Ritrovati i corpi di 21 cristiani copti uccisi dal Daesh a Sirte

I resti di 21 cristiani copti uccisi, perché non hanno voluto convertirsi, in Libia nel 2015 dai jihadisti dello Stato islamico (Isis o Daesh) sono stati rinvenuti in una fossa comune situata nei pressi della città di Sirte, ex roccaforte degli islamisti nel Paese. Lo ha annunciato oggi l’unità di lotta al crimine organizzato di Misurata che risponde al ministero dell’Interno del governo di accordo nazionale di Tripoli.

I corpi di “20 uomini di nazionalità egiziana e di un uomo di una nazionalità africana non nota sono stati ritrovati grazie alle confessioni dei jihadisti del Daesh catturati” durante la battaglia per riconquistare Sirte, è stato precisato in un comunicato.

La fossa comune è stata scoperta venerdì 7 ottobre mattina. “Le teste sono separate dai corpi vestiti con tute arancione, mani legate dietro la schiena con filo di plastica”, ha aggiunto il ministero. I resti delle vittime sono stati trasferiti a Misurata e affidati a un medico legale.

Il 15 febbraio del 2015 il Daesh diffuse un video su internet in cui mostrava la decapitazione degli uomini presentati come 21 cristiani copti, in maggioranza egiziani, sequestrati il mese precedente nell’Ovest della Libia.

da Avvenire

La Libia, l’Italia, la pace possibile Costruire l’alternativa alla guerra

Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il presidente del Consiglio ha detto che «non è in programma una missione militare italiana in Libia». Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano: 1) il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico; 2) una minaccia alla sicurezza del nostro Paese; 3) la stabilizzazione della nazione nordafricana. La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.
A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali. Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 a oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, che anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre. Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.
Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale velivoli a pilotaggio remoto non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.
Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come extrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – «qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale». Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra Penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.
Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica. A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni: 1) a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli; 2) a coinvolgere gli Stati membri della Lega araba e dell’Unione Africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia Saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga; 3) a valorizzare lapartecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione; 4) a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo un’operazione di salvataggio in mare.
Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che, a vario titolo e in diverse organizzazione, operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.
Infine desideriamo rivolgere un appello ai a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia;
Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta;
Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace;
Mario Menin, direttore di Missione Oggi;
Filippo Rota Martir, direttore di Cem Mondialità;
Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia;
Riccardo Bonacina, direttore di Vita;
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia;
Claudio Paravati, direttore di Confronti;
Michele Boato, direttore di Gaia;
Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, direttori di Africa;
Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo;
Redazione di Mondo e Missione;
Antonio Vermigli, direttore di In dialogo;
Luca Kocci, direttore di Adista;
Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana
Avvenire

Oltre quaranta morti e 460 feriti in una battaglia tra milizie rivali a Tripoli

La guerra civile non è ancora finita in Libia

Tripoli, 16. La situazione resta esplosiva nella capitale libica dopo gli scontri di ieri, i più violenti dalla caduta di Muammar Gheddafi, che hanno causato 43 morti e oltre 460 feriti. Una manifestazione pacifica contro le scorribande di un gruppo di miliziani di Misurata – che spadroneggia in un quartiere della città – è degenerata in una violenta battaglia che rischia di prolungare la guerra civile tra i vari clan. Il premier Ali Zeidan, che alcune settimane fa era stato sequestrato illegalmente da miliziani e trattenuto per diverse ore, ha intimato a tutte le milizie armate di lasciare Tripoli, senza eccezione alcuna, definendo la situazione “pericolosa”.

(©L’Osservatore Romano 17 novembre 2013)

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PROFUGHI ERITREI Una battaglia di civiltà che è solo all’inizio

di GIULIO ALBANESE – avvenire

 Tripoli ha dunque ceduto alle pressioni italiane (soprattutto) e internazionali (meno convinte a livello governativo), concedendo l’agognato ‘permesso di soggiorno’ ai circa 400 migranti irregolari eritrei che rischiavano di fare una brutta fine nel deserto libico. La cautela è d’obbligo, non foss’altro perché la concessione avviene in cambio di «lavori socialmente utili». Una dizione che, secondo alcuni osservatori, potrebbe celare un’altra dolorosa punizione, quella dei lavori forzati. Per non parlare del fatto che la Libia non riconoscerà mai loro lo status di rifugiati per tutelarli. Andrebbe comunque ricordato che si tratta di una vecchia storia: in questi anni un altissimo numero di africani che tentavano di fuggire dall’inferno dei loro rispettivi Paesi – dal Darfur all’Eritrea, per non parlare della Somalia – sono stati lasciati morire o rispediti al mittente dalle autorità libiche, decretando di fatto la loro condanna alla pena capitale. Ecco perché lo scorso 29 giugno, dopo la ribellione degli eritrei al porto di Misurata, esplosa perché non potevano imbarcarsi per l’Europa, i profughi sono stati arrestati e deportati in massa in pieno deserto, lontano da occhi indiscreti e soprattutto da aiuto umanitario. Eppure, la Provvidenza ha voluto che scattasse una vera operazione di salvataggio, innescata da un semplice sms lanciato dalle roventi celle del campo libico di Brak di Sheba, e ripreso in Italia da una rete improvvisata di nostri connazionali, espressione eloquente di quella solidarietà fattiva che scorre nel sangue di tanta gente di buona volontà. Al contempo, andando al di là delle contrapposizioni nell’arena politica italiana, vanno riconosciuti sia l’impegno in questa penosa vicenda della nostra diplomazia guidata dal ministro Frattini, con una doverosa ‘pressione’ su Tripoli, in ottemperanza al trattato di amicizia italo-libico; come anche la sensibilità dell’opposizione nel richiedere e sostenere l’intervento governativo a seguito delle denunce di pestaggi e altre vessazioni. D’altronde, qualora questi profughi fossero stati rimpatriati, il regime di Asmara si sarebbe comunque vendicato nei loro confronti. Bisognerà ora vedere fino a che punto la Libia manterrà fede al proprio impegno, considerando anche i lavori socialmente utili che gli eritrei dovrebbero svolgere nelle prefetture libiche. Detto questo, è ormai evidente che l’Europa deve assumersi le proprie responsabilità, concertando un’azione politica comune, rispettosa del diritto d’asilo, nei confronti di quei migranti provenienti da Paesi vittime di regimi totalitari. Ben vengano dunque iniziative di monitoraggio sui diritti umani, come nel caso dell’ordine del giorno Marcenaro, accolto al Senato, che impegna il nostro governo a vigilare sull’applicazione del trattato di amicizia con la Libia. E come l’accoglienza in Europa, dunque anche in Italia, di profughi e rifugiati politici. Sono molti a credere che la distinzione oppositiva tra migranti economici ed esuli non possa essere interpretata rigidamente, come spesso avviene in Europa, in quanto la maggior parte delle persone in cerca di asilo oggi è anche un migrante economico. Sarebbe pertanto pretestuoso lavarsi la coscienza di fronte a questi drammi. Parafrasando un opinionista, equivarrebbe a una sorta di imperdonabile «analfabetismo emotivo».