Caravaggio: in Mostra i capolavori della collezione Longhi

Michelangelo Merisi, «Ragazzo morso da un ramarro» (1596-1597)

«La “cerchia” si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regole fisse; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari». Con queste parole Roberto Longhi, il grande critico e storico dell’arte scomparso a Firenze cinquant’anni fa, presentava la celebre mostra milanese del Caravaggio e dei caravaggeschi, allestita nel 1951 a Palazzo Reale, della quale fu commissario tecnico.

Allievo di Pietro Toesca all’Università di Torino e di Adolfo Venturi nella Scuola di perfezionamento in Storia dell’arte di Roma — città in cui risiedette stabilmente dal 1922 al 1934 e dove, tra l’altro, insegnò nei licei Tasso e Visconti, oltre che, come libero docente, all’Università La Sapienza — Longhi si innamorò giovanissimo di Michelangelo Merisi, sul quale discusse la propria tesi di laurea nel 1911. L’artista che si poneva «direttamente a fronte del vero», ossia ciò «che ogni giorno lo circondava», persuaso che «l’invenzione avviene per contatto immediato col vero, non per erudita ricapitolazione»; il pictor praestantissimus alla continua ricerca del «fondo di eterna comprensibilità umana» dei soggetti delle proprie opere; il genio che per la prima volta pensò a come «il destino sentimentale della figurazione» potesse «essere indicato da un elemento esterno all’uomo, non schiavo dell’uomo»; il maestro davanti ai cui occhi «il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto», fu per Longhi la passione di una vita.

E si deve soprattutto a tale passione, e a quanto ne scaturì in termini di interpretazione storico-critica, il fatto che uno «dei pittori meno conosciuti dell’arte italiana» tornò, dopo circa tre secoli di oblio, a essere “popolare”: «Il pubblico guardi bene, osservi come Caravaggio non sia l’ultimo pittore del Rinascimento ma piuttosto il primo artista dell’età moderna. Il pubblico guardi come Caravaggio si sia imposto di essere naturale, comprensibile, umano, piuttosto che umanistico; in una parola, popolare».

Un’esortazione, questa del 1951, che torna utile anche come introduzione alla mostra Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi. In scena nei Musei Capitolini fino al prossimo 13 settembre, l’esposizione ospita più di quaranta opere di quegli “spiriti liberi”, presenti «quasi tutti a Roma […], e da Roma presto diramatisi in tutta Europa», che durante il XVII secolo subirono l’influsso del Merisi e della sua “visione estetica”, da Longhi riassunta con le parole dello stesso artista: «Appresso di me un pittore valenthuomo è uno che sappi dipinger bene et imitar bene le cose naturali».

Si tratta di dipinti che costituiscono il nucleo più significativo della raccolta messa insieme negli anni dal critico e conservata a Firenze, nella sua villa Il Tasso, oggi sede della Fondazione a lui intitolata. Nelle sale di Palazzo Caffarelli sono in mostra, tra gli altri, quadri di Domenico Fetti (Maria Maddalena penitente), Angelo Caroselli (Allegoria della Vanità), Pier Francesco Mazzucchelli (Incoronazione di spine), Guglielmo Caccia (Angelo annunciante). E, ancora, i volti drammatizzati di cinque Apostoli di Jusepe de Ribera («tutti pervasi da un caravaggismo fiero e sorprendente, tale da ricordare persino il Velázquez giovine»), la Deposizione di Cristo di Battistello Caracciolo e il capolavoro di Valentin de Boulogne, quella Negazione di Pietro che evoca l’ambientazione della celebre tela caravaggesca di San Luigi dei Francesi, la Vocazione di San Matteo («di lui — scrive Longhi — non sappiamo altro se non che era un doganiere. E perché alle dogane, dove si cambia moneta, è pacifico che s’intavoli il gioco, nulla vieta che, per più naturalezza, Cristo, entrando oggi nella stanzaccia della dogana, chiami Matteo distogliendolo da una partita d’azzardo»).

Tra i maestri guardati durante la fanciullezza c’è anche Lorenzo Lotto — con quattro stupende piccole tavole risalenti al 1540 e raffiguranti San Pietro martire, un Santo domenicano in preghiera, la Madonna addolorata e San Giovanni Battista — uno di quegli artisti che, oltre a preparare la prima maniera “luministica” del pittore, «con la loro umanità più accostante, religiosità più umile, colore più vero, ombre più descritte e curiose e, in tutto, una disposizione a capir meglio la natura delle cose», sapevano tanto «mescolarsi con naturalezza fra gli uomini indivisi» quanto «camminare da soli e senza timore di mitologia in piena campagna».

“Pezzo forte” della mostra, al quale è riservata una piccola sala, il Ragazzo morso da un ramarro — realizzato dal Merisi tra il 1596 e il 1597, all’inizio del suo soggiorno romano — che Longhi acquistò all’inizio degli anni Venti e di cui nel 1930 fece una rielaborazione a carboncino, anch’essa presente all’inizio del percorso espositivo. Al termine del quale, uscendo, ritroviamo Roma, dove Caravaggio visse per quindici anni dando corpo a indimenticabili capolavori, alcuni dei quali si possono liberamente ammirare in tre chiese del centro. Qui il mondo si accorse per la prima volta della straordinaria novità delle opere del “dipintore” lombardo che per le strade della città incrociava quotidianamente garzonetti di osterie, “zingane” indovine, “giovani ciociarelle tradite”, doganieri, giocatori d’azzardo, pellegrini. Sono loro a inginocchiarsi, a pregare, ridere, a vivere nei suoi quadri, nei quali «il dirompersi delle tenebre» rivela ancora oggi «l’accaduto e nient’altro che l’accaduto».

di Paolo Mattei / Osservatore Romano