di Seba, nell’atto di pagare tributi e offrire doni. E si conclude dicendo che “tutti i re gli si prostreranno dinanzi, tutte le nazioni lo serviranno”. Non è un caso unico in relazione alla Natività. Anche il bue e l’asinello, assenti dai Vangeli riconosciuti, sono probabilmente arrivati nel presepe grazie a Isaia 1,3: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”.

Il numero tre – altamente simbolico nella Scrittura – può invece essersi affermato in riferimento ai Magi per affermare che tutto il mondo aveva reso omaggio al Salvatore. Tre era infatti anche il numero dei continenti allora conosciuti. La presenza di un magio di colore completerebbe questo simbolismo, facendo riferimento alle popolazioni africane. Oppure potrebbe essere una deduzione dal numero dei doni: oro, incenso e mirra. Anche questo dal profondo significato simbolico: l’oro per la regalità di Cristo, l’incenso per la divinità e la mirra con riferimento alla morte di Gesù.

Più complesso appare l’enigma dei nomi. Baldassarre sembrerebbe avere un’origine babilonese-caldea, Gaspare iranica, mentre Melchiorre una provenienza fenicia. In questo campo, comunque, è inutile addentrarsi più di tanto in ricostruzioni storiche, dal momento che le tradizioni sono diverse da epoca a epoca e da popolo a popolo.

C’è poi un altro elemento che ha molto colpito la fantasia popolare: l’astro che guida i magi. Nel Vangelo di Matteo si parla genericamente di una “stella”. Quand’è che essa diviene una cometa, corpo celeste del tutto differente dalle stelle propriamente dette? Gli studiosi ritengono che la fonte in questo caso vada ricercata non negli Apocrifi (dove di cometa non si parla), ma nell’affresco di Giotto L’adorazione dei magi, dipinto dal grande artista nella Cappella degli Scrovegni a Padova, anche sulla spinta emotiva del passaggio della cometa di Halley, da lui vista nel 1301. Che cos’era dunque la stella dei magi? Gli studi più recenti, attestati anche da Benedetto XVI nel suo libro sull’infanzia di Gesù, portano a ritenere che si sia trattato di fenomeni celesti realmente avvenuti tra il 7 e il 4 a.C. (che sarebbe poi l’epoca dell’effettiva nascita di Gesù), come l’allineamento di alcuni pianeti (Giove e Saturno, soprattutto) nella costellazione dei Pesci, con un conseguente effetto ottico di straordinaria brillantezza.

Ma il destino errante dei magi non si sarebbe interrotto con il ritorno al loro Paese – “per un’altra strada”, come scrive Matteo. Sarebbe proseguito anche dopo la loro morte, avvenuta, secondo una leggenda, a Gerusalemme, dove dopo la risurrezione di Gesù essi sarebbero tornati per testimoniare la fede. Le loro spoglie sarebbero poi state ritrovate da sant’Elena, trasportate a Costantinopoli e in seguito donate a Eustorgio, vescovo di Milano dal 343 al 355 circa, il quale le fece traslare nella sua città. In loro onore edificò quindi una basilica (Sant’Eustorgio, appunto) nel luogo in cui il carro trainato da buoi, che trasportava il pesante sarcofago, si era impantanato nel fango.

Lì le reliquie rimasero fino al 1164, quando Federico Barbarossa se le portò a Colonia, nel cui duomo sono tuttora custodite. Attorno ad esso si svolsero tra l’altro alcuni degli eventi principali della Giornata mondiale della Gioventù del 2005, la prima di Benedetto XVI, proprio ispirata ai magi. Per una volta, si potrebbe dire, non furono essi a muoversi, ma i pellegrini ad andare loro incontro.

Non è superfluo notare, infine, che negli anni Ottanta del secolo scorso le reliquie di Colonia sono state sottoposte a esami scientifici. Ne è risultato che i tessuti sono di tre stoffe distinte, due di damasco e una di taffettà di seta, tutte di provenienza orientale e databili tra il II e il IV secolo. Le leggende, come si suol dire, hanno sempre un fondo di verità.

avvenire.it

I Magi? Forse erano quattro E di sicuro non erano maghi

Gaspare, Melchiorre e Baldassarre: i Magi sono tra i personaggi più amati del Natale. I loro nomi però non appaiono nei Vangeli dell’Infanzia. Il solo a parlarne è Matteo, che non precisa il numero dei «sapienti» venuti dall’Oriente. Il termine persiano da cui deriva la parola «magi» indicava un gruppo di sacerdoti pagani che approfondivano, tra l’altro, lo studio dell’astronomia. Questo spiega come mai i Magi siano stati così pronti ad avvistare la cometa.

Secondo il Vangelo non erano re, dunque, e di sicuro non praticavano incantesimi. Il numero tre, con i relativi nomi, viene da una tradizione successiva, che tuttavia non è l’unica. Secondo un’altra versione esisteva un quarto magio, Altabarre (o Artaban), che non avrebbe fatto in tempo a raggiungere Betlemme con gli altri, ma sarebbe comunque riuscito a incontare Gesù più tardi.

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Magi: quella stella che accese la Persia

Epifania: La visita dei misteriosi «sapienti» a Gesù in fasce? Le ricerche recenti mostrano che l’episodio ha un profilo storico consistente

(DI BARBARA FRALE – avvenire 5/1/2010)
 V
erso l’anno 670 a.C. il saggio Adadshum-usur scriveva u­na lettera al suo signore, il potente Assarhaddon che regnava sul popolo degli Assiri; in essa gli e­sprimeva un pensiero teologico complesso, ma di particolare bel­lezza:
  l’Uomo è l’ombra di Dio e gli uomini sono l’ombra dell’Uomo; è il Re che è l’Uomo, come una im­magine perfetta di Dio.
Al centro del suo discorso stava una figura misteriosa, un Uomo con la U maiuscola visto come una specie di essere speciale che fa da ponte fra l’umanità comune e la sfera del divino, diciamo pure un uomo di natura superiore con un piede sul­la terra e l’altro nei cieli. Adad­shum- usur era un astrologo reale, che tradotto nella realtà del tempo significava un grande saggio ovve­ro uno scienziato di primo livello.
  Nel mondo antico e anche nel me­dioevo l’astrologia era qualcosa ra­dicalmente diverso da ciò che è og­gi. Vi entravano da protagoniste la matematica, la geometria, l’astro­nomia, lo studio dei minerali ma anche le cognizioni mediche e le scienze naturali. Infine vi entrava la teologia, la scienza di Dio, che e­ra la somma e il compendio di tut­te
le scienze umane. Adadshum-usur era anche un sa­cerdote dell’antichissima religione di Ahura Mazda, originaria dell’I­ran e della Persia, ma poi diffusasi in tutto il Medio Oriente fino all’A­sia centrale e il Pakistan. Tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. il mazdeismo conobbe una impor­tante riforma ad opera di un sacer­dote di nome Zarathustra, dal qua­le fu in seguito chiamato anche zo­roastrismo. Secondo questa conce­zione all’origine di tutto stava il Dio Supremo o ‘Signore Sapiente’ (appunto Ahura Mazda), una figu­ra divina fatta di luce perfetta che ha creato tutte le cose con bontà e onniscienza infinita; ma il mondo è anche minacciato da uno spirito malvagio, Ahriman, signore delle tenebre e istigatore del peccato.
  Coinvolto ogni giorno in una lotta continua fra il bene ed il male, l’in­tero creato sarà alla fine riscattato e le anime dei peccatori, salvate dalla dannazione eterna, vivranno per sempre dentro corpi che non muoiono. L’apertura dell’era nuova sarebbe venuta all’apparire di Sao­shyant, letteralmente ‘il Salvato­re’, una figura intermedia fra gli uomini e il divino che avrebbe por­tato alla sconfitta del male. E pro­prio a questo Saoshyant, mediato­re speciale fra gli uomini e Dio, pensava probabilmente il saggio A­dadshum- usur quando parlava al suo reale patrono di quel Re che è l’Uomo, come un’immagine per­fetta
di Dio. Circa un secolo più tardi il popolo degli Ebrei si ritrovò in esilio a Ba­bilonia (598-586 a.C.) ad opera del re Nabucodonosor, e qui visse una stagione molto difficile per via del­la condizione di deportati ma an­che per l’avvilimento continuo provocato dalla netta differenza di costumi religiosi: gli Ebrei aborri­vano l’idolatria, veneravano il loro Dio unico Yahwé e lo considerava­no talmente al di sopra degli uomi­ni che proprio in quell’epoca co­minciarono a pensare che fosse ir­riverente addirittura pronunciarne il nome, perciò presero a chiamar­lo ‘Signore’; gli abitanti di Babilo­nia avevano invece idoli ovunque, ve­neravano divinità dalle forme mo­struose e praticava­no la prostituzione sacra. Ma nono­stante tutto vi furo­no anche impor­tanti momenti di incontro e persino un certo dialogo in­terreligioso che probabilmente ar­ricchì entrambe queste culture: di fatto gli studiosi dell’Antico Testa­mento hanno notato come la figu­ra del Saoshyant, il ‘Salvatore’ del­lo zoroastrismo e l’Uomo-Re di cui parlava l’astrologo Adadshum­usur, hanno tanti punti in comune con l’Uomo dell’Eden, un essere perfetto e privo di qualunque pec­cato descritto nel libro del profeta Ezechiele, la personalità religiosa più autorevole fra gli Ebrei depor­tati a Babilonia.
 I
n realtà il pensiero ebraico pos­sedeva già una lunga tradizione in questo senso, basata sull’i­dea che la salvezza del popolo d’I­sraele sarebbe venuta per l’arrivo di un’era nuova oppure di un per­sonaggio eccezionale: è un filone che percorre tutta la sua storia, e l’insgine storico dell’ebraismo Pao­lo Sacchi lo definice ‘teologia della Promessa’. Nel Deuteronomio sta­va scritto che Dio aveva promesso al suo popolo l’invio di un altro uo­mo straordinario com’era stato Mosè, una guida speciale: «Susci­terò per loro, in mezzo ai loro fra- telli, un profeta come te, porrò le mie parole sulla sua bocca, ed egli dirà tutto ciò gli ordinerò»; nel Li­bro dei Numeri (24, 17) il profeta Balaam figlio di Beor aveva prean­nunciato che l’ascesa di Israele sa­rebbe stata segnata da uno scettro e da una stella, e questo si interpre­tava in genere come la futura na­scita di un grande re. Sembra in­somma che durante l’esilio a Babi­lonia, forse grazie al dialogo inter­religioso con i sacerdoti dello zo­roastrismo, la spiritualità ebraica sviluppò in maniera più netta alcu­ni suoi concetti che in passato era­no rimasti come indefiniti. Fra questi c’era l’idea di un Messia (da
 masiach ,
‘consacrato’), un Unto del Signore che Israele attendeva per uscire dal tempo dell’afflizione e del peccato. Questa figura in pas­sato era vista soprattutto come il fi­glio di una dinastia regale, ma do­po il rientro da Babilonia cominciò ad assumere un profilo sempre più sacro: nel Libro di Daniele , compo­sto nel II secolo a.C., è descritta la figura misteriosa del Figlio dell’Uo­mo, un essere a metà fra l’umano e il divino che siede alla destra di Dio nell’Ultimo Giorno.
  Se è vero che alcuni aspetti della spiritualità ebraica maturarono at­traverso il contatto con la religione dei sacerdoti di Ahura Mazda, non sappiamo invece in quale misura la cultura religiosa di questi ultimi fu influenzata grazie al dialogo con gli Ebrei. Sta di fatto che una fonte greco-orientale del I secolo, più ge­neralmente conosciuta come
van­gelo secondo Matteo, descrive l’arri­vo nella regione della Palestina di alcuni illustri personaggi che erano ‘colleghi’ del saggio Adadshum­usur, vissuto seicento anni prima.
  E curiosamente si erano messi in viaggio perché avevano osservato nei cieli l’apparizione di una stella speciale, una stella che secondo il codice di significati della loro cul­tura
astrologica segnava la nascita di un grande re. La parola greca con cui il vangelo di Matteo chiama questi personaggi, magoi, è un ter­mine etnico preciso usato anche dallo storico greco Erodoto vissuto nel VI secolo a.C.: indicava alcuni membri dell’aristocrazia della Per­sia che erano proprio sacerdoti della religione di Zoroastro, si dedi­cavano agli studi di astronomia e praticavano anche esorcismi. Oggi alcuni studiosi pensano che il rac­conto della visita dei Magi a Gesù nascesse da una interpretazione teologica, cioè volesse sottolineare come il Cristo ignorato o addirittu­ra perseguitato dagli Ebrei (con ri­ferimento alla strage degli inno­centi ordinata da Erode), è invece onorato dalle genti straniere e pa­gane. Le ricerche recenti mostrano però che l’episodio riportato nel
 vangelo di Matteo
non solo è vero­simile, ma rivela anche un profilo storico piuttosto consistente.
 
L a tradizione cristiana dei se­coli successivi pensò ai Magi come a tre sovrani, interpre­tando in senso letterale il termine di reges che nel mondo antico po­teva anche riferirsi ai capi locali della maggiore nobiltà; e in base al numero dei doni che portavano – oro, incenso e mirra –, si immaginò che fossero tre: Gaspar, Melquior e Beltasar. Secondo la tradizione l’imperatrice Elena madre di Co­stantino, che realizzò una vera campagna di scavi archeologi a Gerusalemme, portò a Costantino­poli le spoglie mortali dei Magi in­sieme ad un frammento della Vera Croce e altre reliquie che aveva tro­vato a Gerusalemme; poco dopo le reliquie furono donate a Eustorgio vescovo di Milano, che nell’anno 344 fece costruire una basilica nel­la città con il desi­derio di esservi poi sepolto per riposa­re presso la tomba dei tre Re. A Milano i Magi restarono per molti secoli, finchè nell’anno 1162 l’imperatore Federico Barbaros­sa sconfisse la città in rivolta e decise di portare con sé le reliquie in Ger­mania, come eccezionale trofeo di guerra. Così le fece trasferire in un prezioso reliquiario e le collocò nel duomo di Colonia, dove si trovano tuttora. La storia dei Magi ha arric­chito tutta la tradizione dell’arte cristiana con l’oro e i colori sgar­gianti dei loro abiti esotici, e ancor oggi essi rappresentano tra le figu­re più belle dei presepi popolari.
  Nell’anno 1270, scrivendo il suo

 Milione ,
il viaggiatore veneziano Marco Polo annotava di aver visita­to a sud di Teheran la tomba di tre antichi sovrani lì sepolti, di cui gli abitanti del luogo non seppero però dargli informazioni. Ancora molti secoli prima, nell’anno 614, la regione della Palestina fu occu­pata dai Persiani di re Cosroe II; sebbene avessero distrutto tutti i luoghi di culto cristiani, risparmia­rono la basilica della natività a Be­tlemme. Sulla facciata della basili­ca c’era un mosaico bizantino che rappresentava l’Adorazione dei Magi: in base alle vesti e agli orna­menti, i Persiani avevano ricono­sciuto che erano grandi nobili della loro gente.
 Lo zoroastrismo attendeva l’inizio di una nuova era in cui Saoshyant, letteralmente «il Salvatore», una figura intermedia fra gli uomini e il divino, avrebbe portato alla sconfitta del male
Sembra che durante l’esilio a Babilonia la spiritualità ebraica abbia sviluppato in modo più netto alcuni suoi concetti che erano rimasti come indefiniti Fra questi l’idea di un Messia